Il liberismo economico, cui si richiama - per espresse enunciazioni programmatiche e susseguente prassi – la politica economica seguita nel nostro Paese dai Governi, pur di diverso colore, succedutisi apartire dall’inizio, sin qui nefasto, di questo secolo XXI e per giunta per influsso, o, quel che è peggio, per dettato, di un’Unione Europea che brilla per la sua disunione, non è che una teoria fondata su unn falso postulato: che il libero gioco delle forze economiche sia sufficiente a regolare nel modo migliore tanto i fatti della produzione. quanto quelli della distribuzione delle ricchezze. Questo postulato trae la sua origine dalla teoria dei fisiocratici e trova la sua sintesi nella nota formula “laissez faire,laissez passer”, che ha ispirato poi tutta l’azione della cosiddetta Scuola di Manchester. Sul terreno concreto il liberismo si risolve nel sostenere l’agnosticismo delloStato di fronte al fatto economico. In pratica nessuno ha mai sostenuto l’applicazione della formula del “laissez faire, laissez passer”. Le discussioni e le applicazioni si svolsero in una predicazione del libero commercio internazionale. Un altro campo in cui la teoria venne usata è quello della disciplina del lavoro, dove gli industriali – e la storia oggi si ripete - tentarono di opporsi all’applicazione dei provvedimenti sociali e persino igienici a favore dei lavoratori, mascherando i loro interessi dietro la teoria suaccennata, cosa che contribuì non poco al discredito della teoria stessa, tanto più che di frequente industriali e agricoltori, che si professavano liberisti nel campo della tutela del lavoro, si manifestavano poi protezionisti, cioè avversi alla libertà, nei riguardi del commercio internazionale. Il liberismo economico prese piede ed ebbe periodi di successo nella prima metà del sec. XIX, affermandosi particolarmente come reazione alsistema di vincoliamo e di controllo che fino ad allora aveva dominato tutta la vita economica. Si deve riconoscere che tale periodo coincide con un’epoca di prosperità senza precedenti; è certo che lo spirito di libertà, che aveva pervaso i rapporti fra gli uomini. non solo nel campo economico, ma anche in quello politico, è stato, se non l’esclusivo, certo uno dei maggiori fattori del benessere morale e materiale che ha caratterizzato tale epoca. Due fatti sono però da rilevare: che il liberismo integrale mai ebbe applicazione e che, pertanto, esso rimase un sistema in un certo modo utopatico, come gli altri sistemi relativi all’ordinamento politico, economico e sociale. Anche nel campo astratto la teoria liberista si presta a critiche di carattere fondamentale. Basta accennare a questo fatto: che, se è possibile isolare il fenomeno economico per ragioni di indagini e di studio, non bisogna dimenticare che nella realtà esso ò sempre anche un fenomenopolitico e sociale. In secondo luogo, il quadro delle suggestive armonie economiche prospettatoci dal Bastiat nen tiene conto dell’inerzia che si accompagna a tutti i fenomeni economici, politici e sociali, per cui le reazioni mai possono essere istantanee e complete, ciò che introduce un sistema di turbamento. Nel sec. XX il concetto di liberismo economico si venne modificando, specialmente attraverso il riconoscimento della necessità dell’intervento dello Stato in numerosi fatti anche di carattere prevalentemente economico. Solo si chiese, inascoltati, che questo intervento dello Stato avvenisse in forma tale da non incidere sulla libertà dell’individuo, anche, ove socialmente utile, quella di usare, come meglio credesse, del fattori economici che erano a sua disposizione. Sostanzialmente, il concetto di libertà economica è in antitesi col concetto di pianificazione, che caratterizza la politica opposta. Si deve rilevare, a questo proposito, che in mondo di relativalibertà economica, molti problemi, anche politici, di carattere nazionale e internazionale, possono trovare una soluzione assai più facile che non in regime di vincoliamo, sia pure razionalmente organizzato. E’ in un regime simile che si formano inevitabilmente gruppi di privilegiati, ciò che fa sorgere la necessità di altri interventi statali per neutralizzare i privilegi e impedire che si trasformino in ingiustizie. Nel campo internazionale, la pianificazione, opponendo non più individui, o gruppi di individui, a individui o gruppi, ma Stati a Stati, rende molto difficili gli accordi, più facile l’acuirsi dei contrasti, che possono degenerare facilmente in questioni di prestigio o di influenza politica e portare di conseguenza a conflitti e a guerre, E’ ben noto come nello scorso secolo XX all’ordinamento sociale dettato dal liberismo economico si sia contrapposto un ben diverso ordinamento, nel quale la proprietà e l’uso degli strumenti di produzione fossero non di privaticittadini, ma di enti pubblici. ed esso si sia detto, forsanche impropriamente, collettivismo. La collettivizzazione è in realtà il trapasso da forme di gestione privata della