Durante il viaggio di ritorno da Roma, ove s’era recato a conferire col Ministro degli Esteri Galeazzo Ciano sulla definizione di questioni politiche, economiche e militari pendenti tra Italia e Albania, alla Legazione di Tirana, il nostro Ministro Francesco Jacomoni di San Savino, fu sorpreso, il 15 marzo 1939, alla stazione ferroviaria di F o g g i a da una comunicazione telefonica di Ciano, che gli disse che nel campo internazionale era avvenuto qualcosa che non poteva dirgli per telefono, ma che avrebbe fatto restringere i tempi per per la definizione dei rapporti condel l’Italia con l’Albania. Jacomoni gli rispose che avrebbe visto Re Zog e avrebbe ritelegrafato da Tirana. Quivi giunto, trovò la notizia che le truppe germaniche avevano iniziato nella notte l’occupazione della Boemia e comprese il motivo della comunicazione telefonica di Ciano: si era determinata una spinta a una nostra azione di forza in Albania. Dal Diario di Ciano, alla data 15.3.5 marzo 1939, appaiono le indecisioni di Benito Mussolini verso questa azione: la vedeva, soprattutto, come una risposta all’occupazione tedesca della Boemia, ma temeva che essa non potesse controbilanciare nell’opinione pubblica l’impressione fatta dall’espansione del Reich in uno dei territori più ricchi del mondo. Nell’ignoranza di questo stato d’animo di Mussolini, Jacomoni non tenne conto della comunicazione telefonica di Ciano e iniziò conversazioni nello spirito delle istruzioni ricevute a Roma. Il 18 marzo, la Legazione telegrafava quanto segue: “In relazione alle istruzioni di V.E. ho iniziato, appena giunto, le conversazioni intese a rasserenare l’ambiente, molto turbato, specie dopo i recenti avvenimenti in Europa centrale. Le dichiarazioni che mi ha fatto il generale Seregi (appena nominato ministro d’Albania in Italia) in risposta alle mie parole tranquillizzanti sono caratetaristiche dello stato d’animo del paese. Egli mi ha detto che si recava a Roma con pieni poteri del re per concludere un accordo che, pur rispettando formalmente l’integrità e l’indipendenza dell’Albania, desse a noi piena soddisfazione. // Egli è sicuro che tutta l’Albania sarà con noi. // Mehmet Konitza, noto consigliere del re, fino a pochi giorni fa contrario all’Italia, si è espresso con questo addetto militare nel senso che, qualora il re non facesse egli stesso all’Italia proposte che, legando a noi definitivamente e senza riserve l’Albania, la salvassero dal baratro a cui si avviava, egli ed altri avrebbero saputo imporre al re quanto era necessario. // Libohova, pur confermando l’agitata attività antiitaliana di molte legazioni straniere, mi ha dato assicurazione che nessuna trattativa politica o finanziaria è in corso con alcuna potenza. // Sarò ricevuto da re Zog domenica o lunedì: salvo diversi ordini di V.E. mi regolerò secondo le istruzioni ricevute nell’ultima udienza concessami dall’Eccellenza Vostra il 12 corr.” Il 20 marzo, Jacomoni ebbe conl Re Zog I, Re degli Albanesi, l’atteso colloquio, che durò oltre due ore. Il giorno successivo telegrafava a Roma: “Il re mie è apparso soprattutto preso dall’ammirazione per quanto aveva compiuto la Germania e dall’idea che si avvicinasse per lui il momento di poter realizzare il suo sogno dell’occupazione del Kossovo jugoslavo. // Ha detto che se Roma decidesse un’azione contro la Jugoslavia egli potrebbe, al momento in cui nostre divisioni fossero pronte a sbarcare in Albania, iniziare subito un’azione di bande che, a suo avviso, lo porterebbe in due giorni sino a Nish. // Pur mostrando di seguire con interesse il re nel suo piano, gli ho chiesto di mantenere, almeno per il momento, immutati i suoi rapporti con la Jugoslavia e di limitarsi a mantenere vivo il carattere albanese della popolazione del Kossovo. // Egli mi ha assicurato che questa sarebbe stata la sua condotta. Pregandomi di trasmettere a V.E. questa assicurazione ha rinnovato l’espressione della speranza che l’Italia seguisse al più presto la Germania nella sua azione in Europa orientale: tutta l’attuale configurazione politica dei Balcani dovrebbe cadere per dar luogo a una federazione di Stati, posti sotto la guida dell’Italia, // Venendo finalmente a parlare dell’Albania il re invia a V.E. i suoi vivissimi ringraziamenti per le nuove concessioni ottenute. Egli farà partire quanto prima per Roma il generale Seregi e spera che la sua missione possa giovare a costituire fra i due paesi una situazione che, pur salvaguardando la sovranità e l’indipendenza dell’Albania, possa dare a noi piena soddisfazione” (Erano le stesse parole usate con Jacomoni dal Gen. Zef Seregi). L’atteggiamento del Re alimentò la fiducia della Legazione italiana che egli si proponesse di trovare nella situazione internazionale un pretesto di fronte a se stesso e ai nazionalisti albanesi per consentire la presenza di forze italiane in Albania. Confermavano questa fiducia anche la scelta d’un Generale come Ministro d’Albania a