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I percorsi del mito

a cura di Sergio Troisi

Forse soltanto oggi, quando il secolo che si chiude consegna la vicenda artistica del novecento a una valutazione capace di riordinare da una maggiore distanza i tanti fili di un ordito complesso e per alcuni aspetti contraddittorio, è possibile accostarsi all'opera di Corrado Cagli con una differente obiettività, e con uno sguardo critico adeguato ad una esperienza ricca e multiforme come poche altre, e non soltanto in Italia. Nonostante i quasi venticinque anni trascorsi dalla morte dell'artista, quella sorta di resistenza, quel distacco al fondo vicino alla diffidenza che a lungo hanno pesato quasi come una rimozione nei confronti di Cagli non si sono ancora definitivamente dissolti. A dispetto delle grandi mostre, dei riconoscimenti e delle ricostruzioni storiche che già da tempo, almeno dalla grande monografia dedicata a Cagli da Marchiori e Crispolti nel 1964, hanno individuato il ruolo fondamentale che la sua opera ha avuto in alcuni snodi fondamentali dell'arte italiana dei novecento, ciò che in gran parte continua a mancare è proprio la compiuta metabolizzazione della funzione essenziale che Cagli ha svolto per oltre un trentennio, dall'esordio precocissimo all'inizio degli anni Trenta sino agli anni Sessanta, nel determinare direzioni e percorsi; e in un arco di tempo dunque assai ampio, soprattutto in relazione alla diversità delle sollecitazioni storiche e delle cifre stilistiche, formali e di metodo: e che comprende dunque non soltanto l'azione intellettuale nei confronti della generazione più giovane tra le due guerre, ma anche le poetiche spazialiste e nucleari, dell'astrazione segnica e informale. Al di là delle difficoltà di una cultura come quella italiana, imbevuta in modo più o meno sotteso di idealismo, legata al postulato della coerenza formate come corollario dell'unità tra l'artista e la sua opera e al valore prioritario della dimensione sensibile dell'opera stessa, e quindi obiettivamente a disagio di fronte ad un linguaggio così straordinariamente multiforme ed elusivo proprio in merito a questi aspetti, uno dei punti cruciali - se non l'elemento cruciale per eccellenza - è infatti proprio il rapporto tra l'opera di Cagli tutta, nel suo svolgimento complessivo, e la storia: il suo muoversi cioè all'interno delle situazioni singole, e delle singole urgenze che il tempo storico di volta in volta poneva, e contemporaneamente con un atteggiamento di vaglio critico che di quelle urgenze filtrava quanto vi era di contingente, così da sottrarre l'esperienza e la percezione della contemporaneità a una prospettiva indefinitamente aperta e provvisoria, e da comprenderla in un solo, tesissimo perimetro.
In questo senso, il percorso di Cagli è stato assolutamente coerente e unitario: e non nonostante la ricchezza inventiva, la continua sperimentazione di tecniche e l'incessante esplorazione di soluzioni espressive, ma, al contrario, proprio per la logica interna che guidava e presiedeva a questa ricerca, evitando ogni volta quella cristallizzazione che avrebbe altrimenti impoverito in una cifra stilistica di routine l'avventura - indissolubilmente mentale e operativa - del linguaggio artistico; e semmai, procedendo di ciclo in ciclo, legando come in un'unica variazione musicale gli elementi della figurazione, così che apparissero, ad ogni nuovo ritorno, ogni volta riconoscibili eppure trasformati. Spirito nomade come pochi altri (ed è quantomeno singolare che quando il nomadismo è divenuto, in anni più recenti, una definizione di propaganda e un passe-partout ideologico della crisi della modernità, a Cagli non sia stata riconosciuta quella lucidità di giudizio sui limiti dell'esperienza moderna che l'apertura di direzioni della sua ricerca presupponeva), Cagli lo è tuttavia in modo diverso dagli altri artisti che di volta in volta sono stati chiamati in causa per individuare, nella storia del novecento, una configurazione diversa da quella ufficiale di una linea progressiva che dalle premesse iniziali evolvesse, quasi per ragioni semplici di cause ed effetto, sino alla rarefazione e al silenzio delle prove estreme delle neoavanguardie: da Klee per esempio, riferimento inevitabile per alcune serie di opere degli anni Cinquanta, per il quale tuttavia ogni singolo tassello contiene, in potenza, l'intera totalità del suo mobilissimo universo poetico; o da Picasso, cui lo apparenta una curiosità polimorfa che sembra ogni volta azzerare e riscrivere da un nuovo punto di visuale, con uguale apparente facilità, la propria storia passata ma non la voracità metabolizzatrice di stilemi e reperto i; o da Ernst, con cui condivide i on soltanto l'uso del frottage ma soprattutto l'intenzione di un inesauribile sondaggio, attraverso l'immagine, delle regioni sconosciute e metamorfiche della psiche, e che comunque sin dagli anni Venti definisce in termini compiuti la gamma di oscillazioni del proprio orizzonte combinatorio.
