Negli ormai lontani anni ’60, ospite dei miei cognati e nipoti a Belgrado, sentii spesso canticchiare, in risposta alla domanda “Cosa v’è in Jugoslavia?”, i versi che qui traduco dal serbo-croato:
“ Vi sono sei Repubbliche, vi son cinque nazioni; vi sono quattro lingue, vi son tre religioni; vi sono due alfabeti, v’è un solo desiderio: pace, unità e indipendenza”.
Era vero. V’erano sei Repubbliche: Bosnia-Erzegovina, Croazia, Macedonia, Montenegro, Serbia e Slovenia; cinque nazioni: albanese (nel Kosmet), macedone, serbo-croata, slovena e ungherese (in Vojvocina); quattro lingue ufficiali: ghego. macedone, serbo-croato e sloveno; tre religioni: cristiano-cattolica, cristiano-ortodossa e musulmano-sunita; due alfabeti: cirillico e latino; un solo Stato federale e indipendente: la Jugoslavia. ssa è purtroppo, sul finire del sec. XX, implosa e alla pace, unità e indipendenza del Paese sono succedute irrequiezza, disunione, lotte fratricide e un pericolosissimo vuoto nei Balcani. Sono ritornato a P r i s ’ t i n a, capoluogo del Kosovo (o Kosova, in albanese), piccola città di 50.ooo abitanti, sita a 525 metri d’altitudine, nella parte orientale dell’omonima pianura. La vecchia città ha conservato il suo aspetto orientale: bianche moschee, strade anguste e sinuose, piccole case vecchiotte, ma di uno stile affascinante, un pittoresco mercato settimanale. Essa fu, come le altre città della regione, nel Medio Evo un centro mercantile importante, sulla strada che metteva in comunicazione Dubrovnik (Ragusa) e i territori orientali. Era famosa per le sue miniere. I suoi monumenti più interessanti sono la Moschea del Sultano, del 1491, e i bagni turchi, pure del sec. XV, e la consueta torre dell’orologio. La città era andata modernizzandosi dagli anni ’60 e la contrapposizione, oggi, fra le nuove costruzioni e gli antichi edifici di tipo orientale non manca di effetto. Nel periodo jugoslavo vi si svilupparono industrie alimentari e tessili. Nei dintorni si trova il famoso M o n a s t e r o d i G r a c ’ a n i c a , patrimonio mondiale dell’UNESCO. Seguo per otto chilometri la strada per Skopje e volto a sinistra a Laplje Selo. Grac’anica è a sette chilometri. Il monastero fu costruito nel 1321 dal Re Milutin Nemanjic’. Fu l’ultima in ordine di tempo e la più monumentale delle fondazioni di questo Re e residenza del Vescovo di Lipljan. Il monastero era allora famoso per la sua biblioteca, molto importante per l’epoca, che fu distrutta verso il 1380 da un incendio e in seguito ricostituita. Nella prima metà del sec. XVI, possedeva una tipografia in cui vennero stampati libri sacri, tra cui la preziosa opera chiamata Octoth, illustrata con tavole in legno, delle quali la più curiosa rappresentava la Chiesa di Grac’anica. Da manoscritti del tempo si sa che Grac’anica subì la stessa sorte degli altri monasteri serbi. Fu a più riprese saccheggiato e incendiato, poi ricostruito. Rimane pur sempre il meglio conservato della regione. La sua architettura ha conservato il suo aspetto grandioso; la sua decorazione interna, le sue sculture e i suoi affreschi hanno resistito molto bene ai danni provocati dagli uomini e dal tempo. Dopo essersi impadroniti della Macedonia e avere esteso le loro frontiere verso il meridione, i Serbi si trovarono a contatto con i monumenti dell’arte bizantina. E’ appunto in questo periodo che si costituì la scuola serbo-bizantina. Se, in questo stile composito, l’influenza bizantina fu predominante, gli artisti serbi mai copiarono pedissequamente i loro illustri maestri, onde l’architettura di Grac’anica, nonostante presenti tutte le caratteristiche della scuola bizantina, fu concepito