Roma e le parole con cui egli ne aveva comunicazione a Jacomoni. Nella conversazione di questi con il Re erano state evitate precisazioni sulla frase relativa a sbarchi italiani in Albania, perché pareva indispensabile rasserenare anzitutto l’ambiente di Tirana, specie dopo i redenti avvenimenti nell’Europa centrale. Lo stesso giorno il Gen. Zef Seregi ne riparlava al Col. Manlio Gabrielli, nostro Addetto Militare, e il 21 marzo 1939 Jacomoni telegrafava a Roma: “Il generale Seregi ha precisato a questo addetto militare che in vista dei prossimi avvenimenti internazionali il re potrebbe essere indotto fin d’ora a chiedere la presenza in Albania di truppe italiane”. Il successivo 23 marzo Jacomoni comunicava al Ministero degli Esteri: “Re Zog ha inviato stasera in legazione il presidente del Consiglio dei ministri, il ministro degli Esteri e il suo primo aiutantedi campo per informarmi che, secondo notizie avute da Bucarest, da Belgrado e da Skoplije, la Romania e la Jugoslavia starebbero prendendo misure per fronteggiare l’eventuale azione dell’Asse Roma-Berlino. Gli erano state segnalate importanti misure in via di attuazione da parte della Jugoslavia verso il confine albanese. // Nel prospettare tale situazione le dette personalità hanno dichiarato in nome del re che l’Albania, in ossequio all’alleanza, si metteva a disposizione dell’Italia per qualsiasi evenienza. Qualora si dovessero prendere provvedimenti militari da parte albanese, occorreva tener presente che essi avrebbero avuto scarsissima consistenza se non fossero stati validamente e immediatamente sostenuti da noi. Le eventuali richieste di truppe italiane sarebbero accompagnate, da parte del governo albanese, da richieste del materiale necessario per l’esercito albanese. Concordemente i tre autorevoli uomini politici hanno aggiunto che, ove la situazione internazionale non sconsigliasse un intervento di truppe italiane in Albania, esso riuscirebbe in questo momento molto gradito a tutta la popolazione. // Non è da escludere che il re prenda spunto da allarmanti notizie ricevute dalle sue rappresentanze all’estero per compiere, in seguito anche alla situazione che si è creata qui, un gesto inteso a conciliargli la fiducia di V.E. // In ogni modo per evitare che re Zog, realmente preoccupato della situazione esterna e interna, possa prendere qualche misura che sia in contrasto col pensiero di V.E. pregherei volermi mettere in condizione di dargli qualche garanzia. Questo addetto militare presente al colloquio, per desiderio albanese, telegraferà in modo analogo”. Questo telegramma fu poi particolarmente valorizzato da Galeazzo Ciano per illustrare in Italia e all’estero i precedenti del nostro sbarco in Albania. Venne dato un significato di immediatezza al desiderio espresso da Zog di uno sbarco italiano, immediatezza che probabilmente non era nel pensiero di quel Re. Molti potevano essere i motivi della richiesta fatta fare con tanta solennità dai due maggiori esponenti del Governo e da un proprio rappresentante personale. Probabilmente, il Re si proponeva soltanto di aprire uno spiraglio a una soluzione soddisfacente per entrambi i Paesi. Egli era – a giudizio di Jacomoni – “uomo di grandi risorse intellettuali, giustamente convinto di saperne usare per assicurarsi i favori di una fortuna che mai lo aveva abbandonato”. Lo lusingava certamente l’idea di poter allargare i confini del suo Regno, seppure con l’aiuto di truppe italiane. Pensava forse che uno sbarco italiano, nelle condizioni di turbamento in cui versava il Paese, fosse ormai inevitabile e che fosse meglio consentirvi che subirlo. Uno sbarco, anche di modeste aliquote di forze militari italiane, poteva inoltre sembrare una garanzia data da Roma al suo trono. Il Gen. Zef Seregi precisava il suo pensiero affermando che era ormaiimpossibile a qualunque Stato il rimanere isolato, il che era ancora più vero per la piccola Albania. Per la grande Italia, forte dei suoi 45 milioni di abitanti, non avrebbe costituito uno sforzo eccessivo – disse – l’avviare al progresso, con l’impiego di tecnici e di denaro, un milione di persone, che chiedevano solo di poter lavorare. Ciò naturalmente presupponeva – a suo avviso – che gli Italiani fossero pienamente certi di potersi fidare degli Albanesi, come se fossero propri connazionali. La maggioranza dei membri del Governo albanese, pur moltiplicando le misure di sicurezza nel Paese, non nascondeva il desiderio di apparirci favorevole. La sensazione era che, dopo l’occupazione tedesca della Cecoslovacchia, la quasi totalità del popolo albanese attendesse da un momento all’altro l’arrivo di truppe italiane come un avvenimento che fosse nell’ordine normale degli eventi. Correva voce che, se il Re avesse a ciò negato il suo consenso e avesse ordinato d’opporre resistenza, il Paese non l’avrebbe seguito. Il 25 marzo, Jacomoni riceveva le seguenti istruzioni da Galeazzo Ciano: “Dal momento che attraverso