La produzione di Cagli sembra invece obbedire a una differente struttura circolare dove ciò che ritorna non sono i singoli temi, le scelte stilistiche e figurative o l'ordine della composizione, ma le questioni che l'opera affronta, e che seppure presenta nella sua piena evidenza d'immagine non può tuttavia esaurire. E in questa accezione che occorre allora parlare di mito: non tanto dunque o non soltanto - in chiave di repertorio, che comunque gioca un ruolo importante in particolare durante gli anni Trenta e nel ciclo delle Metamorfosi degli anni Cinquanta (per citare soltanto i momenti più espliciti), ma, più in profondità, nei termini della funzione immaginativa che l'opera svolge, e che provvede a manifestare risolvendosi interamente nella sua costituzione formale. Che poi sia possibile ritrovare, anche a distanza di anni o anche di decenni, richiami e assonanze, sviluppi e intrecci di alcuni principi guida, non muta la sostanza del discorso. La pittura e la scultura di Cagli non seguono cioè un principio di semplice evoluzione, e non sono ordinabili secondo un criterio di tappe stilistiche concatenate l'una all'altra in una serie progressiva: vanno semmai indagate nella loro lucida volontà di sondare, con strumenti di volta in volta differenti ma mai contraddittori o antagonisti, i fondamenti archetipi della modernità. Non si trattava di sottoporre la contemporaneità a una critica radicale, irridente e nichilista, come fece invece De Chirico soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, ma di assumerla, civiltà tra le civiltà, nella sua identità irrisolta e problematica, investigandone le sedimentazioni e i collassi, le antiche pulsioni richiamate a rinnovato furore, i timori e le ansie, la felicità panica e l'atto di libertà creativa. Sorvegliando sempre che l'opera così concepita e come immediatamente trovata non coincidesse con un abbandono ingannevole al sentimento dell'autenticità - altro pregiudizio idealistico - e sottoponendola invece a un controllo serrato e vigile, così da chiarire la sua relatività, il suo essere cioè circoscritta a un vitale nucleo interrogativo: ed è questo a disegnare quella tangenza ellittica con le poetiche del tempo, spesso così vicine quanto a soluzioni formali eppure così irrevocabilmente distanti per quel che concerne la genesi intellettuale. t noto come tutto ciò sia stato causa di fraintendimento: il sospetto di eclettismo, insinuante negli anni in cui la dicotomia tra astrazione e figurazione corrispondeva in Italia a precise scelte di campo, e comunque irriducibile al dogma della purezza linguistica che ha dominato il panorama dell'arte internazionale per buona parte del secondo dopoguerra; l'equivoco di una sapienza tecnica che avrebbe costretto la dimensione espressiva ad una virtuosistica esercitazione manierista; e infine la riduzione di quell'attraversamento iconografico, che in Cagli ha sempre svolto una funzione essenziale di attualizzazione delle grandi fonti mnemoniche della storia dell'arte, a una mera pratica di citazioni, hanno più di una volta fatto velo ad una esatta comprensione di un'attività così intensa e come priva di pause. E si tratta comunque di fraintendimenti che partono da lontano: dagli anni Trenta appunto, a conferma di come la posizione di Cagli sia stata, sin dall'inizio, sottilmente dialettica nei confronti dei raggruppamenti di scuola e delle tendenze a programma.