con audacia innovativa rispetto ai modelli cui si ispirava. La Chiesa si distingue infatti per una ripartizione armoniosa delle parti che dà all’insieme dell’edificio maestosa grandiosità. La pianta delta costruzione ha una forma curiosa: comprende non una, ma due croci inserite l’una nell’altra, Quella interna s’eleva verticalmente, per cui l’edificio si innalza gradualmente verso la cupola centrale. La parte della costruzione compresa tra i due bracci è sormontata da quattro piccole cupole che equilibrano le masse centrali. Le volte ad arco spezzato della croce inferiore terminano esteriormente a semicerchio. Sulla croce interna e in alto archi spezzati delimitano le estremità. L’ubicazione dell’altare è contraddistinta esternamente da tre absidi: quella centrale, che è la più importante, è illuminata da un triforium, le altre due hanno una sola luce di scarsa grandezza. Al di sopra della porta principale si trova la tribuna dei catecumeni, in cui si sale per una scala a chiocciola che divide il portico. La decorazione esterna della Chiesa è austera. Il solo ornamento è dato dalle opposizioni, a volte davvero felici, dei toni dei mattoni, delle pietre e degli strati di gesso. Le finestre sono poco alte e le loro parti superiori sono ornate da mattoni, disposti a forma di raggi incrociati o a zig-zag, e incorniciate sempre da mattoni. I fregi in mattoni seguono le linee della cupola. Alla fine del sec. XV, fu aggiunto alla Chiesa un portico esterno e nel sec. XVI vi furono aperte delle arcate. Questa costruzione rompe l’armonia dell’edificio e diminuisce l’illuminazione della Chiesa dalla parte del portale occidentale, cosicché la navata inferiore rimane nella penombra. Le pitture del Monastero di Grac’anica, se si eccettuano quelle della navata esterna, sono modellate come le altre delle fondazioni del Re Milutin, che costituirono nella pittura serba del sec. XIV un gruppo isolato. Lo stile del sec. XIII, che per lungo tempo non aveva subito notevoli cambiamenti, mostra qui delle modifiche essenziali. I soggetti delle composizioni sono molto vari. Non si sono ugualmente ispirati ai Vangeli, che fino allora erano l’unica fonte di ispirazione degli artisti. Le pitture prendono ora tema dagli scritti apocrifi, dalle vite di Santi, dalla poesia sacra, dalla liturgia, quando non si limitano a illustrare il calendario, pretesto per evocare in modo curioso i mille aspetti della vita quotidiana. Il formato delle opere diminuisce, nel mentre aumenta nelle composizioni il numero dei personaggi. Si è ben lontani dalle attitudini ieratiche, dai temi prefissati da un angusto ciclo convenzionale. Gli affreschi di Grac’anica appartengono a tre epoche; i più antichi risalgono al 1321, sono i meglio conservati, i meno ritoccati, e il loro valore artistico è di gran lunga superiore. Sia la patetica evocazione dei diversi episodi della Passione che la raffigurazione dei giorni dell’anno, tema che diverrà popolare, hanno la freschezza del sentimento, la stessa fortunata composizione, la stessa spontaneità dell’esecuzione. L’Ultimo Giuramento, sulla parete occidentale del nartece, è una composizione magistrale, cui si ispirarono, più di una volta, i pittori russi. Tra il portico e la Chiesa, a mezzogiorno, si trova, secondo l’uso antico, l’immagine del donatore, Re Milutin, che presenta il modello della Chiesa. Gli sta di fronte il ritratto della Regina Simonica, celebre nell’iconografia serba. Sulla parete meridionale del portico interno, a destra, è la più antica illustrazione dell’Albero della famiglia Nemanjic’, a sinistra l’insieme dei ritratti dei parenti del Re Milutin. Sul lato meridionale della