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Mantello d'ombre
di Marco Goldin
Tommasi
Ferroni non dipinge - e qualcuno l'ha detto - come se le avanguardie
non fossero mai esistite; senza di esse la sua pittura non avrebbe
un senso preciso. Perché, sopra ogni altra cosa, il fascino
straniato delle sue immagini nasce da un grande spaesamento, da
un continuo capovolgersi degli ancoraggi storici, dei punti sia
geografici che temporali di riferimento; da una fusione, infine,
tra il presente, la quotidianità e i capitoli più
diversi del passato. Poiché la sua è una costruzione
di natura tipicamente culturale, così tanto appoggiata alle
vicende dell'arte, anche quella della contemporaneità, delle
avanguardie, pur negate, o almeno intese come termine, ironico,
di riferimento (il Cellotex di Burri davanti al canestro di frutta
di Caravaggio nell'Interno del 1971). Da consentirgli l'ininterrotto
passeggiare disincantato tra il Seicento e De Chirico, tra Burri
e i pittori di genere napoletani.
Nata così, sull'onda del paradosso, dell'ironia, dell'apparente
distacco dalle cose rappresentate, questa vicenda è invece
molto più complessa e articolata di quanto effettivamente
appaia a uno sguardo distratto, e mostra un continuo adeguarsi ai
moti dell'animo, che sono poi quelli della conoscenza; rivedere
se stessi alla luce mutevole di un'esperienza che avvince, strega
e stringe attorno a un centro. Tommasi Ferroni supera la realtà,
che pur sembra tratteggiare con tanta evidenza, facendo balenare
il dubbio che la verità non stia nella copia delle forme,
quanto, invece, e di più, in quell'alone sulfureo, che per
lui è quasi sempre nebbia dorata, che compare alto sulle
cose. E che, insomma, su tutto vinca il silenzio che evoca, richiama,
manda segnali, profumi,bagliori intermittenti, baluginiì
improvvisi e non governabili.
Una pittura che si era sempre ritenuta il regno della glaciale,
e quasi automatica, perfezione, nasconde insidie, passi segreti,
passaggi mai prima visti e sperimentati; possiede luoghi e regioni
finora inesplorati, dove è pur vero che risiede, anche, il
sentimento ultimo del lavoro. Utile fin che si vuole una lettura
storica, di sostanziosa illuminazione iconografica, per l'opera
di questo pittore; ma non è possibile, e neppure completo,
limitarsi a scoprire nei singoli quadri, e finanche nei singoli
particolari dei singoli quadri, derivazioni dotte che tanto spesso
hanno a che fare con l'artificio e la gratuita erudizione, piuttosto
che con la vera sostanza della pittura. Che, in fondo, non dimentichiamolo,
appartiene soltanto all'uomo che le dà forma, che le soffia
con vigore il fiato della vita. Lontana dal museo, distantissima
dalle cere imbalsamate, possiede, più che non si creda, le
stimmate della vita, il chiaro segno che il tempo è trascorso.
Non l'illusione dell'eternità, soltanto perché su
di essa si è poggiata, consolatrice, o matrigna, la Storia;
ma la comprensione solenne, in qualche caso dolorosa se non drammatica,
che il tempo non getta veli, non attutisce cadute, ma attira, inesorabilmente
e senza preavviso, dalla parte dell'ombra.
Nasce così, personalissima e nuova nell'arte di questi anni,
una decadenza della Storia; figure che già appartenevano
all'immortalità, ricondotte nel mezzo dell'arena, a scontrarsi
con chi quella presunta immortalità, quel cedere non più
alle insidie del tempo, sogna come unguento prezioso. Perché
poco importa che nello studio del pittore si diano convegno Paofina
Borghese ischeletrita e la bellissima modella; il loro destino si
gioca sullo stesso tavolo, e la partita non è chiusa, nel
gran caleidoscopio dell'arte. Tommasi Ferroni si consegna un compito
immane, forse ingrato ma altissimo: di essere lui, che pure non
sfuggirà al fendersi della terra, a decidere della sorte
di molti altri; passati per quella strettissima porta che conduce
al luogo da nessuno mai conosciuto.