"In un certo aspetto, la pittura di Corrado Cagli è uno schedario di galleria, un repertorio; neanche si potrebbe dire: un repertorio d'esperienze critiche, perché tanti riferimenti classici di cui essa è popolata vi rimangono, all'incirca, allo stato di "citazioni". Le riserve di Emilio Cecchi alle grandi tavole delle Cronache del tempo, esposte alla Il Quadriennale romana del 1935, riassumono bene I'impasse in cui si trova una parte della critica del tempo di fronte alla collocazione assunta dall'artista nel dibattito culturale di quegli anni. Nonostante vengano enfatizzati, è infatti evidente che i richiami ai grandi quattrocentisti, Masaccio e Piero della Francesca in testa, non valgono per Cagli come misura formale, né come una coniugazione del registro classicista che una parte di Novecento aveva divulgato nell'ambiguità di fondo del ritorno alla tradizione italiana. Al contrario, declinando la composizione per continui slittamenti di piani prospettici di contro al saldo telaio geometrico delle proporzioni spaziali, e sottraendo alle figure quella solidità d'impianto chiaroscurale che ne scandiva la solennità narrativa, Cagli ne verificava la consistenza all'interno di un diverso contesto figurativo: aprendo semmai l'idea stessa di tradizione alle suggestioni della pittura antica, dai cicli d'affreschi pompeiani alla stesura più corsiva della maniera compendiaria. Non era certo questione di un riepilogo più ampio e completo delle fonti culturali: piuttosto che per aggiunte e contaminazioni - cosa che avrebbe giustificato l'accusa di eclettismo - Cagli opera infatti per elisioni e come bruciando, nel contatto delle diverse matrici formali, l'insidia di una riproposizione erudita e meramente archeologica; così da ordire l'impianto del dipinto in una tarsia mobile e inquieta di toni virati verso luminescenze quasi visionario, in un ritmo arcano di gesti sospesi e rarefatti.
Le Cronache del tempo costituiscono del resto il primo fondamentale approdo di un percorso ancora breve ma già fitto, di cui il dibattito avviato sulla rivista "Quadrante" e l'esperienza controversa delle pitture murali della Triennale di Milano del 1933 rappresentano i momenti più significativi. In quel primo scorcio degli anni Trenta il panorama artistico italiano è infatti già sfaccettato-. fallito il tentativo egemonico di Novecento di accreditarsi come linguaggio moderno e nazionale - anche a causa di una politica di allargamento dei gruppo iniziale che doveva necessariamente sfociare in una compagine eccessivamente eterogenea - rimanevano però in piedi molte delle opzioni che avevano sostanziato le aggregazioni di correnti e movimenti dei decennio precedente, dall'eredità sia pure diluita dell'esperienza metafisica al rapporto con l'architettura, dal recupero della tradizione alle formulazioni di Bontempelli di un "realismo magico" esemplificato più su Piero e Masaccio che sui contemporanei, sino alle prime avvisaglie di un disagio morale nel tonalismo latamente espressionista di Scipione, di Mafai e della Raphael. E' quanto mai sintomatico che il tragitto di Cagli tocchi, ellitticamente, tutti questi punti senza mai identificarsi con nessuna di queste posizioni, e anzi forzandole in dìrezione di una differente sintesi dialettica.
il principale nodo di raccordo è costituito naturalmente dal problema della pittura murale, che Cagli aveva posto al centro del dibattito con il famoso appello Muri ai pittori, pubblicato sul n. 1 di "Quadrante" nel maggio 1933, all'epoca della Triennale milanese, e cui aveva fatto eco Sironi con il Manifesto della pittura murale nel dicembre dello stesso anno, alcuni mesi dopo che quella esperienza aveva evidenziato limiti e rischi della questione e anche le notevoli divergenze di impostazione. Il modo in cui i diversi artisti chiamati a decorare le pareti dell'esposizione milanese avevano interpretato la dichiarata vocazione della pittura moderna a dar voce ad una rinnovata funzione sociale era infatti assai eterogeneo: e i pericoli maggiori provenivano sia da una accezione celebrativa che da una riproposizione del modello umanistico e rinascimentale, due forme parallele di semplificazione laddove in gioco erano il sentimento di appartenenza al presente ("tempo in noi convesso"', è la definizione di Cagli) e la aspirazione - non di rado generica e contraddittoria - ad una nuova forma di espressione. Rispetto ad almeno uno di quei pericoli, Cagli è del resto esplicito quando scrive, rubricandolo tra gli iniqui motivi che inducono alla pittura parietale, "di un mediatore spirito pseudoumanistico che porta a vagheggiare forme rinascimentali (esistono ancora preraffaelliti) traverso il caleidoscopio falso e scolastico dei bozzetti, dei cartoni, degli spolveri"'-, dove ogni ipotesi di ritorno che servisse in realtà da paravento all'accademismo tardo ottocentesco è liquidata con tono perentorio. E lo stesso Sironi, affermando che la natura sociale della pittura murale "dovrà