molte sue dichiarazioni re Zog riconosce la necessità e l’urgenza di stabilire su nuove basi i rapporti italo-albanesi, anche in relazione a quanto succede in Europa e poiché questo è pure il convincimento assoluto del duce, recatevi da Zog e domandategli, discutendone con lui, su quali basi egli vorrebbe stabilire i nuovi rapporti con l’Italia. Fategli capire che ciò è ormai urgente e improrogabile anche per chiarire una volta per tutte la situazione che la speculazione dei terzi rende, con interventi estranei, più complicata. Appena conferito telegrafate. Partirà frattanto per Tirana de Ferrariis che recherà schema trattato contenente nostri desiderata nei confronti Albania”. Carlo de Ferrariis Balzano giunse lo stesso giorno a Tirana, recando con sé il detto schema, dal seguente tenore: Art. 1 – Vi sarà tra l’Italia da una parte e l’Albania dall’altra una stretta alleanza, e le due Alte Parti contraenti si impegnano a garantire con tutti i loro mezzi la sicurezza dei loro Stati e la difesa e salvaguardia reciproca contro ogni attacco esterno. Art. 2 – L’Italia assicura all’Albania che la sua amicizia non le verrà mai meno, e in caso di una minaccia alla sovranità o all’integrità e all’indipendenza dell’Albania, l’Italia provvederà con ogni mezzo ad allontanare tale pericolo e adotterà se necessario, le misure atte al raggiungimento di tale scopo. Art. 3 – Fermo restando che il mantenimento dell’ordine pubblico in Albania e la difesa contro un’aggressione esterna sono affidati al governo albanese, il governo italiano potrà predisporre tutti quei mezzi che esso reputa necessari. Art. 4 – A tale scopo il governo albanese, riconoscendo la necessità di fornire al governo italiano tutte le facilitazioni necessarie all’adempimento delle reciproche obbligazioni, concederà al governo italiano l’uso dei porti,degli aerodromi e delle vie di comunicazione. Art. 5 – Le rappresentanze diplomatiche dell’Italia in Albania e dell’Albania in Italia saranno elevate al rango d’ambasciata. Art. 6 – L’Italia presterà tutta la sua assistenza tecnica e finanziaria all’oranizzazione e al funzionamento dello Stato albanese. In ciascuno dei ministeri albanesi vi sarà un funzionario italiano che avrà il rango di segretario generale ed eserciterà le funzioni immediatamente subordinate a quelle del ministro albanese titolare del dicastero. Art. 7 – L’Italia concederà all’Albania, con appositi accordi doganali e monetari, condizioni che assicurino tra i due Paesi gli scambi in regime analogo a quello del mercato interno. Art. 8 – I cittadini albanesi domiciliati in Italia ed i cittadini italiani domiciliati in Albania godranno gli stessi diritti politici e civili dei quali godono i cittadini dei due Stati nel proprio territorio. Questo schema era impostato sulla base dei Trattati anglo-egiziano e anglo-iracheno e si ispirava quindi a concezioni da gran tempo ormai decisamente sorpassate. Ma, a tal punto della nostra narrazione, torniamo a Foggia, con cui abbiano iniziato la cronaca di avvenimenti di 72 anni or sono. Foggia, come le consorelle Bari e Brindisi, brulicava di militari. Inoltre, era stata, in pochi giorni, trasformata in una formidabile base logistica. Ma la popolazione non collegava tanto insolito movimento con una questione albanese, a essa non nota, e i ricercatori albanesi inviati dal loro Governo al Centro Addestramento dell’Istituto Sperimentale per la Zootecnia, allora detto “Ovile Nazionale” (ricordiamo, fra tutti, Faik Broxhi, Suleiman Hana e Myrtesa Shaqiri) vivevano tranquillamente in città, senza preoccupazione, e vi nutrivano amicizie che i successivi avvenimenti non avrebbero cancellate. La R. Università degli Studi “B. Mussolini” di Bari, continuava a essere l’Ateneo italiano maggiormente frequentato da studenti albanesi. Un altro documento accompagnava il progetto d’un nuovo Trattato tra l’Italia e l’Albania rimesso a Francesco Jacomoni di San Savino e conteneva alcune proposte di accordi da prendere personalmente con Re Zog I degli Albanesi, relativi alla creazione di un P.N.F. albanese e all’ affidamento all’Italia delle organizzazioni della gendarmeria e della polizia. Era prevista la nomina di un alto ufficiale italiano quale Capo di S.M. delle FF.AA., il cui comando sarebbe stato mantenuto direttamente dal Re. Di quest’ultimo schema di accordi personali Jacomoni non ritenne di parlarne almeno finché non avesse avuto l’adesione al progetto di trattato sulle note basi, che appariva già di per se stesso difficilmente accettabile dal sovrano. Il 26 marzo Jacomoni riferiva a Roma la conversazione avuta al mattino col Re in merito a quel progetto: “In questo primo colloquio mi sono astenuto dall’affrontare chiaramente la necessità della stipulazione di un nuovo trattato sulle note basi. Gli ho invecechiesto in quale modo egli stesso intravedesse, come seguito alla sue precendenti dichiarazioni, lo stabilimento d’un nuovo rapporto italo-albanese. Egli si