parete orientale il Battesimo è un affresco iu cui aleggia un sobrio puro sentimento. Al di sopra dell’entrata principale leggo due Inni alla B. Vergine, opere più recenti, della seconda metà del sec. XVI, che ornano il portico esterno, al posto in cui si aprivano prima delle arcate. Di qualità molto inferiore, sono però di un certo valore storico. E’ passato del tempo dalla proclamazione dell’indipendenza del Kosovo, il 17 febbraio 2008, e da allora l’albanizzazione del Paese non ha più trovato ostacoli. Ma la presenza serba, seppure ridotta ai minimi storici, resta una spina nel fianco del governo di Pris’tina ed è emblematco il caso dei Monasteri e delle Chiese ortodosse che hanno resistito ai saccheggi, alle profanazioni e alle distruzioni operate dagli ultrà islamici durante la guerra del 1999 e gli scontri antiserbi del 2004. Ma le monache di Grac’anica sembrano tranquille, grazie alla forza della comunità serba cittadina, qui aumentata proprio in questi anni dai 2.ooo ai 10.ooo membri, ben pronti e capaci – lo hanno già ripetutamente dimostrato – di saperle difendere. Ho rivisto P r i z r e n, cittadina di 31.ooo abitanti, posta nella valle omonima, a 420 metri d’altezza, ai piedi del monte Sara, alto m. 2.700, che la divide dalla Macedonia. E’ una delle città più seducenti dei Balcani. Le belle Moschee, le sue piccole vie brulicanti di gente, il suo attivo commercio, il mercato settimanale, contribuiscono a donarle un aspetto vivace. In epoca romana, Prizren si chiamava T h e r a n d a . Nel Medio Evo, era una prospera città che aveva un attivo commercio con la Repubblica di Ragusa. Nel sec. XIV, divenne la residenza degli Zar Dus’an il Grande e Uros’. In quell’epoca la città batteva moneta propria. Prizren è famosa per i suoi lavori in filigrana d’argento e d’oro, per i suoi merletti e per i suoi setifici. La fortezza di Prizren (Kaljaia), che difese per molti secoli la città, è intimamente legata alla sua storia. Si innalza su una collina che domina la città. La pianta dell’edificio è a forma irregolare. E’ formata da una parte elevata e da un’altra molto più bassa, circondata da mura e torri di varia forma. Il lato più vulnerabile era stato rinforzato da una doppia cinta di mura e torri. Le parti coperte della fortezza davano sucorridoi sotterranei, dei quali uno permetteva di andare lungo la collina fino al di sopra della sorgente della Bistrica. Quando i Turchi s’impadronirono della fortezza, la restaurarono e la trasformarono, per cui ora nulla rimane delle torri del Medio Evo. Il più grande e interessante degli edifici della città è la Chiesa di Sveta Bogorica Ljevis’ka, patrimonio mondiale dll’UNESCO, già incendiata nel 2004, in cui si scoprirono, nel 1950, 500 metri quadrati di meravigliosi affreschi del sec. XIV. La Chiesa fu costruita dal Re Milutin nel 1307, il che è testimoniato da un’iscrizione sull’altare. E’ una delle fondazioni a cinque cupole che si devono a questo sovrano. Fu residenza dell’Arcivescovo di Prizren e più tardi del Metropolita: nel sec. XVIII fu trasformata in Moschea. Per adattarla alle esigenze del loro rito, i Turchi ne avevano modificato alcune parti, poi l’avevano intonacata esteriormente e internamente con gesso. Solo nel 1950 furono intrapresi lavori di restauro per ridare all’edificio il suo aspetto primitivo. La Chiesa appartiene per la sua architettura alla scuola serbo-bizantina. La sua pianta ha la forma di croce latina. Di fianco alla cupola centrale, quattro altre piccole cupole decorative si elevano agli angoli dell’edificio. Una calotta, simile a quella di Grac’anica, sovrasta l’altare. Alla Chiesa primitiva furono aggiunti degli