articolo 2538

 

 
 
Verso la dittatura delle minoranze?
 











Ormai appare conclamato che a ogni tornata elettorale  debba inverarsi un inevitabile rituale che ha la sua consacrazione in un prima e un dopo. All’inizio del percorso  e fino al responso delle urne impazzano i sondaggi, a risultati acquisiti   furoreggiano i toni trionfalistici dei vincitori.
 Tentiamo per una volta qualche riflessione che potrebbe risultare  utile anche  in futuro. In primis i sondaggi sono ingannevoli ovvero  orientati o pilotati, tant’è vero che non ne azzeccano una: è  avvenuto in diverse consultazioni e smaccatamente nelle recenti elezioni americane. Si badi bene: è vero che grosso modo non avevano indicato con certezza  il nome del vincitore ma tutti  davano  per scontato uno scontro  testa a testa  tra i due contendenti  fino all’ultimo voto. Come sappiamo i fatti sono andati poi diversamente, con la schiacciante vittoria di Donald
Trump.  Ma qui s’innesta l’altro aspetto critico del discorso. Da ogni parte si è teorizzato sul plebiscito che avrebbe ottenuto il redivivo  prossimo inquilino della Casa Bianca. Tuttavia pare che I conti non li voglia fare nessuno giacché questi conti fanno luce su uno scenario preoccupante per il futuro della democrazia. A favore di Trump si sono espressi poco più di  settanta milioni di americani su una popolazione di circa trecento quaranta milioni, in pratica un po’ più del venti per cento del totale ed anche contando soltanto gli aventi diritto al voto (ragioni anagrafiche o altro),  il rapporto non è per niente straordinario. Sulla scarsa affluenza al voto in America si è discusso molte volte in passato, sostenendo in pratica  che, trattandosi di una democrazia salda, poco importa il nome del Presidente tenuto conto che  l’apparato democratico di base è solido è collaudato.  Ma è davvero così ora che tutti i poteri sono concentrati nelle mani di una sola persona in  barba a qualsiasi logica dei contrappesi e dell’equilibrio istituzionale?
L’episodio americano non è isolato se si pensa che anche in Italia, ad esempio, il  partito della Meloni ha ottenuto  circa il trenta per cento dei voti espressi dalla metà dei coloro che si sono recati ai seggi (circa il cinquanta per cento degli aventi diritto). Ma incurante di analisi leggermente più attente e complesse si parla sempre di trionfi, di investiture plebiscitarie e così via.
In altre epoche queste forme di regime politico sono state già studiate; i greci parlavano di oclocrazia, vale a dire il presunto  governo delle masse che affidano ad un uomo forte in tempi di crisi  tutti i poteri nella convinzione che  costui è  in grado di risolvere  ogni questione. Ma si tratta evidentemente soltanto di un processo  degenerativo della democrazia. Andrebbe allora avviata una seria analisi sulle ragioni del non voto, capire perché la
maggioranza  dei cittadini in quasi tutti i paesi diserta sempre più  le urne ovvero non ne vuole sapere di “investire” Tizio o Caio e  non se ne importa se gli “altri”,  magari a suon di miliardi, fanno poi il bello e il cattivo tempo. Per restare in territorio americano viene in mente il finale del più bel film di Robert Altman, “Nashville”, ovvero  la canzoncina  che riassume le ragioni del comportamento o meglio  della strafottenza individuale che recita così: “you may say that I am free but it don’t worry me” (“tu  puoi anche dire che io solo libero, ma   io me ne sbatto”). Ecco:  sarebbe più giusto pensare una buona volta  che è arrivato il momento di darsi da fare e  dedicarsi a qualcosa  che  interessa davvero.
Antonio Filippetti



2024-12-01