proprietà a forme di gestione pubblica. Depositario di una proprietà collettivamente intesa può essere lo Stato e si parla allora di nazionalizzazione o statizzazione: nazionalizzate furono, per esempio, quasi tutte le ferrovie italiane. Può essere il Comune e si ha, invece, la municipalizzazione. Quando poi i mezzi di produzione passano sotto il controllo esclusivo e diretto di coloro che li impiegano, si ha un’altra forma di collettivismo, che la comune tendenza ha indicato col nome di socializzazione: socializzare un’industria metallurgica [ Marchionne e colleghi stiano bene attenti!] significherebbe dunque trasferirne la gestione alle maestranze, che l’eserciterebbero attraverso i loro consigli di fabbrica. Ma una certa confusione di linguaggio regna ancora suquesta materia: non mancano economisti che usano il termine socializzazione nel significato da Bruno Caizzi attribuito a statizazione, o che fanno della parola collettivizzazione un perfetto sinonimo di nazionalizzazione. Il processo di collettivizzazione delle ricchezze era nel secolo scorso in atto, sia pure con ritmo variamente accelerato, in tutti i Paesi del mondo. I principali servizi pubblici (banche d’emissione, poste, telecomunicazioni, trasporti,etc.) erano quasi ovunque già sottratti all’iniziativa privata; molti beni di inteesse pubblico erano entrati nel demani statali o comunali; anche nei paesi cosiddetti capitalistici la diretta ingerenza dello Stato nel governo delle ricchezze era diventato sempre più precisa: si ricordano, per esempio, il progetto britannico di nazionalizzazione delle miniere e quello francese di nazionalizzazione delle banche. Non era dunque vero che al collettivismo si potesse giungere soltanto attraverso la via rivoluzionariadell’epropriazone violenta, ma pure attraverso la legale e graduale avocazione a enti pubblici di nuovi compiti produttivi e di nuove funzioni sociali. . . . E non è che il dissolvimento di questo processo economico, cui abbiamo assistito, abbia prodotto incremento della produzione e della ricchezza. Assistiamo invece a una gravissima crisi economica, che affanna i Paesi maggiormente industrializzati e non lascia ancora intravedere uno spiraglio di ripresa, al calo della produzione, al vorticoso aumento della disoccupazione, al depauperamento sino allamiseria della gente, alll’accentrarsi della ricchezza nelle mani di meno d’un decimo della popolazione mondiale, allo strapotere delle banche, alla minaccia d’esplosione della peggiore e più sanguinosa delle lotte: quella sociale. Il futuro storico, nell’esporre e commentare le vicende della nostra era, non potrà non riconoscere che i Padri costituenti della Repubblica italiana furono dei profeti e che, a scongiurare questimali, scrissero pagine memorabili dando una saggia Costituzione al nostro Paese. Rileggiamone, nella parte I (Diritti e doveri dei cittadini), del titolo III (Rapporti economici) alcuni articoli:
ART. 41 L’INIZIATIVA ECONOMICA PRIVATA E’ LIBERA. NON PUO’ SvOLgERSI IN CONTRASTO CON L’UTILITA’ SOCIALE O IN MODO DA RECARE DANNO ALLA SICUREZZA, ALLA LIBERTA’, ALLA DIGNITA’ UMANA. LA LEGGE DETERMINA I PROGRAMMI E I CONTROLLI OPPORTUNI PERCHE’ L’ATTIVIT’A’ ECONOMICA PUBBLICA E PRIVATA POSSA ESSER INDIRIZZATA E COORDINATA A FINI SOCIALI. ART. 42 LA PROPRIETA’ E’ PUBBLICA E PRIVATA. I BENI ECONOMICI APPARTENGOMO ALLO STATO, AD ENTI O A PRIVATI. LA PROPRIETA’ PRIVATA E’ RICONOSCIUTA E GARANTITA DALLA LEGGE, CHE NE DETERMINA I MODI DI ACQUISTO, DI GODIMENTO E I LIMITI ALLO SCOPO DI ASSICURARNE LA FUNZIONE SOCIALE E DI RENDERLAACESSIBILE A TUTTI. LA PROPRIETA’ PRIVATA PUO’ ESSERE, NEI CASI PREVEDUTI DALLA LEGGE, E SALVO INDENNIZZO, ESPROPRIATA PER MOTIVI D’INTERESSE HENERALE. LA LEGGE STABILISCE LE NORME ED I LIMITI DELLA SUCCESSIONE LEGITTIMA E TESTAMENTARIA E I DIRITTI DELLO STATO SULLA EREDITA’. ART. 43 AI FINI DI UTILITA’ GENERALE LA LEGGE PUO’ RISERVARE ORIGINARIAMENTE O TRASFERIRE, MEDIANTE ESPROPRIAZIONE E SALVO INDENNITTO, ALLO STATO, AD ENTI PUBBLICI O A COMUNITA’ DI LAVORATORI O DI UTNTI DETERMINATE IMPRESE O CATEGORIE DI IMPRESE, CHE SI RIFERISCANO A SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI O A FONTI DI ENERGIA O A SITUAZIONI DI MONOPOLIO ED ABBIANO CARATTERE DI PREMINENTE INTERESSE GENERALE. ART. 44 AL FINE DI CONSEGUIRE IL RAZIONALE SFRUTTAMENTO DEL SUOLO E DI STABILIRE EQUI RAPPORTI SOCIALI, LA LEGGE IMPONE OBBLIGHI E VINCOLI ALLA PROPRIETA’ TERRIERA PRIVATA, FISSA LIMITI ALLA SUA ESTENSIONE SECONDO LEREGIONI E LE ZONE AGRAIE, PROMUOVE ED IMPONE LA BONIFICA DELLE TERRE, LA TRASFORMAZIONE DEL LATIFONDO E LA RICOSTITUZIONE DELLE UNITA’ PRODUTTIVE; AIUTA LA PICCOLA E LA MEDIA PROPRIETA’. LA LEGGE DISPONE PROVVEDIMENTI A FAVORE DELLE ZONE MOTANE. ART. 46 AI FINI DELLA ELEVAZIONE ECONOMICA E SOCIALE DEL LAVORO E IN ARMONIA CON LE ESIGENZE DELLA PRODUZIONE, LA REPUBBLICA RICONOSCE IL DIRITTO DEI LAVORATORI A COLLABORARE, NEI MODI E NEI LIMITI STABILITI DALLE LEGGI, ALLA GESTIONE DELLE AZIENDE.