edifici laterali e, sul fianco occidentale, una costruzione che, grosso modo, corrispondeva al portico interno. Davanti a quest’ultimo, esternamente, ne fu aggiunto un secondo, formato da due piani e un’alta torre campanaria. La Chiesa è costruita in pietre e mattoni, secondo l’usanza orientale. La decorazione delle facciate,, nelle quali i mattoni si alternano con ornamenti di ceramica, è molto interessante per questi effetti di contrasto che non obbediscono ad alcuna simmetria. Gli affreschi, molto belli, scoperti nella Chiesa. risalgono ai primi anni del sec. XIV. Richiamando, per le grandi dimensioni e certe particolarità del colore, il legame che li unisce agli affreschi antichi, essi mostrano, per una libertà più grande, audace quasi, della composizione, il considerevole progresso dell’arte pittorica in quel periodo di transizione. Gli affreschi meglio conservati sono quelli dell’altare, delle colonne, delle parti inferiori delle pareti e delle cupole. Rappresentano ritratti di Santi, scene dei Vangeli ed episodi della vita terrena di Gesù Cristo. Il portico interno ha conservato una serie di ritratti dei Nemianjic’: Stevan Nemanja sul muro occidentale, Sveti Sava a mezzogiorno, Stevan Provenc’ani e Milutin a settentrione del primo affresco. Se si giudica questo interessante edificio dai tesori che vi sono stati scoperti, il duo valore artistico è considerevole e il suo valore storico non è inferiore. La Chiesa di Sveti Spas, situata un poco più in basso della fortezza di Prizren, non citata nei carteggi dello Zar Dus’an,. la cui costruzione risale alla prima metà del sec, XIV, è piccola e a pianta regolare, sormontata da una cupola. I materiali utilizzati per la sua costruzione sono la pietra e il mattone, i cui effetti di contrasto di tono sono sempre felici. Lanterne in terracotta, sormontate da croci, rompono la linea degli archivolte e delle finestre. Questa originaria costruzione fu in seguito circondata a levante, mezzogiorno e ponente dai muri di un tempio più ampio mai terminato. Gli affreschi che ornano l’edificio sono di gran lunga posteriori alla costruzione della Chiesa e di scarso interesse. La Moschea di Sinan Pas’a è situata al centro della città. Fu costruita nel 1615 da Sinan Pas’a, che utilizzò materiali del Monastero di S. Arcangelo, fondazione dello Zar Dus’an, fatta eccezione per le sculture, non conformi allo stile delle Moschee, né alle norme del Corano, per ciò che riguarda la decorazione. L’edificio era preceduto da un sagrato, che fu eliminato durante lavori previstier dal piano regolatore della città. Nelle vicinanze della Moschea, un ponte in pietra, che risale ai ss. XV-XVI, attraversa la Bistrica. E’ formato da tre arcate, delle quali la mediana è la più grande. A tre chilometri a sud-est di Prizren, visito le rovine della fortezza di Vis’egrad, del sec. XIV. Non lontano si trovano le rovine del Monastero di S. Arcangelo, una delle fondazioni dello Zar Dus’an, costruito negli nni 1348-52. Lo Zar, che voleva farne il suo mausoleo, gli aveva donato numerose terre e gli aveva concesso i privlegi propri delle fondazioni reali, ma esso fu saccheggiato e devastato dai Turchi quando conquistarono l città e le sue rovine servirono da materiale da costruzione della Moschea di Sinan Pas’a. Le ricerche archeologiche fatte sul luogo del Monastero hanno permesso di determinare la forma della sua pianta. I resti del mosaico pavimentaledanno un’idea di quest’opera famosa, che era stata celebrata dai cronisti del tempo. Le multicolori figure di leoni, pesci e animali fantastici che si stagliano su un fondo rosso sono di un sorprendente effetto decorativo. Questi preziosi