C'è
un quadro molto bello, davvero inaugurale di un modo d'intendere
la pittura in Tommasi Ferroni, e subito chiarificatone di cosa sarà
poi il suo percorso. Cade nel 1958, e si intitola Lezioni di anatomia.
illustri precedenti, tra Cinque e Seicento, soprattutto nell'arte
del Nord Europa, ne potrebbero limitare l'importanza a mera copia.
Ma vi compare, come un'eredità del Greco, quel colore livido,
acido, allucinato; quasi una colata di lava incandescente avesse
intriso di sé la camicia della figura scimmiesca che guarda
dal basso il corpo nudo disteso sul tavolaccio; o il verde paludoso,
che è una notte di Tintoretto, di colui che tiene il braccio
levato sulla spalla. Fino all'apparizione argentea, di un cardo
rinsecchito d'alta montagna, di una specie di Cristo mantegnesco
però meno marmoreo, e ancora percorso da un ricordo di sangue
fluente. E, dietro, la folla ridente e biascicante di bocche aperte,
di rossi appena accennati che emergono languenti dal buio fondo.
Perché poi si legge, in questa immagine, un desiderio, che
darà forza ad altri interni neo-caravaggeschi che andranno
a occupare gli anni Settanta e Ottanta, il desiderio di ascoltare
un richiamo, di porgergli orecchio; di percepirlo, quasi, anche
in sua assenza. La volontà di levare lo sguardo, di uscire
dalle pareti buie della stanza, di scongiurare l'isolamento, di
abbattere confini, di limitare, per quanto possibile, la permanenza
dentro un sottosuolo. Come se il colore così concepito avesse
sostituito l'urlo; e tuttavia muto.
Non
so se qualcuno abbia mai fatto riferimento a una, seppur particolarissima,
religiosità in Tommasi Ferroni. Ma a me pare che spesso,
soprattutto quando le sue composizioni alludono a uno spazio aperto,
la definizione di questo spazio non si possa dir conclusa nell'atto
della raffigurazione, ma cerchi un oltre, un altrove. Certo, non
basta questo a definire religiosi quei dipinti, anche perché
nulla è qui di una trascendenza cristiana. Semmai, continuamente
compromessa con 2 mondo del Mito, con quello della classicità.
Eppure, si sente un'ansia, laica fin che si vuole, ma pur sempre
un respiro affannoso, una sorta di riverenza nel tracciare le linee,
immaginarie, dell'infinito.
Un quadro, che resta come uno dei passaggi cruciali di tutta l'opera,
Gli indemoniati di Gerasa (1965), rende benissimo questo spirito,
poiché è in esso contenuta la durezza della notte
e l'evanescenza di un'apparizione. Come affiorato dai flutti di
un mare placatosi dopo la tempesta, la figura del Cristo avanza
sulla spiaggia piatta, senza vento; eppure si muove, ondeggia, la
veste che lo fascia come dovesse stringere un'ombra, un corpo che
non consiste se non d'aria. Seduti su un cassettone lo attendono
gli indemoniati, avvolti dentro impermeabili rischiarati da una
luce di Embo. Difficile sapere, qui, a che punto si fermi l'illustrazione
dell'episodio e dove, invece, cominci l'invenzione di Tommasi Ferroni.
Perché poi la ricchezza del dipinto sta tutta nella definizione
di uno spazio che non esiste, di questa costa sabbiosa sospesa sul
nulla. Un estremo lembo di mondo prima dell'eterno.
Non si può dire che egli abbia mai, davvero, dipinto paesaggi,
se si eccettuano quelle bellissime vedute di Roma che persegue con
ostinazione; ripresa di altre vedute della capitale lontane vent'anni.
