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RICCARDO TOMMASI FERRONI
FINZIONE DELLA VERITÀ IN PERSONAGGI IN CERCA D'AUTORE
di Enzo Dall'Ara
"L'arte
non riproduce il visibile, rende visibile", sosteneva Paul
Klee. Se accettiamo quest'affermazione come oggetto del vero, come
ipotesi di elaborazione pittorica in seno a tensioni figurative
o a proiezioni astratte, quali rispondenze si possono riscontrare
nell'arte di Riccardo Tommasi Ferroni? Vi sono assonanze di contenuti
operativi oppure divergenze nella speculazione intellettuale del
grande artista toscano? E se esistono concordanze dialettiche con
tale dichiarazione di intenti etici ed estetici, dove ritrovarne
l'essenza e l'oggettivazione?
Pare indubitabile che l'intera vicenda artistica del pittore italiano
sia proprio rivolta ad una formulazione assai meditata dei parametri
culturali che hanno scandito, in continuità dialogica, le
varie tappe della ricerca espressiva occidentale, alimentando un
divenire sincrono di spazio e tempo, attestato come univoca universalità
e, pertanto, come negazione di frammentarietà epocale ed
ambientale.
L'arte di Tommasi Ferroni si consolida in prospettive esegetiche
tese a "rendere visibile" la storia e, in particolare,
la storia dell'arte, secondo un'ansietà di produrre e non
di riprodurre. "L'anima non pensa mai senza un'immagine",
asseriva Aristotele, un'immagine che in Tommasi Ferroni poteva essere
enucleata da esternazioni artistiche di un passato più o
meno recente, ma che nelle sue opere diventava metafora di se stessa,
mai meta di un discorso unidirezionale, bensì incipit di
una problematica "altra" rispetto al contesto originario.
Il dato iconico, vissuto e rivissuto in funzione prettamente pittorica,
si appropria del pensiero dell'artista, divenendo elemento affabulatorio
di raccordo e di costanza estetica, proprio in virtù dello
straniamento tipologico e metodologico ad esso accordato. È
qui che insiste la finzione della verità, quel concetto del
"come se" di Vaihinger, secondo cui ogni paradigma scientifico
e filosofico perde di validità teorica per assumere i significati
dell'utilità concreta. Distante persino dall'universo del
"verosimile", Tommasi Ferroni estrapola, infatti, ogni
brano pittorico esaltandone l'individualità, ma il fine cui
tende tale operazione alligna nell'armonica e globale materializzazione
estetica di un puro ed autentico discorso espressivo che giunge
a redimere e a far rinascere la validità dell'arte in un
secolo, quello ventesimo, che sembra aver percorso, sovente, ogni
possibile elucubrazione per annientare definitivamente l'arte stessa.
Contro quest'assurda malversazione si è battuto incondizionatamente
l'artista toscano, proponendo caparbiamente i valori primigeni della
pittura, ossia equilibrio di forma, assonanza di colore, accelerazione
di luce ed ombra, imprescindibilità del disegno, in elettivi
accordi di severa indagine culturale e di rigorosa sapienza tecnica.
Ecco allora emergere quei personaggi in cerca d'autore, quelle figure
silenti ma dallo sguardo indagatore che vivono di un dinamismo individuale
o di gruppo, critico verso l'osservatore, poiché questi appare
un fantasma muto di una recitazione di verità-non verità.
Tommasi Ferroni accoglie tali personaggi come autore propositivo
di modernità morale, delineando una via d'espressione presente
e futura, consonante con l'ampio gradiente d'attualità vibrante
delle somme estrinsecazioni di parametriche età trascorse.
Pittore non della tradizione, ma della coscienza della tradizione,
egli indaga negli archetipi per rivitalizzare un solco che sia certezza
di continuità creativa e consapevolezza d'inesausta sicurezza
dei valori umani. "Si può comprendere la vita soltanto
guardando indietro, ma bisogna viverla guardando avanti", ammoniva
Kierkegaard, e sembra davvero che Tommasi Ferroni, affascinato particolarmente
dal manierismo fiorentino del Cinquecento, ne abbia perscrutato
la vivida componente irrazionale e nel contempo razionale, per espandere
un dialogo figurale assonante al dualismo di livelli, alla dottrina
delle idee e al metodo dialettico, propri della filosofia platonica
e, in limine, di quella neoplatonica.