combattere quei pseudo 'ritorni', che sono estetismo dozzinale e un palese oltraggio al vero sentimento di tradizione"', ribadisce una medesima necessità di chiarezza. Non a caso sono ancora Cagli e Sironi, i due esponenti più consapevoli di quella contestata edizione della Triennale, a porre senza esitazioni, anche in seguito, il problema della relazione della pittura murale con l'architettura moderna razionalista. Sino a qui le analogie, perché poi le soluzioni stilistiche non potrebbero essere più divergenti: scabro e arcaicizzante il linguaggio di Sironi, dove gli impasti bituminosi scandiscono l'epica al fondo tragica dell'uomo moderno, epifanico e quasi emergente da una favola antica quello di Cagli, come se ogni tensione drammatica fosse stata dilavata nei sapienti accostamenti dei colori calcinati, e decantata in una nuova aurora. E, questo, il tema del primordio, su cui insiste la poetica di Cagli sino alla metà del decennio, e che segna ugualmente la convergenza con le posizioni di Bontempelli, amplificando lo stupore magico che secondo lo scrittore doveva sostanziare "la ricostruzione del tempo e dello spazio il compito dell'età presente - nella costruzione dei nuovi miti. Problema nevralgico di questa prima fase dell'attività di Cagli, già parzialmente esplorato quando alla fine degli anni Venti, quindi giovanissimo, si era rivolto al nitore disegnativo della pittura vascolare greca per la decorazione ceramica; e neppure in questo momento iniziale, a ben guardare, legittimando in modo esclusivo un repertorio stilistico del passato, se è vero che la testa di Icaro, una ceramica dipinta del 1929, presenta innegabilmente caratteri formali propri della scultura negra, sia pure smussati nella capigliatura da eleganze déco: quasi un'anticipazione di quell'interesse verso le culture figurative primitive che conoscerà un più ampio sviluppo negli anni Cinquanta. Matura in questo ambito - e non dunque come ripresa di un precedente storico della tradizione nazionale l'attenzione verso la pittura pompeiana, nelle sue diverse accezioni, dalle campiture larghe e dai misteriosi gesti iniziatici degli affreschi della Villa dei Misteri alla stesura più abbreviata dello stile compendiario; così da coniugare il contenuto mitico e la suggestione dell'antica pittura parietale con quel senso di attesa stupefatta che è la manifestazione del sentimento del primordio: "In un'alba di primordio" - scrive nel 1933 - "tutto è nuovamente da rifare e la fantasia rivive tutti gli stupori e trema di tutti i misteri. La forma appare nuova e l'astratto è una nuova forma; le dimensioni sono vive del loro miracolo, e il cavallo bianco è strano, strano il cielo, strano il dipingere il volto di un amico". Nel nuovo cominciamento del tempo - l'elemento di maggiore e irrisolta ambiguità rispetto alla ideologia restauratrice del fascismo e alla sua contraddittoria volontà di farsi ugualmente portatrice del moderno - la dimensione sociale della pittura coincide allora con l'evocazione interiore; e in questa direzione di ricerca verso un'espressione ciclica, corale e polifonica, gran parte dell'opera di Cagli, almeno sino al 1936, tende all'affresco e alla pittura murale, anche prescindendo dalle maggiori realizzazioni in questo campo: dalle decorazioni di Casa Maravelli-Reggiani a Umbertide, del 1930, alle pitture della Mostra dell'Edilizia del 1932 (dove viene proposto, consapevolmente, un tema caro all'arte antica ellenistico-romana quale la scena di battaglia), dai Preludi della guerra della Triennale del 1933 sino a La corsa dei barberi a Castel de' Cesari del 1935 e alla grandiosa tavola della Battaglia di San Martino del 1936. t in questo contesto di affabulazione mitografica, trasognata e ansiosa, che si inseriscono quei prelievi iconografici che sono stati scambiati per una pratica manierista, e che invece rappresentano non soltanto la grande memoria della storia dell'arte - e di un procedimento proprio della sua storia millenaria - ma la conferma sperimentale del valore archetipo delle immagini così come si sono conservate attraverso le civiltà pur mutando appartenenza e significato: il gesto della Sirena del 1933 ricalca così quello famoso di Ifigenia nella scena del sacrificio di un affresco di Pompei, il chiasmo di Edipo a Tebe, dello stesso anno, quello di una raffigurazione di Teseo di uguale provenienza, seppure reso più incerto e come da sonnambulo il cavaliere travolto dalle acque nel Passaggio del mar Rosso


(1934) riprende un particolare della colonna Traiana, mentre un altro cavaliere, quello visto di spalle ne La caccia (1935), è il frutto di una contaminazione tra un'altra figura della stessa colonna e un personaggio dell'episodio dell'incontro tra Attila e Papa Leone delle Stanze di Raffaello"; per arrivare all'esempio più eclatante e scoperto dei Neofiti (1 934), dove il catecumeno che si spoglia della veste proviene per via diretta dal Battesimo di Cristo di Piero della Francesca.