Ma, con grande coerenza, sempre, dagli esordi e fino alle prove
più recenti, i luoghi che ha descritto sono stati il frutto
di un rovello interno, provenienti da una privata, privatissima,
riserva, dentro la quale tutto accade sotto il segno di una nebbia
che non sporca, non impolvera, non annerisce, ma lievemente stende
il suo mantello dorato sulle cose, sulle persone, sui ricordi. Vi
è allusa una trasparenza che è quella stessa delle
figure, replicate poi nei ricchi interni dei palazzi barocchi. Ma,
adesso, è il segno di una semplicità, che sta tutto
nella mano benedicente del Cristo, emanazione del paesaggio e ad
esso ritornante. Soprattutto in questi anni Settanta, e almeno fino
alla metà del decennio successivo, si attua mirabilmente
quell'interazione continua per cui quei corpi vuoti di muscoli,
vuoti di vene e arterie, solo pelle disseccata fattasi Enea di vento,
sono arbusti cresciuti dal terreno; sono, insomma, frutto della
terra. Non si vede, ma spira, questa brezza funebre che è
tutt'uno con la notte.
In
un mondo che, pur essendo spesso costretto dentro una stanza, mostra
di essere sempre in movimento e mai uguale a se stesso, la donna
rappresenta il termine immutabile entro il quale far confluire tutte
le passioni, che poi si rivelano superate. Talvolta compare, assorta,
accanto a Titani in lotta, oppure, lo sguardo rivolto verso il pittore
che la ritrae, mentre al suo fianco cade, mozzata, una testa. E
non cessa mai di trascorrerle dentro gli occhi un sorriso appena
accennato, forse neppure distinguibile , eppure presente. Il sorriso
che è assenso, indicazione di una presenza.
Nel 1966 Tommasi Ferrorni aveva dipinto un delicatissimo, e quasi
ingresiano, volto femminile, il Ritratto di Rossana. Contrariamente
ad altre figure del periodo, quel volto consisteva; anzi, resisteva,
ponendosi pieno, incorrotto, al centro della scena. Non vi era allusa
alcuna idea di corrompimento. Quell'immagine era essa stessa la
pienezza del tempo, il suo trionfo. Soltanto nel beve movimento
delle labbra, come a segnare un lievissimo diniego, si poteva cogliere
un dubbio, un sospetto; che anche quella bellezza, la sua propria
bellezza, non fosse destinata a durare in eterno. Ma era, appunto,
solo un attimo, una previsione che passava veloce. Perché
poi il senso della contemplazione ; da quell'osservatorio apparentemente
sospeso, lontano dalle vicende del mondo, una comprensione più
chiara si aveva del vivere. Fosse quello della precarietà
quotidiana, o quello, quasi al sicuro, del passato e dei suoi abitanti.
Ma un vivere che non si mostrava sempre aderente alla lotta che
intorno si svolgeva. Da allora Tommasi Ferroni ha affidato alla
donna il ruolo di vedetta, di avvisatrice. Sarà forse per
questo, e anche per quel desiderio inconfessato di previsione, che
non manca mai di essere avvolta dalla nube della malinconia. Come
intuisse prima, e meglio, l'inutilità della lotta; la sopraffazione
della Storia.
A
metà degli anni Settanta compaiono due dipinti celebri che
ritraggono il pittore: Autoritratto con Filippo IV (1974) e Autoritratto
con Giordano Bruno (1975). Sono numerosissimi i quadri in cui Tommasi
Ferroni, nelle foggie più diverse, si mescola agli altri
personaggi del suo narrare. Ma in questi, e soprattutto nel secondo,
lo fa con una nota di più insistita inquietudine, lasciando
che a cedere sia il velo dell'ironia. E se nel Filippo IV la pittura
riecheggia la sontuosità di Velàzquez, da cui pur
è tratta l'immagine, compiacendosi di una ricchezza d'impasti
rara, nel ritrarsi con Giordano Bruno sceglie che il filosofo sia
tutto racchiuso nel mantello della notte, per trame fuori solo il
volto terreo, cui fa da silenzioso controcanto la veste candida
in cui si avvolge. Ed è il segno di una resistenza, di una
abbarbicarsi; la speranza di non farsi travolgere dall'impeto della
Storia che lui stesso, temerario, ha rimesso in movimento, suscitandola
dalle tenebre. Non ad altro paiono alludere, anche negli anni Ottanta,
i diversi autoritratti; il continuo provare che un posto, pur defilato
e da comprimario, ancora esiste. Che non tutto lo spazio può
dirsi cancellato, non transitabile.