è subito dichiarato disposto ad accordi i più vasti possibili. // In seguito, a sua richiesta, gi ho poi espresso a titolo personale le mie idee sull’argomento, accennando alla possibilità di un trattato di alleanza su basi che, senza precisazioni, corrispondevano però ai princìpi ispiratori del trattato portato dal de Ferrariis Salzano. Anche su questo il re ha espresso di massima il proprio accordo. Mia sensazione è stata tuttavia che il re nascondesse il suo vero pensiero. // Quest’ultimo mi è apparso nella sua crudezza nel pomeriggio in una conversazione avuta con Libohova che ho trovato nettamente ostile a ogni concetto di rafforzamento formale dell’alleanza”. A Efrem Libohova Jacomoni aveva mostrato lo schema del trattato. Egli era un amico sincero dell’Italia, pienamente comprensivo delle difficoltà in cui l’Albania si dibatteva e al corrente della situazione internazionale e dei riflessi che essa poteva avere sui rapporti italo-albanesi. Gli fu ripetuto il discorso fatto la mattina a Zog e cioé che le formule avrebbero potuto essere studiate insieme. Quello che premeva era il rafforzare i vincoli dell’alleanza sulla base dell’indipendenza e della sovranità dell’Albania e della tutela della dignità e delle prerogative reali. Malgrado queste assicurazioni, Libohova, contrariamente a tutte le precedenti assicurazioni del sovrano, si dimostrò nettamente contrario alla firma di un atto formale e di carattere generale per il rafforzamento dell’allesanza. A suo avviso, qualunque precauzione fosse presa, dato il rapporto di potenza fra l’Italia e l’Albania, quest’ultima sarebbe sempre apparsa come uno Stato protetto. Egli si dichiarava fautore della creazione di situazioni di fatto, fra di loro indipendenti e tali da condurre a una pratica ed effettiva collaborazione fra i due Paesi, Poiché, per desiderio del Re, si sarebbe dovuta tenere al più presto una riunione cui avrebbero partecipato, oltre lo stesso Libohova, il Presidente del Consiglio dei Ministri e il 1° Aiutante di Campo, lo Jacomoni gli disse d’essere disposto a seguirlo su qualunque via li avesse avvicinati al desiderato scopo d’una più efficace collaborazione fra i due Paesi. Il giorno 28 informava Roma della situazione e della necessità in cui si trovava di attenersi a una tattica di conversazioni con i maggiori esponenti del Governo, che partissero non già dallo schema inviatogli da Roma, ma dal Trattato di alleanza tuttora in vigore. Sarebbero stati suggeriti ampliamenti che lo avvicinassero, ne limiti del possibile, al nuovo schema. Questa tattica si rendeva opportuna perché gli inizi delle conversazioni non rivelavano quelle buone disposizioni nei riguardi del rafforzamento dell’alleanza che le precedenti affermazioni del Re avevano fatto sperare. Ove fosse rimasta immutata – Jacomoniscriveva al Ministero degli Esteri – l’intenzione del Governo di Roma, comunicatagli dal Segretario di Gabinetto de Ferrariis, di far sapere a Re Zog che, in caso di mancato accordo, uno sbarco di truppe italiane in Albania avrebbe egualmente avuto luogo, pregava di non fare questa comunicazione prima che egli avesse potuto trssmettere a Roma lo schema di accordo che sarebbe potuto uscire dalle conversazioni. In base a questo schema il Ministero degli Esteri avrebbe potuto procedere alla redazione d’un testo definitivo. Solo quando fosse giunto questo nuovo testo sarebbe stato possibile entrare col Re sull’argomento di un imminente arrivo di truppe italiane, motivato dalla situazione internazionale. Si poteva proporgli che l’arrivo delle truppe trovasse la sua legittimazione in un apposito accordo redatto in base alle richieste già da lui avanzate nel settembre del 1938 e ripetute pochi giorni prima, unitamente a domande di invio di materiale per l’esercito albanese. Nel frattempo Manlio Gabrielli, addetto militare e capo della nostra Missione Militare in Albania, si recava a sua volta dal Re per chiarirgli i motivi che rendevano necessaria la presenza in Albania di truppe italiane. “Vostra Maestà – gli aveva detto – nel desiderio di provvedere direttamente a un’eventuale prima difesa delle frontiere, chiese e ottenne nel 1927 che il governo italiano provvedesse a organizzare in loco le necessarie forze armate albanesi e gli indispensabili apprestamenti difensivi. Noi abbiamo fatto onestamente fronte ai nostri impegni, sopportando oneri non lievi, ma, dopo una lunga esperienza, ci siamo convinti che le forze armate albanesi non potranno mai avere la necessaria efficienza perché la nostra opera è resa difficile dall’assoluta incapacità del generale Arenitas e di molti ufficiali che voi continuate a mantenere in posti di responsabilità. Ora che Vostra Maestà ha espresso il timore di possibili aggressioni alle frontiere, noi vi facciamo doverosamente presente che un qualunque esercito straniero potrebbe, superando le vostre frontiere, raggiungere in due o tre giorni, i porti di Durazzo e di Valona. Occupati