|
|
Verso la dittatura delle minoranze? |
|
|
|
|
|
|
|
|
Ormai appare conclamato che a ogni tornata elettorale debba inverarsi un inevitabile rituale che ha la sua consacrazione in un prima e un dopo. All’inizio del percorso e fino al responso delle urne impazzano i sondaggi, a risultati acquisiti furoreggiano i toni trionfalistici dei vincitori. Tentiamo per una volta qualche riflessione che potrebbe risultare utile anche in futuro. In primis i sondaggi sono ingannevoli ovvero orientati o pilotati, tant’è vero che non ne azzeccano una: è avvenuto in diverse consultazioni e smaccatamente nelle recenti elezioni americane. Si badi bene: è vero che grosso modo non avevano indicato con certezza il nome del vincitore ma tutti davano per scontato uno scontro testa a testa tra i due contendenti fino all’ultimo voto. Come sappiamo i fatti sono andati poi diversamente, con la schiacciante vittoria di DonaldTrump. Ma qui s’innesta l’altro aspetto critico del discorso. Da ogni parte si è teorizzato sul plebiscito che avrebbe ottenuto il redivivo prossimo inquilino della Casa Bianca. Tuttavia pare che I conti non li voglia fare nessuno giacché questi conti fanno luce su uno scenario preoccupante per il futuro della democrazia. A favore di Trump si sono espressi poco più di settanta milioni di americani su una popolazione di circa trecento quaranta milioni, in pratica un po’ più del venti per cento del totale ed anche contando soltanto gli aventi diritto al voto (ragioni anagrafiche o altro), il rapporto non è per niente straordinario. Sulla scarsa affluenza al voto in America si è discusso molte volte in passato, sostenendo in pratica che, trattandosi di una democrazia salda, poco importa il nome del Presidente tenuto conto che l’apparato democratico di base è solido è collaudato. Ma è davvero così ora che tutti i poteri sono concentrati nelle manidi una sola persona in barba a qualsiasi logica dei contrappesi e dell’equilibrio istituzionale? L’episodio americano non è isolato se si pensa che anche in Italia, ad esempio, il partito della Meloni ha ottenuto circa il trenta per cento dei voti espressi dalla metà dei coloro che si sono recati ai seggi (circa il cinquanta per cento degli aventi diritto). Ma incurante di analisi leggermente più attente e complesse si parla sempre di trionfi, di investiture plebiscitarie e così via. In altre epoche queste forme di regime politico sono state già studiate; i greci parlavano di oclocrazia, vale a dire il presunto governo delle masse che affidano ad un uomo forte in tempi di crisi tutti i poteri nella convinzione che costui è in grado di risolvere ogni questione. Ma si tratta evidentemente soltanto di un processo degenerativo della democrazia. Andrebbe allora avviata una seria analisi sulle ragioni del non voto, capire perché lamaggioranza dei cittadini in quasi tutti i paesi diserta sempre più le urne ovvero non ne vuole sapere di “investire” Tizio o Caio e non se ne importa se gli “altri”, magari a suon di miliardi, fanno poi il bello e il cattivo tempo. Per restare in territorio americano viene in mente il finale del più bel film di Robert Altman, “Nashville”, ovvero la canzoncina che riassume le ragioni del comportamento o meglio della strafottenza individuale che recita così: “you may say that I am free but it don’t worry me” (“tu puoi anche dire che io solo libero, ma io me ne sbatto”). Ecco: sarebbe più giusto pensare una buona volta che è arrivato il momento di darsi da fare e dedicarsi a qualcosa che interessa davvero. Antonio Filippetti |
2024-12-01
|