Questa indagine della dimensione archetipa del patrimonio di immagini non si esaurisce comunque con le tipologie figurali, ma è ugualmente estesa anche alle tecniche: al disegno innanzitutto, cui, parallelamente alla pittura, in questi stessi anni è affidato il compito di una immersione quasi rabdomantica nella geografia mitologica che abita la psiche, e la cui stupefacente ed elegantissima sicurezza di tratto non dissimula l'origine di quelle immagini dalle profondità notturne"; e poi la tempera ad encausto, che rappresenta il primo manifestarsi di quell'attenzione all'universo dei materiali e dei procedimenti che costituisce uno degli aspetti più importanti di tutta l'opera di Cagli; e che spiega chiaramente la distanza che lo separa da ogni declinazione del tonalismo in chiave intimista - e quindi soprattutto da Mafai - ma anche da quella più ancorata alla rappresentazione lirica della realtà quotidiana: e quindi, nonostante la prossimità delle intenzioni sintetiche e costruttive del colore, da Cavalli, Capogrossi e Melli. Se Cagli è lontano da quella fissità malinconica in cui non di rado si stempera l'inquietudine metafisica, e che rimane uno dei tratti distintivi di tanta pittura italiana degli anni Venti e Trenta, è perché il valore riflessivo della sua opera imponeva il confronto su un profilo ben diverso con la lezione di De Chirico: non tanto sul piano compositivo e formale (ma si veda comunque come un disegno del 1933, Penelope, sia debitore nei riguardi dei suoi dipinti del decennio precedente: con quella pedana a metà tra teatro e stabilimento balneare su cui si svolge la scena, l'elmo abbandonato per terra e i due nudi maschili a colloquio sulla destra a variare l'analogo motivo de La partenza degli Argonauti), quanto piuttosto sul metodo e sulle conclusioni del giudizio storico e filosofico. Se insomma per De Chirico l'accesso alle fonti civilizzatrici del mito antico è sbarrato, e all'uomo contemporaneo non resta che contemplare il palcoscenico dove gli emblemi di quella perduta totalità di senso giacciono ormai inutilizzabili, per Cagli invece la scommessa (o l'azzardo) della cultura moderna si gioca proprio nella sua capacità di attraversare le ere del tempo storico, riemergendo infine rigenerata dal contatto vivificante col mito: una posizione che sembra già quasi prossima al pensiero di Jung, a cui Cagli farà poi esplicito riferimento sin dai primi anni del dopoguerra, e che conferma una volta di più come nella sua opera ogni periodo illumini in circolo tutti gli altri. E' del resto lo stesso artista a fornire il miglior commento a questi problemi, in un passo famoso a proposito delle proprie opere alla Quadriennale del 1935: "AI di là delle comuni ricerche di un linguaggio tonale, di una dignità delle tecniche e delle materie, di una osservazione delle leggi metafisiche che pervadono la pittura, vi è una foce alla quale tutte queste fatiche non sono che fiumi: la creazione di nuovi miti". Il ritmo iterativo dei gesti - per esempio ne La nave di Ulisse -, la spazialità straniata, le lunghe ombre irreali ne l'Edipo a Tebe e nei Neofiti, tutti dipinti del 1933 - traducono così l'affiorare intatto e ancora tremante del mito dalle stratificazioni delle età e della coscienza; una dimensione aurorale, che è compito del raccordo e dell'unità tra le arti realizzare compiutamente nella esistenza sociale della vita moderna. Da qui il dialogo polemico con l'architettura razionalista, a cui Cagli contesta l'idolatria della parete bianca", ma anche un'opera emblematica come i mosaici della fontana di Terni con i segni dello Zodiaco, in cui il repertorio classico si fonde con i temi e la tipologia circolare delle fontane medievali esaltando nella figurazione continua il corso