questi ultimi da truppe ostili, le forze italiane muovendo da nostre basi dovrebbero esporsi a gravi perdite per riconquistare il vostro paese. // Per evitare questi inutili sacrifici di vite umane e di mezzi, il governo di Roma, avendo presente quanto già previsto dal trattato di alleanza in vigore, vi propone di autorizzare lo stanziamento in Albania di forze italiane, capaci di fronteggiare, insieme con le vostre truppe (regolari e irregolari) eventuali aggressioni sin dall’inizio della loro azione”. Il rapporto di Manlio Gabrielli così proseguiva: “Avendo il re risposto che l’intervento di truppe italiane in tempo di pace avrebbe potuto suscitare proteste straniere ed essere considerato come lesivo della sovranità dell’Albania, gli feci presente che, ove l’intervento fosse stato deciso dai due alleati, in pieno accordo ein vista di complicazioni internazionali, in quel momento possibili, nessuno avrebbe avuto il diritto di protestare. Aggiunsi che gli inglesi occupavano località strategiche di paesi esteri senza con ciò compromettere la sovranità di questi ultimi. Terminai assicurando che le forze italiane destinate in Albania sarebbero state poste ai suoi ordini. Conclusi pregando il re di aver fiducia nel fermo proposito italiano di voler dare sicurezza pace e benessere al popolo amico e alleato. // Di fronte a queste argomentazioni il sovrano si mostrò disposto ad esaminare con favore le condizioni militari proposte da Roma, ripetendo che non poteva però accogliere alcune delle altre richieste”. Era evidente che, se si voleva arrivare alla conclusione di un accordo, che non fosse il frutto di una pura imposizione accettata dal Re per motivi contingenti, era assolutamente necessario modificare vari punti dello schema inviato da Roma. Il Gen. Zef Seregi, che era in partenza per Roma, avrebbe, ancora in qualità di Aiutante di Campo, prima di presentare le credenziali, chiesto udienza a Ciano e Mussolini, per consegnare un messaggio del Re a Mussolini. Egli avrebbe illustrato, sulle stesse linee di Jacomoni, i risultati delle conversazioni cui aveva preso parte. Il suo animo era aperto a concetti di associazioni plurinazionali e dava la garanzia che egli avrebbe agito non solo da buon albanese, ma anche da sincero fautore d’una stretta collaborazione con l’Italia. In questo senso, una volta chiarite le idee con il nostro Governo, egli avrebbe cercato di influire sull’animo di Zog anche da Roma. Ultimate le conversazioni con il Presidente del Consiglio dei Ministri e con il Ministro degli Esteri, lo stesso Jacomoni portò a Roma un progetto di accordo, sul quale aveva, di massima, il benestare anche del Ministro degli Interni, Musa Juka, che godeva di grande influenza sull’animo di Zog, e del padrino del Re, Abdurrahman Mati. All’albargo Excelsior, il Gen. Seregi e Jacomoni portarono ancora qualche altra modifica al nuovo progetto di accordo. Lo stesso giorno, 31 marzo 1939, da Galeazzo Ciano, il Sottosegretario di Stato alla Guerra, Gen. Alberto Pariani, il Gen. Alfredo Guzzoni, designato a prendere il comando del Corpo di Spedizione in Albania, e Jacomoni furono esaminate le modalità dell’azione militare in relazione ai passi diplomatici che la Legazione avrebbe dovuto continuare a compiere. Qualunque ne fosse stato l’esito, lo sbarco delle nostre truppe avrebbe in ogni caso avuto luogo, data la situazione caotica che si profilava ormai in Albania. Bisognava sempre tener presente che, anche se il Re non fosse stato consenziente, si sbarcava in un Paese animato, nella grande maggioranza della sua popolazione, da sentimenti amichevoli nei nostri riguardi. Era necessario evitare bombardamenti ed era essenziale che le truppe tenessero con la popolazione un comportamento improntato a umanità e civiltà. Motivo dell’insistenza su questipunti era, fra l’altro, il fatto che il Col. Ettore Muti, amico personale di Ciano, in un volo compiuto a Tirana pochi giorni innanzi, parlando in Legazione col Cons. Francesco Babuscio Rizzo e col 1° Segr. Eugenio Prato, aveva tenacemente prospettato, malgrado le loro proteste, la necessità di accompagnare un eventuale sbarco di truppe col bombardamento aereo di Durazzo e Tirana a scopo intimidatorio. Mussolini approvò lo schema di trattato, così come era stato redatto - e del quale non si ha putroppo copia - per venire incontro ai desideri albanesi. Esso rispondeva ormai soprattutto – disse Mussolini – alla necessità, divenuta urgente, di firmare una “carta” con cui Zog autorizzasse lo sbarco di nostre truppe e si ponesse così fine allo stato di pericolosa agitazione che si era diffuso negli ultimi tempi in Albania. Mussolini, nell’approvare questo schema, dette a Jacomoni la sensazione che la via da lui preferita fosse quella dell’accordo con Zog. Gli dettò infatti il seguente messaggio personale per il Re: 1)La questione di una modificazione dei rapporti fra l’Italia e l’Albania non è stata sollevata da me. Ma, dal momento che è stata sollevata, dev’essere risolta nel senso di rafforzare l’alleanza fino ad accomunare nello stesso destino i due popoli, per garantire soprattutto un proficuo progresso del popolo albanese. 