Le formule votate agli artt. 41-44 lasciano aperte tutte le possibilità: dal liberalismo economico classico fino al collettivismo. E’ evidente il desiderio di stabilire una concordanza ed evitare ogni contraddizione interpretativa tra la categorica affermazione del primo comma del’art. 41 e le possibilità di limitazioni contenure nelle disposizioni successive. Il tempo e lo spazio non ci consentono di raccontarel’interssantissima storia dell’art.46. La formula approvata, di netto compromesso, è dovuta a un emendamento presentato all’ultima ora dall’On.le Gronchi. Il testo del progetto era ben più esplicito: “Lo Stato assicura il diritto dei lavoratori di partecipare alla gestione delle aziende ove prestano la loro opera. La legge stabilisce i modi e i limiti di applicazione del diritto”. Con questa formula si riconoscevano i consigli di gestione con funzioni deliberative. Gli effetti della sua approvazione sarebbero stati, per lo meno dal punto di vista della immediatezza, disastrosi. Fu appunto durante la discussione di questo articolo che venne fatta circolare la voce secondo cui la sua approvazione avrebbe determinato un esodo d imprenditori e di macchinari dall’Italia (voce oggi ricorrente, volta a intimidire maestranze disoppririentate), La norma approvata, invece, parla soltanto di collaborazione alla gestione, il che implica funzioni soprattutto consultive dei consiglidi gestione. I problemi sollevati durante la discussione dell’artcolo furono numerosi. L’articolo, invero,, è interessante non solo per ciò che dice, ma anche per ciò che non dice. Fu infatti deliberatamente escluso di parlare anche della compartecipazione dei lavoratori agli utili aziendali e dell’azionariato operaio. L’esclusione, che rientra nel compromesso, fu voluta soprattutto dalla Sinistra, nel timore di un imborghesimento della classe operaia. D’altra parte, la stessa Sinistra, pur favorevole alla funzioni deliberative dei consigli di gestione, mai volle accedere al concetto, correlativo, della responsabilità. In caso di fallimento dell’impresa, quindi, sarebbero stati penalmente e civilmente responsabili soltanto i gestori datori di lavoro e non anche i gestori stipendiati o salariati. Oggi, tutto questo impianto costituzionale è seriamente minacciato dalle richieste della Confindustria e dalla parte retriva delle forze parlamentari, che pretende una sostanzialemodifica, per soddisfare quelle richieste, dell’art. 42 in favore della piena libertà delle imprese, peraltro già ampiamente garantita dall’art. 41, c. 1°, onde si accende il contrasto tra costituzionalisti e economisti di scuola neo-liberista. Nessuno pone in dubbio che il decorso del tempo e le esigenze di tempi nuovi impongano emendamenti a una Carta costituzionale. I Padridella Costituzione statunitense furono i primi a premerlo e ammetterlo. Ma nessun vero costituzionalista ammetterebbe mai lo stravolgimento dell’impianto costituzionale dello Stato. Sino a oggi nessuna dei partiti e movimenti politici, presenti in Parlamento e pure da esso assente, ha ammesso l’intangibilità, nella nostra Carta, dei suoi principi fondamentali e dei diritti e doveri dei cittadini, enunciati negli artt. 13-54. Aggiornabili e quindi emendabili – è stato universalmente riconosciuto - sono l’ordinamento della Repubblics (artt. 55-138), ossia la parte II della Costituzione, con la logicaeccezione dell’art. 139: “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”. Si lasci pure sbraitare, lacerarsi le vesti e strapparsi i capelli chi vuole. L’art. 54 Cost. è perentorio: “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle on disciplina ed onore prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”. Vige ancora l’art. 283 C.P. e l’attentato alla Carta dei diritti dei doveri del cittadini contenuta nella prima parte della nostra Costituzione è quindi ancora punito con la reclusione non inferiore a12 anni. Chi ha orecchio per intendere, intenda e faccia in tempo a rinsavire.
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