Viviamo in un tempo che parafrasando Giosuè Carducci potremmo definire da “Odi barbare”, nel senso che riscontriamo ogni giorno un arretramento di tutti gli standard che dovrebbero costituire la base del vivere e del rispetto civile. Un inventario di tutti gli asset di questo degrado che si espande quotidianamente è addirittura difficile da mettere a punto. Accade di tutto e di più, ma quello che sconcerta è che ogni cosa diventa occasione di sterile chiacchiericcio, laddove tutto si risolve poi in una bolla di sapone. Si parla ormai a ritmo continuo di violenze e di stupri, di insulti, di offese gratuite lanciate contro tutti e spesso senza nemmeno uno straccio di giustificazione, si inveisce diremmo finanche contro il vocabolario facendo ricorso a parolacce e invettive da osteria (anche se non ci sono nemmeno più le osterie di unavolta). Quello che un tempo si sarebbe definito dibattito culturale per capire se non altro chi siamo, cosa vogliamo e dove possiamo andare, è totalmente assente, drammaticamente sostituito da un immarcescibile bar dello sport ingigantito peraltro dalle reti televisive nazionali e locali dove la regola è la sopraffazione verbale, ovvero gridare più degli altri senza farsi nemmeno capire (e qui i programmi sportivi sono l’esempio più fulgido).Ma c’è perfino di peggio. Il premio letterario più seguito (importante?) viene assegnato senza che la maggior parte dei giurati abbia letto i testi dei pretendenti (al di là del valore delle singole opere) e forse non è nemmeno sorprendente se si pensa che siamo in un paese dove tre quarti della popolazione dichiara di non aver mai letto un libro in vita sua mentre il cinquanta per cento degli studenti, in special modo al Sud, non capisce quello che legge. E poi la critica arriva semmai non da coloro che sono(sarebbero) deputati alla funzione ma semmai dal governatore della Regione che stronca uno scalatore/scrittore, abituale frequentatore di talk televisivi (ma lo fa non per segnalare demeriti letterari sibbene per il suo abbigliamento da pecoraio afgano). Sono solo alcuni esempi della decadenza di un costume (che per la verità non ha mai conosciuto particolari lustri se già Giacomo Leopardi lo stigmatizzava in un saggio del 1824) che sembra aver toccato ora limiti davvero impensabili e soprattutto imboccato una strada senza ritorno. La società è preda di tutti gli infernali “device” della tecnologia che annullano progressivamente l’unicità del “personaggio-uomo” livellando atteggiamenti umani e aspettative esistenziali. Tutto è per così dire esposto su un banco di vendita dove conta solo il prezzo ma ogni cosa si può acquistare. Si veda cosa sta succedendo nel comparto dello sporte del calcio in particolare con gli arabi alla conquista di mezzo mondo non grazie alle potenza delle armi ma in virtù della forza del denaro di cui dispongono. In questo senso il nostro Paese (che pure ha visto nascere Dante e Michelangelo, Leonardo e Giuseppe Verdi) rischia di diventare davvero una “periferia dell’impero” capovolgendo quello che secoli addietro aveva segnato la storia universale. Ma a quanto pare tutto viene accettato grazie alla venerazione del dio-profitto, un profitto beninteso che non riguarda esclusivamente la sfera economica ma che diventa motore di ogni gesto al fine di ottenere, costi quel che costi, un tornaconto di qualsiasi tipo: morale, materiale, politico, sessuale, ecc., mandando al diavolo valori consolidati quali lealtà, coerenza, fedeltà, solidarietà, senso del dovere in un coacervo di improntitudine e strafottenza che non a caso spesso tracima nell’odio e nel delitto. Antonio Filippetti
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