2)Sono disposto a tenere nel dovuto conto tutte le forme intese a salvaguardare la dignità e la protezione del sovrano e della sua dinastia. 3)Invitare Zog a considerare che gli ho dato durante 13 anni prove sicure della mia amicizia. Sono disposto a continuare nella stessa linea di condotta; ma se questo fosse inutile, le conseguenze ricadrebbero su re Zog e sul popolo albanese. Era un messaggio incoraggiante. Era soprattutto felice, data la mentalità albanese, l’allusione alla fedeltà all’amicizia e la conferma di questa nei confronti di Zog. Era invece dannosa l’aperta minaccia con cui il messaggio si concludeva, come era poco abile, in vista della mentalità di Zog, il tono di aperta sincerità, se non anche di crudezza, di tutto il messaggio, A considerazioni fattegli in questo senso Mussolini obiettò che quel che ormai si richiedeva era proprio la chiarezza, la più assoluta, dei reciproci rapporti. Il Conte Ciano, che nel suo Diario ha dipinto sempre se stesso contrario a Zog, si dimostrò anche lui, quel giorno, dopo l’udienza di Mussolini, desideroso che il Re accettasse il nuovo progetto di accordò e augurò a Jacomoni di riuscirvi. Questi approfittò di tali buone disposizioni per prospettare a Ciano una ulteriore, seppure inverosimile, ipotesi: che Re Zog rinunciasse al trono, piuttosto che firmare il trattato. Gli chiese se, in questo caso, avrebbe potuto offrirgli garanzie di sincera e comoda vita per lui e per la sua famiglia in Italia. Ciano acconsentì. Il giorno successivo, al suo ritorno a Tirana, Jacomoni si rese conto che colà si guardava alla situazione conmolto pessimismo. L’Incaricato di Affari, Cons. Babuccio Rizzi, che andò a prenderlo all’aeroporto, lo informò che, da notizie provenienti dal Ministero degli Interni, egli aveva tratto la conclusione che Re Zog stesse decisamente preparando la resistenza, Correva voce che, ove questa si fosse dimostrata impossibile a Tirana, il Re avesse intenzione di rifugiarsi nel Mati, suo paese d’origine, con le truppe a lui fedeli, portando con sé ostaggi i funzionari della Legazione italiana. Da qualche giorno erano divenute frequenti le visite del Ministro inglese a Palazzo Reale e numerosi telegrammi erano stati spediti a Londra dalla Legazione britannica. La notizia che nei pressi di Durazzo si stavano installando apparecchiature per segnalazioni luminose sembravano confermare la fiducia del Re nel possibile intervento di navi inglesi in caso di un nostro tentativo di sbarco. Intanto nelle Puglie – e soprattutto a Foggia e Bari, pullulanti di truppe - si viveva nell’attesa e nella tema d’imprevedibili eventi. Testimonia il Dr. Nicola Lo Russo Attoma come si giunse, in Albania, all’aprile del 1939. Il Governo italiano avava consigliato Zogu di non tentare giochi pericolosi, a cambiare strada, a decidersi una buona volta a far prevalere l’interesse del suo Paese. Già nel gennaio il Conte Galeazzo Ciano, in un suo viaggio a Belgrado, aveva informato la non più ostile Jugoslavia, con la quale erano anzi stati instaurati cordiali rapporti, che si presentava la possibilità di una crisi tra l’Italia e Zog, Re degli Albanesi. In febbraio il Governo di Zogu aveva dato segni palesi di un’intollerabile e ingiustificata ostilità contro l’Italia, pur formalmente sua alleata e di fatto protettrice, e aveva addirittura fatto imprigionare numerosi Albanesi, a suo avviso colpevoli di essere amici dell’Italia “fascista”. Il Governo italiano era stato costretto a intervenire risolutamente. Quasi tutti gli incarcerati erano stati rilasciati, pur se alcuni confinati. L’8 marzo 1939 Zogu, mentre l’Italia era impegnata in altri problemi internazionali, improvvisamente aveva domandato, al nostro Ministro Plenipotenziario Francesco Jacomoni di San Savino, la stipulazione di un nuovo e diversopatto di alleanza e il 20 marzo aveva chiesto, di sorpresa, l’urgente invio di truppe italiane in Albania. Le condizioni del Paese non giustificavano tale richiesta di Zogu, fatta evidentemente a sola tutela e rafforzamento del suo regime e a renderne corresponsabile l’Italia: minacce alla sua integrità, infatti, dall’esterno (Grecia e Jugoslavia) non ve ne erano e neppure nel più lontano orizzonte. Zogu aveva architettato un piano di assurda attuazione per stroncare la cordialità dei rapporti instauratisi fra la Jugoslavia e l’Italia. Benito Mussolini aveva respinto la richiesta, così come intesa e formulata. Tuttavia l’Italia, seguendo la via delle ordinarie negoziazioni diplomatiche, offriva un patto, che erarispettosissimo dei diritti sovrani dell’Albania. Zogu prendeva tempo a decidere e intanto mobilitava e ammassava truppe nell’Albania centrale. Alcune autorità governative sobillavano il popolo e gli studenti; altri elementi, né