frammenti si trovano attualmente nel Museo di Skopje, capitale della Macedonia. Da Prizren raggiungo, sulla strada per Pec’, il M o n a s t e r o d i V i s o k i D e c ’ a n i , posto ai piedi del massiccio di Prokletije, all’imbocco delle strette gole della Dec’anska Bistrica, vicino alla frontiera albanese, e lo rivisito. Dalle iscrizioni poste al di sopra del portale meridionale, si evince che la costruzione fu iniziata nel 1327 da Stevan III e Dus’an Dec’anski e terminata nel 1335. Fr. Vita da Kotor o. m. ne fu l’architetto. Come tutte le fondazioni dell’epoca, doveva ospitare il sepolcro del sovrano, che gli aveva concesso tutti i privilegi dei monasteri reali. Non restano che ben poche vestigia degli edifici antichi del Monastero e del muro che lo circondava. Su questi resti furono innalzate le costruzioni attuali. Solo la Chiesa può essere considerata come uno degli edifici religiosi meglio conservati del Medio Evo. E’una basilica composta da cinque parti. A oriente si trova l’altare formato da tre parti, a occidente il portico, pure formato da tre parti. La parte centrale è sormontata da una cupola sostenuta da una base cubica. Essa è un esempio degno di nota di queste costruzioni in cui i caratteri degli stili romanico e gotico si allineano con quelli dello stile bizantino e con i caratteri tradizionali dell’architettura autoctona. L’interno della Chiesa, di vaste dimensioni, è diviso da contrafforti e pilastri ottagonali di marmo. Due sagrati, a lato delle parti di fianco della Chiesa, sono separati da queste da piccole lastre che formano due cappelle: quella a mezzogiorno è consacrata a S. Nicola di Bari, vetratissimo dagli Ortodossi, quella a settentrione a S.Demetrio (SvetiDimitri). L’altare, che ingloba circa la metà dei tre elementi della parte centrale della navata, comprende, oltre all’altare principale, il più alto e vasto, la proscormide a settentrione e il diakonikon a mezzogiorno, separato da un muro pieno, in cui si trova ora il tesoro. Queste tre parti dell’altare, come le parti laterali, terminano a oriente con absidi in emiciclo. Il portico, costruito nello stesso tempo della Chiesa, è largo quanto l’altare. E’ sostenuto da quattro pilastri ottagonali ornati da capitelli. Le volte, a forma di croci rinforzate da sostegni trasversali, dominano la parte superiore della Chiesa. L’esterno è rivestito da lastre di marmo giallo chiaro alternato da lastre rosa. Le sculture, che ricordano quelle di Studenica, senza raggiungere la loro rara delicatezza di esecuzione, sono di pietra giallo-grigia. Le diverse parti dell’edificio sono, all’esterno, affiancate a contrafforti spinti leggermente in avanti, il che interrompe la monotonia delle grandi facciate. Le microarcate del sottotetto, che girano lungo tutto l’edificio, sono ornate di figure fantastiche, rappresentanti strani animali, teste di mostri e piante stilizzate, in un sorprendente disegno fantastico. I due triforia, uno al di sopra del portale occidentale del portico, l’altro nell’abside centrale, sono, con quelli di Studenica, i migliori esempi di scultura serba. Gli affreschi del monastero di Dec’ani risalgono al 1335-40 e sono opera di pictores Graeci, come lo spiega il none d’uno di loro, Srdj Gres’ni, e come lo attesta il loro stile. Quegli artisti, occidentalizzanti, possedevano in modo ammirevole la tecnica dell’affresco. I loro lavori, nonostante i secoli, hanno conservato la loro freschezza primitiva. Le illustrazioni dei testi sacri sono stupefacenti per l’abbondanza dei temi e la ricchezza di ispirazione. Più di 1.ooo composizioni coprono le pareti e la volta dell’immenso edificio. Come in Occidente le