Se finora il ricorso a immagini della storia artistica non è
stato così continuo e insistente, con la seconda metà
degli anni Settanta comincia a farsi necessario e imprescindibile
per il lavoro di Tommasi Ferroni. Un quadro del 1976, tra i più
beffi del periodo, Giuditta, ci informa su quale sarà, d'ora
in avanti, il meccanismo della pittura, che pur troverà,
nel corso del decennio successivo, significativi adeguamenti in
chiave di straniamento quotidiano. La replica di situazioni desunte
da maestri antichi mantiene, per ora, un preciso riferimento a un
clima che è già, però, disatteso, ad esempio,
nel Cristo deriso del 1977, quando prende a farsi largo l'accostamento
sistematico e incongruente tra gli oggetti, e i feticci, della modernità
e lo spirito, più ancora della nuda immagine, dell'antichità.
Un dipinto come il Mosè salvato dalle acque, del 1981, apre
in modo nuovo il corso di questi ultimi anni. Ricompare una quinta
di natura, che è fondale di teatro più che ambiente,
e li davanti si compie quello che è il vero rito dell'arte
attuale di Tommasi Ferroni: il desiderio di non avere punti fissi,
di non consentire ancoraggi certi, di travolgere tutto in nome della
pittura. Divinità vincente, in suo nome si compie ogni gesto
possibile, si evocano fantasmi che appaiono, ci si specchia nell'acqua
di un'alba livida. Belle, proprio in questi anni, alcune vedute
che hanno qualche parentela con Poussin; vedute della campagna romana,
e che anticipano quegli scorci neodanteschi dell'Alta Versilia che,
da parte loro, saranno il preludio alla stupefacente stagione dei
paesaggismo barocco di Roma, cui Tommasi Ferroni si dedica oggi
con dorati incanti.
C'è un episodio, prima marginale, poi colto nella sua pienezza
di immagine autonoma, che nella pittura di Tommasi Ferroni sta come
una condensazione marmorea della vita. E' quello delle nature morte
di pesci, che, sul finire degli anni Settanta, cominciano a comparire
con insistenza, e che oscillano tra i napoletani Ruoppolo e Recco
o il piacentino Felice Boselli e la grazia funeraria di Cagnaccio
di San Pietro, l'appartato, e fino a poco fa misconosciuto, pittore
veneziano.
Dell'interesse per questo tema se n'era già avuta indicazione
quando, negli Indemoniati di Gerasa, in un angolo, era comparso
un gruppo di razze e polpi, che tanto era piaciuto a Maurizio Marini,
che ne scrisse in modo entusiasta. Ma ora, visti nella prospettiva
ravvicinata, questi pesci con le bocche spalancate, a cui è
stato tolto il bene dell'ultimo respiro, sono l'essenza della pietrificazione.
Pur evocando la morte, non tengono di essa il lato drammatico, ma,
anzi, se la morte ne ha uno, l'aspetto di sfida, di inespressa indifferenza.
Sono i reperti di un mondo che non c'è più; fossili
che tra qualche millennio non staranno più su un tavolo o
adagiati sulla sabbia, ma saranno tutt'uno con la terra; faglie
essi stessi, fessure, crepacci, gorghi di polvere nell'aria ormai
annerita. Brani di pittura, non dicono più soltanto la bravura
di Tommasi Ferroni, ma isolano un'idea, garantiscono un'uscita diversa
dalla Storia, entro i cui confini, fatalmente, noi siamo.