Albanesi né Italiani, soffiavano sul fuoco; alcuni ragazzi, guidati da gruppetti di gente prezzolata o esaltata, facevano manifestazioni antitaliane. Il popolo albanese, nella sua grande maggioranza non ostile all’Italia, guardava sbigottito e non sapeva rendersi conto di quanto avveniva. L’Italia - esempio mirabile di calma e di moderazione - attendeva ancora a prendere una decisione e Mussolini dichiarava che era disposto a continuare a dare a Re Zog, come sempre gli aveva dato, sicure prove della sua amicizia. A questo atteggiamento italiano Zogu diede, col suo, una risposta intollerabile e i suoi partigiani scatenarono nuove dimostrazioni antitaliane. I numerosi Italiani che erano in Albania (oltre 600 a Tirana, oltre 1.400 complessivamente in tutto il Paese) guardavano, calmi e freddi, questa inattesa gazzarra. Ma nella popolazione s’erano infiltrati ormai elementi pericolosi, fatti venire giù dai monti: gente dal torbido passato. Poiché la situazione s’era quindi fatta – e non per colpa del popolo albanese - assai critica, il 5 aprile le autorità della Legazione e consolari italiane diedero ordine ai nostri connazionali di lasciare il suolo albanese; essi avrebbero, quasi tutti, voluto restare, ma, adusi a ferrea disciplina, obbedirono. Il popolo albanese fu così contrario a quanto, a suo danno, stava facendo Zog, che ad alcuni Italiani, con donne e bambini, fu possibile attraversare, di giorno e di notte, su macchine sgangherate, tutto il territorio albanese, fino a Durazzo, senza che fosse loro torto un capello, senza che ricevessero sgarbi o fastidi. La popolazione di Durazzo assistette sgomenta al concentramento e all’imbarco degli Italiani, i quali su due nostre navi da guerra ritornavano in Patria. A Tirana rimasero soltanto i funzionari e gli ufficiali in servizio diplomatico e pochi altri. Zogu aprì le prigioni ai reclusi, concentrò a Tirana i fuori-legge, ordinò la mobilitazione generale e finse di prepararsi alla resistenza, mentre in realtà preparava la fuga. Al foglio di mobilitazione ben pochi risposero, ai tentativi di fare ammutinare il popolo, facendogli credere che l’Italia avesse mosso guerra all’Albania, quasi nessuno rispose; quasi tutti rifiutarono di prendere le armi contro gli Italiani; circolavano soltanto i fuori-legge. La popolazione di Tirana se ne stette chiusa in casa, lieta che finalmente fosse suonata l’ora della caduta del regime zoghista (quello di averlo sostenuto era infatti il solo rimprovero che agli Italiani veniva mosso). Se ne stava chiusa in casa anche per un altro motivo: perché Zogu, che stava preparando la fuga e aveva paura che il “suo” popolo gli si ribellasse e facesse giustizia sommaria, aveva fatto correre la voce, casa per casa,che l’aviazione italiana avrebbe bombardato la città, raccomandato che i cittadini stessero ben tappati nelle loro case e assicurato che a dar decisiva battaglia all’Esercito italiano ci avrebbe pensato lui, che invece fuggiva, con autocarri carichi delle ricchezze arraffate, accompagnato dalla cricca che gli aveva sempre fatto corona e che in lui s’era identificata. Il 7 aprile, le truppe italiane, partite nella notte dalle Puglie, sbarcavano all’alba a Durazzo, a Valona, a Santi Quaranta e a S. Giovanni di Medua. I capi delle Fise (stirpi, tribù) della Mirdizia e del Dukagjini già erano scesi dalle loro montagne per accogliere le nostre truppe e dar loro man forte. Allo sbarco fecero resistenza pochi disinformati a Durazzo. Le perdite italiane furono: •a Durazzo, caduti 11, feriti 43; •a Santi Quaranta, caduti 1, feriti 10; •in totale, csduti 12, feriti 53. Quella stessa mattina il Ministro degli Esteri italiano, Conte Galeazzo Ciano, volò da Foggia a Tirana e constatato che qui, sull’edificio della nostra Legazione, sventolava sempre la bandiera italiana, nonché l’incolumità del personale, fece rientro a Roma. La popolazione albanese teneva ovunque un atteggiamento tranquillo e cordiale. L’Esercito albanese, conosciuta l’ignominiosa fuga di Zogu, si era volatilizzato. A Tirana Zogu, prima di fuggire verso Elbassan e Korcça e poi verso la Grecia, col suo lungo corteo di macchine e persino di ambulanze, inviò al Gen. Alfredo Guzzoni, supremo comandante del nostro Corpo di Spedizione, il suo Ministro dell’Economia Nazionale Brok Gera e il Col. di S.M. Samih Koka, accompagnati dal Col. Manlio Gabrielli, Addetto Militare italiano, in apparenza per trattare, di fatto per tergiversare; infatti, quando questa ambasceria tornò a Tirana e Zogu inviò una seconda ambasceria, il ponte sulla strada durazzo-Tirana era già stato fatto saltare. Fuggito Zog con i suoi familiari e i suoi Ministri, gli elementi torbidi e irresponsabili riuniti a Tirana si abbandonarono al saccheggio del Palazzo Reale e della residenza delle Principesse sorelle del Re. Nella R. Legazione italiana, assai vicina al Palazzo Reale, rimasero asserragliati il Ministro Jacomoni e i funzionari, con alcuni pochi