sculture delle Cattedrali gotiche, le pitture del Monastero di Dec’ani offrono una vera e propria enciclopedia illustrata della vita privata e pubblica del Medio Evo. Quest’arte cominciava a perdere il monumentale carattere ieratico delle sue origini per divenire più familiare, più vivo, più ricco di particolari su costumi e usanze. Gli affreschi del portico raffigurano, unitamente alla leggenda di S. Giorgio, una serie di 365 composizioni dedicate ai giorni dell’anno solare, tema che si ritrova in numerose rappresentazioni di Concili, in ritratti, e anche nell’albero genealogico dei Nemanjic’. Questi del portico sono dello stesso stile degli altri affreschi, ma più notevoli per la perfezione dell’esecuzione. Fra gli affreschi della navata, quello che raffigura gli Atti degli Apostoli è degno di interesse, in quanto questo soggetto appare molto raramente nell’arte bizantina. Nella parte meridionale dell’edificio si trova la più antica composizione, conosciuta come l’Innodella Vergine del Patriarca Sergio. Il quadro dell’abside meridionale, che ne illustra l’ultima strofa, contiene, al di sopra di un’icona della B. Vergine, i ritratti della famiglia imperiale: quelli dello Zar Dus’an, di sua moglie Elena e del loro figlio Uros’. Il testo dell’inno domina nel quadro. Tra le finestre lungo i muri, i soggetti delle pitture non sono posti orizzontalmente l’uno di fianco all’altro, come era tradizione, ma verticalmente in cornici decorate. Ne risulta un effetto ornamentale più notevole, ma la lettura degli affreschi è resa più difficile. Una piccola iconostasi lignea dell’epoca decianschesca è stata conservata nella navata, mentre una grande iconostasi, del sec, XIX, è al posto tradizionale. Le colonnette con capitelli, che sostengono l’architrave, posano su pilastri composti da lastre che delimitano la parte inferiore dell’iconostasi. E’ questo un tipico particolare dell’architettura serba, che risale al sec, XIV. Due semplici sarcofagi in pietra, che, secondo quanto mi è stato detto la prima volta che vi venni, avrebbero accolto le salme di Dec’anskI e della sorella, sono nella navata. Un altro, policromo, di delicata lavorazione, risale sicuramente al sec. XIV. Un lampadario bronzeo, composto da otto larghi bracci uniti da una croce, decorato con fiori e animali, in metallo cesellato, è appeso alla cupola con otto lunghe catene. La grande Croce lignea, che ornava l’iconostasi del 1594, è rimasta al suo posto primitivo. E’una delle più belle dell’epoca, decorata con una pittura in stile trecentesco, e rappresenta Gesù Cristo, la B. Vergine e S. Giovanni Crisostomo. Dec’ani è uno dei pochi monasteri che abbia conservato nel suo tesoro una considerevole porzione dei suoi antichi paramenti sacri, nonostante le distruzioni, i saccheggi, gli incendi e cinque secoli di dominazione turca. Il tesoro del Monastero contiene anche una biblioteca molto ricca di manoscritti, 150 opere, che vanno dal sec, XIII al XIX, ornate da delicate miniature, e una biografia su Dec’anski, del Camblak, posteriore al 1402. Fra le preziose icone, vanno citate le grandi immagini del sec, XIV dette stajac’ice (ritratti in piedi), appartenenti all’antica iconostasi, della B. Vergine con Gesù Cristo e di S. Nicola e l’Arcangelo in costumi reali, Né può passare inosservata l’ icona della B.Vergine del Cristo Pelagonico, così detto dal nome dell’antica Pelagonia, posta nei dintorni dell’attuale città di Bitola (Monastir), in cui questa specie di icone era in auge nel se. XIII. Fra le icone del sec. XVI si notano le opere dello Sves’tenik Longin e quelle, bellissime, della SS. Trinità e dell’Ascensione, di autori ignoti. Il