Si è molto puntato, nella lettura critica dell'intero percorso
del pittore toscano, sul suo "caravaggismo", che è
però completamente se stesso solo negli anni Ottanta, quando
alcuni quadri dei più significativi tengono racchiuso quello
spirito carico d'ombra e di luci continuamente contraddette. La
Salomè e la Cena in Emmaus del 1982, l'incredulità
di San Tommaso, Sansone e Dalila e Abramo e Isacco del 1983, fino
alla Partita a scacchi del 1986, sono, anche al di là di
temi che non sempre attengono al maestro lombardo, un racconto coerentemente
ammantato di silenzi, di brusio fondo, di paure, ma anche di notturne
dolcezze inconfessate.
Tra tutti, proprio perché più densamente abitata dal
lume della poesia, rimane centrale la Cena in Emmaus, dove maggiormente
Tommasi Ferroni parla una lingua sua, dando, inizio alla resa del
reale che assomma l'interno di un'osteria romana con il palpito
universale della benedizione dei pani e dei pesci. Quell'aspetto
di sacralità che già altre volte pareva aver invaso
la tela, ora si fa spazio popolato dalla luce, avendo coniugato
in maniera felice l'ovvio quotidiano con il senso di una rivelazione.
Sempre, nel suo racconto caravaggesco, egli si affida a un ingresso
trionfale proprio della luce, a quel taglio diagonale che incide
le cose, gli angoli delle stanze, ma, ancor di più, le persone.
Sono figure che dicono di un affondo psicologico che prima non era,
e che non tralascia mai il colore dell'anima.
A me pare di sensibilissimo fascino proprio l'immagine del Cristo
benedicente nella Cena. Diafano, quasi spettrale, con una mano sospesa
sopra il pane, e l'altra bloccata nell'aria, immobile, è
davvero un corpo appena uscito dal sepolcro, un'apparizione per
gli apostoli-osti che poggiano sul tavolino l'incredulità
del momento, l'avidità dei loro occhi. Poche altre volte,
o forse mai, Tommasi Ferroni ha dato in questo modo vita a un corpo
morto, che indossa ancora l'abito del passaggio, del transito; ancora
piegato dai venti del sottosuolo, umido della terra che non tiene,
ma bianchissimo di una luce che qui non si vede. Poi l'ombra invade
la quinta retrostante, chiusa da un drappo teso su una fune; è
qui l'ombra di un nulla invocato, e desiderato. Un vuoto di cui
non si ha timore, proprio perché davanti, come una sentinella,
riluce una fiamma diversa. Se è questo il pittore della Storia,
occorre scoprisse il grande spessore di sogno, di memoria, che confina
la realtà lontana anche quando pare toccasse le corde più
tese. E anzi, tanto più ne denuda le forme, tanto più
ne scopre le fibre segrete, nascoste, addirittura invisibili. A
questa incantata profondità di visione, a questo scandaglio
sotterraneo, la Cena in Emmaus offre il miglior appoggio possibile
all'interno di tutta l'opera.
Ma altrove l'ombra non avvolge, e ghermisce invece come un animale
rapace. Già avviene in un quadro cardine, come la Vanitas
del 1983, o anche nell'Autoritratto del medesimo anno. Sono momenti
di colloquio privato, che di qui in avanti si moltiplicheranno,
quasi la meditazione potesse ora avvenire m modo privilegiato non
più, o non solo, dentro il grande scenario della Storia,
ma anche in una sorta di cappella intima, che è poi il luogo
della coscienza. Compare spesso il bucranio, appena addolcito da
un ramo verde, da qualche fiore intrecciato, ma poi, alle spalle
del pittore, il cielo azzurro è oscurato da un nero velame
che lascia scorgere corpi caricati da un monatto su un cavallo alato.
Niente si sottrae più a questo dominio dell'ombra, tanto
che, sempre nel 1983, giunge un quadro
simbolo, l'Abramo e Isacco, dove un nero di pece, aguzzo e saettante,
si staglia sul muro. Se lo guardiamo accanto a un dipinto dell'anno
seguente, Leda, avremo una sorta di grande dittico che tra Mito
e resoconto biblico lascia comunque ben trapelare il senso di entrambe
queste composizioni.