Arte eminentemente intellettuale, permeata di diffuse valenze "metareali",
la pittura dell'artista italiano varca ogni dimensione di fisica
percettibilità, per incedere lungo il cammino della fantasia,
del mistero, del sogno, in un'evocazione del mito che è proposizione
di un immaginario apparentemente veridico, ma che assume, in veste
ossimorica, il sembiante più recondito di un'immersione "laica"
nel dominio dell'ideale. Con una figurazione estremamente preziosa,
a dettagliata definizione di segno, disegno e forma, Tommasi Ferroni
giunge ad astrarre dall'eloquenza del dato rappresentato quel nucleo
di metafisica irrealtà che adduce a soglie di assoluta visionarietà
pittorica e ad orizzonti di fantasmatica presenza d'inquietante
e muta solitudine. Da tale atmosfera, in sospensione d'attesa di
eventi, emergono lacerti memoriali ed onirici che avvalorano i significati
dell'allegoria espressiva, dilatata ad eletto "tramite"
di cosciente appropriazione del polimorfismo del vero. L'aspetto
duale di un'ipotetica ed ermetica verità declina connubi
di tenebra e luce, di severità e ironia, di meditazione e
vanità, di eros e thanatos. Figure di ieri e di oggi, paesaggi
del ricordo, nature morte di marmorea affabulazione, in aure profonde
di epico lirismo, dissacrano l'inossidabile positivismo della ragione
per esperire l'idealismo gnoseologico della poligenesi compositiva.
Artificio speculare di presunte verità, l'arte di Tommasi
Ferroni meraviglia per l'intrinseca tensione ad inventare, nel segno
di una materia pittorica arcana e di una luce-ombra incombente,
una realtà scenica tanto eterodossa da indurre la calamitante
magia dell'ambiguità, del gioco, della parodia, della reiterata
eco dell'assurdo. I dipinti, solidi di stesure cromatiche ricche
di velature dischiuse ad un mirabile ventaglio tonale, appaiono
concordi con un'autobiografia ludica o drammatica su cui insiste
una poetica di simboli che è allusione al massimo eloquio
della trasposizione oggettuale dell'idea. Il nitore delle forme,
delle cromie, del segno, in accensioni o in oscuramenti timbrici,
è acuto monito di serietà artistica e si eleva quale
drastica denuncia di un'azione pittorica contemporanea aggressiva,
transeunte ed effimera, troppo spesso incline alla tragica velocità
di un'operazione creativa supinamente asservita ad esaltazioni tecnologiche
di virtuale innovazione.
L'eccelsa arte di Tommasi Ferroni, in virtù delle sue indubitabili
valenze espressive e del suo apparente anacronismo, poiché
non allineata ad alcuna dichiarazione estetica a noi più
vicina, si attesta quale sorgiva fonte di modernità cui rivolgere
un'attenta e propositiva analisi. Essa, nel riprendere e nell'avvalorare
i significati e l'eloquenza della pittura figurativa interpretata
in sigle di continuità storica approdante al presente, sigilla
una proiezione artistica che sconfigge la "barbarie" dell'arte
e la sua presunta fine.
In un momento di transizione e di confusione espressiva come quello
attuale, è necessario insistere sulla centralità dell'empito
creativo dell'uomo, sulla sua dimensione poetica, sulla componente
trascendente della sua essenza. E in un dipinto bisogna varcare
la superficie esteriore, quella dell'emozione, per percepire la
consistenza interiore dell'anima che vi alligna, poiché lì
è celata almeno una scheggia dello spirito pulsante dell'artista.
Come summa di tali convinzioni e come altissima lezione pittorica
va vissuta l'arte di Riccardo Tommasi Ferroni, giacché egli
è poeta dell'immagine e cantore di "musiva" persistenza
iconica. Ma è anche aedo del pensiero, della riflessione
intimista o sbrigliata di un segno che tramuta in colore, di una
forma che incede alla luce.
Entriamo ora nella pittura e nel museo "ridipinti" di
Tommasi Ferroni ed immergiamoci in quell'assurdo esistenzialista
che promana dallo scostamento paradigmatico indotto dalla speculazione
su ragione ed esistenza. L'esistente, infatti, per sua natura, non
è ascrivibile ad alcuna categoria e persino la coscienza,
come dimensione non razionalmente spiegabile, soggiace all'universo
dell'assurdo. Ma nell'artista toscano tale proiezione appare ancor
più avvalorata e, se possibile, superata, proprio nella negazione
dell'esistente e nella successiva affermazione di un infinito ironico
che intride ogni elemento della commistione scenica.