connazionali, pronti a difendersi. Veniva invece in Legazione l’Ispettore Generale della Corte di Re Zog, Xhafer Ypi, personalità di primo piano, che era stato Reggente dello Stato albanese subito dopo la proclamazione dell’indipendenza del Paese e più volte Presidente del Consiglio dei Ministri. A salvaguardare il minacciato ordine pubblico, a evitare ogni “vacatio” e ad assicurare la continuità dello Stato, era stato stabilito di costituire un Governo Provvisorio, da lui presieduto e composto da tutti i Segretari Generali dei Ministeri. Si recavano in Legazione, nelle prime ore del mattino il capo della comunità musulmana sunnita, il Gran Muftì Shapati, , il capodella comunità alevita dei Bektashi Baba Dedé e il capo della Chiesa Ortodossa autocefala Mons. Kissi. Alle ore 9,30 Francesco Jacomoni di San Savino poteva telegrafare a Roma: “Truppe italiane attese da popolazione con entusiasmo. Grande adunata popolo piazza Skanderbeg accoglierà truppe al loro ingresso città. Segretario generale questo ministero Interno telefona però pregando vivamente accelerare massimo possibile arrivo a Tirana primo contingente timore che elementi turbolenti ancora circolanti città provochino nuovi disordini”. Inutile invito, perché già alle 9,38 le truppe italiane entravano a Tirana. Il 12 aprile fu convocata da Xhafer Ypi in Tirana l’Assemblea Costituente, composta da delegati di tutte le 10 province albanesi, che votò questo testo: 1)Il regime già esistente in Albania è decaduto; la costituzione, emanazione di questo regime, è abrogata. 2)E’ costituito un Governo nominato dall’Assemblea, investito di pieni poteri. 3)L’Assemblea dichiara che il popolo albanese, memore e riconoscente dell’opera costruttiva data dall’Italia per lo sviluppo e la prosperità dell’Albania, decide di associare più intimamente la vita e i destini dell’Albania stabilendo con l’Italia vincoli di una sempre più stretta solidarietà.- Accordi ispirati a questa solidarietà saranno successivamente stipulati fra l’Italia e l’Albania. 4)L’Assemblea Nazionale Costituente, interprete dell’unanime volontà di rinnovamento del popolo albanese e quale pegno solenne per la sua realizzazione, decide di offrire, nella forma di Unione Personale, la corona d’Albania a Sua Maestà Vittorio Emanuele III Re d’Italia e Imperatore d’Etiopia, per Sua Maestà e per i suoi successori. Il giorno 16 aprile 1939 aveva luogo a Roma, al Quirinale, la cerimonia dell’offerta della Corona albanese al Re Imperatore Vittorio Emuanuele III, che così rispose all’offerente nuovo Presidente del Consiglio dei Ministri albanese Shefqet Verlaçi: Desideriamo esprimervi i sentimenti del nostro animo grato per l’indirizzo che, a nome del popolo albanese, Voi ci avete rivolto. Noi siamo felici di accogliere il voto che il vostro valoroso e nobile popolo ha formulato e di accettare la corona d’Albania, che esso ci offre e alla quale è legato il ricordo glorioso di Skanderbeg. Da oggi i destini dell’Albania sono indissolubilmente avvinti a quelli dell’Italia, e noi accogliamo il giuramento di fedeltà Vostro e del popolo albanese con l’impegno che il nostro Governo ha assunto di garantire al nostro Regno di Albania l’ordine, il rispetto di ogni fede religiosa, il progresso civile, la giustizia sociale e, con la difesa delle frontiere comuni, la pace. Con R.D. del 3 giugno 1939, Vittorio Emanuele III promulgava lo Statuto fondamentale del Regno d’Albania, il cui capo I dettava le seguenti disposizioni generali: Art. 1.- Lo Stato Albanese è retto da un governo monarchico costituzionale. Il trono è ereditario secondo la legge salica nella dinastia di Sua MaestàVittorio Emanuele III, Re d’Italia e d’Albania, Imperatore d’Etiopia. Art. 2.- La bandiera albanese è rossa e caricata al centro dell’aquila nera bicipite col segno del Fascio Littorio. Art. 3.- La lingua potere ufficiale dello Stato è l’albanese. Art. 4.- Tutte le religioni sono rispettate. Il libero esercizio del culto e delle pratiche esteriori è garantito, conformemente alle leggi. Art. 5.- Il legislativo è esercitato dal Re con la collaborazione del Consiglio Superiore Fascista Corporativo. Art. 6.- Il potere esecutivo appartiene al Re. Art. 7.- La giustizia emana dal Re ed è amministrata in Suo nome dai giudici che egli istituisce. Art. 8.- L’interpretazione delle leggi, in modo per tutti obbligatorio, spetta esclusivamente al potere legislativo. Art. 9.- L’ordinamento delle istituzioni comunali e provinciali è stabilito per legge. La minacciata pace tra le due Nazioni opposte delle Bocche dell’Adriatico era ritornata e le Puglie ne gioirono. Purtroppo le successive vicende della storia travolsero entrambi i Paesi e segnarono per entrambi la mesta fine d’un sogno, impossibile a tradursi in realtà se non in un più vasto quadro europeo. La Comunità Imperiale di Roma era morta e sepolta nel sec. XV d.C. e nulla avrebbe potuto farla risorgere.
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