Siamo orinai, alla metà del decennio, sul finire di questo
grande ciclo storico, che ha occupato coscientemente Tommasi Ferroni
per quasi trent'anni. Ora che l'ombra ha conquistato il campo, il
pittore pare ritrarsi; sente lo spazio della pittura improvvisamente
angusto. E prima di rimanerne prigioniero, decide di evadere, di
fuggire. Come si fosse manifestato il rischio di una maniera, si
apre a nuove strade. Non che il nuovo sia così diverso dall'arte
di ieri, ma vi si sente un respiro che è più propriamente
narrativo, di pura invenzione fantastica, una sorta di moderno Orlando
Furioso che sullo sfondo ha quasi sempre le rovine di Roma.
Ma, prima di abbandonare il campo, dà, in un solo quadro,
come una sintesi del suo pensiero; ed è allora un'altra di
quelle opere che si pongono sul crinale di un rovesciamento, sul
discrimine tra il prima e il poi. Una partita a scacchi, del 1986,
tiene del vento caravaggesco gli aspetti più nobili, quelli
che più hanno motivato Tommasi Ferroni a farsene interprete.
E già, tuttavia, con alcuni tra gli elementi che di qui a
poco andranno a comporre i più sensibili tra i suoi lavori.
In primo piano infatti, davanti al tavolo attorno al quale il nuovo
Matteo attende la forza della chiamata, sta un altro tavolo, più
piccolo, su cui compaiono dei fiori secchi, un panno e un teschio
illuminato sul far sera. L'ombra sul muro non è più
la mano feroce che rapisce, ma è tornata a essere lo spirito
dell'atmosfera; che domina senza generare paura. Rimane lo stupore,
e il senso di attesa, neo occhi dei tre sollevati dalla scacchiera.
Quell'attesa che evoca il mistero e che è il tratto distintivo,
più poetico ed essenziale, di tutta questa vicenda.
C'è un quadro del 1991, una Natura morta con un grande teschio
d'animale poggiato su un tavolo -balaustra da cui si domina Roma,
che immette nella fervidissima stagione recente, quasi tutta dedicata,
proprio nel momento in cui l'ha fisicamente lasciata per tornare
in Versilia, alla città eterna. Senza l'assillo della realtà,
tenuta sul filo della memoria, Roma cresce dentro luci giallastre,
un po' imputridite, malate. Strani esseri, suonando trombe, solcano
il cielo sopra piazza Navona, e incontrano il fragore della folgore.
La civiltà del Barocco celebra qui i suoi fasti; ma è
un'aria sempre sul punto di spegnersi, di spezzarsi; l'inizio di
una non frenabile decadenza. Come altre volte gli era accaduto di
fare, Tommasi Ferroni racconta nel momento di un possibile ribaltamento;
quell'istante, breve e però perpetuato dalla mano dell'artista,
che prelude a un disfacimento, senza che ancora sia avvenuto. Roma
gli si offre dentro una luce temporalesca, agitata, da giorno del
Giudizio. Non si poteva immaginare spazio che meglio aderisse a
questo sentimento di caducità delle cose, fondale incandescente
per le lotte dei Titani o per i giochi degli Amorini.
Che il tempo qui si consumi, che possa prevedersi un suo arresto,
non è più l'invenzione del pittore, ma l'inevitabile
conseguenza di un cielo che sta per aprirsi e rovesciare sulla terra
tutto quanto contiene. Non è un caso che a osservare questa
tempesta venire non siano più le figure di un tempo; i personaggi,
gli interpreti di questa pittura, si sono di molto ristretti. Figure
del Mito e la sola vera presenza dello stesso Tommasi Ferroni, che
nei molti autoritratti si fissa come unico punto di resistenza.
Finché si aprirà in alto un varco, e occorrerà
trovare un passaggio. Tutto attraversato, da qualche altro punto,
che ora sfugge, si ricomincerà.
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