Così, in un'opera come Interno del 1971, egli riguarda l'intera
parabola espressiva degli ultimi secoli con una tensione emozionale,
vincente l'anelasticità del tempo e dello spazio, che dimostra
come l'arte, in quanto concretizzazione vivifica dello spirito pensante,
sia vittoriosa su ogni costrizione classificatoria e su rigide paratie
oscuranti l'interscambio fra "antico" e "moderno".
Citazioni di Caravaggio, di Canova, di Burri non vivono in quanto
riesumazioni di essenze, ma come emergenze artistiche capaci di
divenire, oggi, soggetti di un "teatro" concordante con
l'attuale ambiguità del vivere e con l'inesausta dissacrazione
del reale e del vero. Ecco ancora apparire quella finzione della
verità che si configura più credibile della certezza
empirica, poiché consona con quella componente ostica, ma
allo stesso tempo illuminante, che risiede nell'astrazione sublimata
e subliminale del sogno. Tommasi Ferroni è artista che, pur
elevando ai ranghi primari monologhi espressivi di individualità
pittoriche, quasi annunciazioni e rivelazioni di figure comprimarie
e apparentemente sorde all'interazione dialettica, giunge invero
ad un'euritmia compositiva in cui i soggetti rappresentati, fra
cui lo stesso artista, presente in molte sue tele, non possono sottrarsi
a narcisistiche affermazioni, ma neppure al reciproco colloquio
scenico, tradotto in armonie di cromie e luce. I personaggi, infatti,
muti e in cerca d'autore, declinano ad un costretto dialogo che
non si risolve in parole pronunciate od ascoltate, ma si alimenta
proprio in virtù di una dichiarazione estetica che rivitalizza,
in proteiforme sensibilità, l'invitta presunzione dell'apparire
e, forse, dell'essere.
Quell'essere, che supera invece l'apparire, è cifra portante
della splendida opera Cena in Emmaus del 1982, in cui la lezione
di Caravaggio si stempera in vibrazioni chiaroscurali, in lievitazioni
di gesti e positure, in silenzi d'attesa, che inducono sospensione
dello spirito, trepidazione di enigmi rivelati, dinamismo d'improvvisa
conoscenza, vissuti nel fermento decadentista di una meditazione
concreta sul limine della soglia trascendente.
L'ombra, materializzazione della paura e dell'angoscia dell'ignoto,
si coagula in oscurità d'orizzonte o trasmuta in luminescenze
di vertigine esistenziale nel dipinto Gli indemoniati di Gerasa
del 1965, opera che, nel suono di un segno caustico e di toni a
livide dilatazioni, compendia l'ossessivo dualismo terreno del materiale
e dell'immateriale nell'inquietante divergenza fra terree sagome
umane e spirituale apparizione del Cristo.
Un'atmosfera sempre irreale, espansa nell'ampiezza prospettica di
profondità dell'oltre, di paesaggi del mito, di una natura
incombente su effimera quiete, permea dipinti come Anfiteatro di
Sutri del 1980, in cui, liberato l'immaginario dell'autore, la pittura
si libra quale musa di divina elezione espressiva. Gli incendi di
luce, roventi o carezzevoli, irradianti fulcri cromatici carpiti
a misteriose oscurità, illuminano l'immota tensione di uno
"Sturm und Drang" che va oltre dolcezze e asperità
romantiche, per incedere lungo primigeni sussulti di fantasia, nel
respiro di una vita speculare all'ombra dell'immaginario.
È davvero quest'ombra, dispiegata e aggressiva, che informa,
come rapace in obliquità incombenti, opere quali Abramo e
Isacco del 1983 e Leda del 1984, in cui l'artista, pur in tematiche
differenti, dà vita ad una perscrutazione negli anfratti
della psiche, che si tinge, quasi risonanza di Böcklin, dei
cromatismi interiorizzati di un alter ego, echeggiante, in tenebre,
la corporeità ansiosa, voluttuosa o dinamica di un'azione
o di una sospensione di vita immolata al determinismo degli eventi.