tesoro contiene anche preziosi oggetti metallici, delicatamente lavorati, fra i quali: una piccola Croce dorata, dono dello Zar Dus’an; una seconda Croce dorata, decorata con filigrane e smalto, offerta da Stevan Dec’anski; 2 campane del sec. XV; una coppa dorata del sec. XVI; un Vangelo rilegato in ferro battuto e dorato, etc. Fra i paramenti sacerdotali il pezzo più prezioso, per la bellezza del suo tessuto e la perfezione del lavoro, è una pianeta del sec. XVI. Dec’ani è classificato patrimonio mondiale dell’UNESCO e tuttavia iscritto nella lista dei monumenti in pericolo, senza che nessuno si curi di liberare l’umanità da chi in pericolo lo mette. Raggiungo la vicina P e c ’ , cittadina di 15.ooo abitanti molto pittoresca, situata a m. 520 di altitudine, sulla Bistrica di Pec’, non lontano dall’imbocco della famosa Gola di Rugoso, ai piedi del monte Koprivnik, alto m. 2.460. Con le sue botteghe multicolori, le sue strette strade affollate, le sue bottegucce di artigiani e i suoi meravigliosi giardini, le sue moschee e le sue torri, i suoi ruscelli e le sue fontane, il bisettimanale mercato, essa ha conservato tutta la seduzione delle piccole città orientali, pur se negli ultimi anni ha subito profondi cambiamenti. Pec’, che è rimasta il centro intellettuale della Metohija, è citata fin dal sec. XIV come centro degli scambi commeciali con Dubrovnik. Le sue incisioni su legno e le sue filigrane sono sempre degne del loro antico valore. La città, in maggioranza albanofona, è stata per secoli sede del Patriarcato Serbo, che non ometto di rivisitare. La storia del Patriarcato di Pec’, i cui inizi risalgono ai primi anni del sec, XIII, è interamente legata a quella dello Stato serbo del Medio Evo, dai suoi anni di apogeo fino al suo annientamento da parte dei Turchi. Nei dintorni di Pec’, all’epoca di S. Sava, si era stabilita una parte dei monaci del Monastero di Zic’a (Kraljevo).Dato che Zic’a si trovava all’estremità del Paese, venne stabilito di trasferire la sede arciepiscopale in una località meno esposta. L’Abate di Zic’a, divenuto poi l’Arcivescovo Arsene I, scelse per edificarvi il suo Monastero un luogo all’entrata della Gola di Rugoso e vi fece costruire la Chiesa dei SS. Apostoli ( Sv e ta A p o s t o l a ). Dopo il 1253, quando il Monastero di Zic’a venne assai danneggiato dai Bulgari e dai Comneni, la sede dell’Arcivescovato fu definitivamente traderita a Pec’. Dopo questa data, eccetto qualche breve interruzione, e fino al 1766, la città rimase la sede degli Arcivescovi e dei Patriarchi serbi. Negli anni 1321-24, l’Arcivescovo Nikodim fece costruire la Chiesa di S. Demetrio ( S v e t i D i m i t r i j e ), a ridosso del muro settentrionale di Sveta Apostola. Un po’ più tardi, verso il 1330, l’Arcivescovo Danilo II fece costruire la Chiesa della Vergine Odigitrija ( B o g o ro d i c a ) , come pure la Cappella di S. Nicola. Fece, in seguito, costruire a mezzogiorno un portico che metteva in comunicazione le sue Chiese. Nel 1346, sotto il regno dello Zar Dus’an, l’Arcivescovo di Pec’ fu elevato al rango di Patriarca. Dopo la caduta dello Stato medioevale serbo,il Monastero del Patriarcato ( M o n a s t i r P a t r i j a r s ‘ i j a ) di Pec’ fu enormmente danneggiato. Nel 1557, il Patriarca Makarije Sokolovic’ fece restaurare e ridipingere il portico di Danilo II. Verso il 1620, sotto il Patriarcato di Pajsije, furono di nuovo intrapresi importanti lavori di restauro. Sveti Dinitrije fu restaurata, il tetto rifatto, gli edifici resi più solidi, le pitture ritoccate. Nel 1670, il Patriarca Maksim fece eseguire gli affreschi dell Cappella di S, Nicola. Nel sec. XVII, dopo le emigrazioni