E ancora l'ombra, ormai regno di una poetica della coscienza, domina,
seppur in apparente solitudine, ulteriori dipinti, fra cui Vanitas
del 1983, opera che Tommasi Ferroni sembra avvertire come espansione
di un dialogo intimo, a dimensione più privata, quasi egli
si soffermasse, negli attimi di sosta di una narrazione storica,
ad assaporare l'eloquio di un monologo sulla propria entità.
Ma è nel Ritratto di Enrico di Giovanni del 1984 che l'autore
spiega quelle superbe formulazioni iconiche, quelle inattese tensioni
cromatiche, quel sottile tratto di orgogliosa ironia, sempre in
grado di comunicare, insieme all'affermazione estetica, una soggiacente
pulsione di terrena sicurezza.
Le "nature morte" del 1984 effondono, invece, un'aura
d'abbandono, di estremo richiamo all'omphalos dell'idea martoriata
dalla certezza di caducità terrena, dichiarata in energie
tonali che amplificano, con rigoglio di simboli e di cromie, l'estensione
oscurata di piani e sfondi, intrisi del silenzio di lacerti sparsi
del ricordo. Anche quando tali "nature morte" urlano la
fine di esistenze reattive all'ineluttabile dissolvenza, come le
plastiche composizioni imperniate su agonie di pesci, esse vibrano
della metafora accasciata della vita, poiché affermano, con
energia coloristica, l'indelebile ossimoro della cruda fragilità
del vivere.
E se Natura morta del 1991, a luminosità sobria ed ambrata,
è allegorico preludio ad un'ampia veduta romana, l'artista
sembra percepire quel sentore di decadenza, di spenti fulgori, di
drammatica immanenza che avvolge, come madido sudario, le sublimi
architetture della Città Eterna. Egli appare confidare e
ammonire che nella presunta immortalità della sfavillante
esuberanza barocca di Roma germini il seme del suo tramonto, di
una fine annunciata, eppur rimossa dagli "ozi" e dai "banchetti"
di mitiche età della memoria. Allorché i colori diventano
magistralmente più vividi, essi accelerano, proprio per assurda
antinomia, quell'aspettativa figurale che, invece di cantare alla
vita, s'incurva in parabola discendente d'esistenza.
Diversamente, in Amorino con Vanitas del 1992 si rapprende, per
salvifica propensione, quel discorso di pura pittura, ascendente
al Rosso Fiorentino e al Pontormo, che, autentico incipit dell'arte
di Tommasi Ferroni, sembra apparire al pittore l'unica via non transeunte,
per affermare il valore immortale dell'espressione artistica e,
con essa, la testimonianza indelebile dell'orma umana.
Autore consapevole dell'ironia della vita, egli dissacra, a dispetto
di arroganze epocali ed ambientali, ogni consuetudine iconografica,
per cavalcare l'anima del ludus, come in Ratto d'Europa del 1975.
Ma il suo vibratile pensiero oltrepassa l'emozione del "gioco"
in Venere e Amore del 1987, ove non è la parodia esistenziale
a governare l'opera, bensì il mito, vissuto quale sorgiva
fonte della nostra cultura, della nostra civiltà, della nostra
storia, della nostra arte.
Grande affabulatore di forma-colore, di forma-luce, Tommasi Ferroni
è poeta epico dello spazio, del tempo e del sogno, ma è
anche eccelso disegnatore ed incisore, disegnatore di robusta potenza
e di sicura sapienza tecnica, incisore di encomiabile segno e di
colta raffinatezza strutturale. Egli si attesta, pertanto, quale
artista filosofo ed esploratore della quintessenza e maestro di
una pittura totale che scaturisce dalla storia e dall'uomo. L'innovazione
nell'arte vive ed evolve in funzione diretta dello spessore culturale
espresso dalle origini e dalle radici di ogni civiltà e,
per questo, la creatività artistica fermenta dove e quando
la componente storica costituisce abbrivo di sviluppo stilistico.
"Sovente le vie appaiono nuovissime, forse senza esserlo in
sostanza: nuova è soltanto la loro combinazione", asseriva
Paul Klee, e Riccardo Tommasi Ferroni sembra veramente confermarsi
antesignano di una cultura atta, oggi, a rinnovare l'arte nell'ottica
dello spazio di una coscienza atemporale.
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