serbe che ebbero luogo sotto il Patriarca Arsenije C’arnojevic’, il Patriarcato sopportò nuove prove: il Monastero fu saccheggiato e devastato più volte dai Turchi. Nel 1766 con un editto del Sultano Mustafà III venne abolito il Patriarcato di Pec’ Gli edifici del Monsastero continuarono per un po’ di tempo a essere abitati, poi furono abbandonati. All’inizio del sec. XX, erano in grave stato di rovina. Erano stati ritoccati con gesso all’esterno; gli antichi affreschi erano stati ricoperti di calce, o da altre pitture eseguite nel sec. XIX. Lavori giudiziosi di pulizia e di restauro furono effettuati nel corso degli anni 1931-32. Dopo la proclamazione del 17 febbraio 2008 dell’indipendenza del Kosovo, non riconosciuta dalla Serbia, l’albanizzazione della regione non ha trovato più ostacoli. Ma la presenza serba, della quale il Patriarcato di Pec’ è il cuore, è oggi il simbolo della resistenza dei Serbi rtmasti nel Kosovo e del loro diritto a coesistere in quel territorio con gli Albanesi e a preservare i monumenti che testimoniano della loro storia. Militari italiani della KFOR li presidiano con efficiente solerzia, ma una minaccia pesa ancora su questo luogo, simbolo di un problema irrisolto, che continua a gravare nel cuore dell’Europa. Nulla importa che l’UNESCO continui a classificare i tesori della Chiesa Ortodossa di Serbia nel Kosovo patrimonio dell’umanità, se è poi costretta a inserirli nella lista dei monumenti in pericolo e ONU, NATO e UE manifestano chiaramente di non essere in grado di proteggerli o, per machiavellico disegno, preferiscono non farlo. Il conflitto etnico e religioso che ha visto contrapporsi Serbi ortodossi e Albanesi sunniti nell’antica provincia autonoma della Repubblica serba alla fine degli anni ’90 ha cambiato radicalmente i rapporti tra i due popoli per secoli pacificamente convissutivi e questo mutamento è stato devastante: l’intera regione è stata sommersa da un odio latente, alimentato non solo da un nazionalismo esasperato e da un riprovevole estremismo religioso, peraltro fomentati da indebite ingerenze straniere, che la stanno distruggendo. A dare inizio a tale distruzione ha contribuito largamente la NATO – non lo si dimentichi - con i suoi bombardamenti dai campi pugliesi di Amendola e Gioia del Colle del 1999: più di 150 edifici religiosi, di cui circa 60 di epoca medioevale, ne furono distrutti o danneggiati gravemente. La Chiesa della Madredi Dio di Musutis’te, vicino a Suva Reka , nel sud del Kosovo, fondata nel 1315, è stata, poi, fatta esplodere. Il Monastero di Dolac, vicino Klima, è stato letteralmente raso al suolo. Il braccio di ferro tra le fazioni estremiste dei due popoli potrebbe continuare all’infinito, pur se non manca nella maggioranza del ceto intellettuale della popolazione, invece, il desiderio di pace. Le forze della NATO, sinora qui impegnate, minacciano il ritiro. Dai 13,ooo uomini presenti nel 1999 sono passate quest’anno a 6.ooo. Nel 2013 dovrebbero abbandonare la custodia attuale del Patriarcato di Pec’ e nel 2014 quella del Monastero di Visoki Dec’ani. Entrambi chiedono invece che la KFOR vi resti. Si teme che vengano nuovamente colpiti, come negli anni 1981-99, e forse distrutti. Già la Chiesa di Sv. Bogorica Ljeviska a Prizren, già parzialmente incendiata nel 2004, è oggi protetta da un solo poliziotto kosovaro. Una cosa è certa: i monasteri serbo-ortodossi delKosovo non possono dirsi ancora zona franca, sono minacciati di distruzione, ma questa volta la Russia e gli altri Paesi ortodossi non resteranno a guardare. Vorranno dei fanatici, nella generale indifferenza, farci rischiare un terzo conflitto mondiale? |