ciclico del tempo. La Battaglia di San Martino, dipinta su pannelli in legno per scongiurare la distruzione che era invece toccata ai dipinti murali della Triennale del 1933, rappresenta per diversi aspetti l'opera spartiacque dell'attività di Cagli degli anni Trenta. Momento conclusivo di quella serie dedicata alle battaglie che Cagli aveva già esplorato negli anni precedenti, epos collettivo risolto in una figurazione favolistica in cui confluiscono le memorie di Piero e di Paolo Uccello ma anche la ricchezza descrittiva del Gotico internazionale, il dipinto è organizzato come una gigantesca tarsia di colori brillanti e accesi: una rivisitazione della tecnica quattrocentesca ma anche, nelle direttrici diagonali delle lance che attraversano la scena riportando vicino e lontano sui medesimi valori di superficie, della nuova sintesi spazio-temporale del cubismo; quasi a saldare la metafisica prospettica quattrocentesca delle Battaglie di San Romano e della Battaglia di Ponte Milvio con le leggi metafisiche della pittura contemporanea.
E tuttavia questa lettura dichiaratamente antiretorica dell'episodio risorgimentale segna già un sentimento di distanza dalla poetica del primordio: anche se quei temi continueranno ad essere dibattuti sulla rivista "Valori Primordiali" edita tra il 1938 e il 1939 e a cui partecipano tra gli altri Bontempelli, Terragni, Celiberti e Antonio Banfi, spesso raccogliendo le indicazioni proposte dallo stesso Cagli nei primi anni del decennio", il clima culturale - e non soltanto quello - comincia a mutare. L:attività della Galleria della Cometa, di cui Cagli è il principale animatore, aggrega giovani artisti come Guttuso e Ziveri intorno a un nuovo senso di disagio morale nei confronti del fascismo che rappresenta il preludio alla svolta generazionale di Corrente; il distacco dalla mitografia primordiale è implicito nella mostra allestita nel 1936 dove Cagli espone esclusivamente nature morte, e la stessa stesura pittorica, prima architettonicamente costruita dai contrasti tonali, approfondisce d'ora in avanti quegli umori più mossi, densi e drammatici già presenti ne La corsa dei barbari. La situazione politica aveva insomma svelato quanto di illusorio vi fosse nello stupefatto silenzio del primordio; e come il mito fosse ormai, piuttosto, il testimone inerme e tenace della civiltà di fronte all'irrazionale: così ad esempio, figura d'ombra minacciata, si presenta il Bacchino (1938); e un sentore di allarme anima Orfeo incanto le belve, l'affresco (distrutto) per la Biennale veneziana del 1938. E non a caso in questi anni che vedono la promulgazione delle leggi razziali Cagli intensifica nei disegni quella presenza dei temi ebraici - quasi una disperata difesa della memoria - che lo accompagnerà in tutta la sua produzione successiva, per culminare, all'inizio degli anni Settanta, nella vertiginosa combinazione dei triangoli della stella di Davide che nel monumento piramidale di Gottinga salgono intersecandosi come una architettura di Borromini o di Guarini. Dopo le critiche e le censure per le quattro Vedute di Roma esposte all'Esposizione Universale di Parigi del 1937, agitate da uno spirito cupo e visionario, e per la serie di ritratti di uomini illustri dello stesso anno, dove i personaggi sembrano come sprofondare nello spazio che li accoglie, a Cagli non rimarrà che intraprendere la strada dell'esilio verso la Francia.
Il periodo trascorso a Parigi e gli anni del soggiorno americano, della partecipazione alla guerra di liberazione in Europa come soldato dell'esercito alleato e del rientro negli Stati Uniti prima del definitivo ritorno in Italia, costituiscono una importante fase di gestazione dell'opera di Cagli del dopoguerra. La meditazione sulla lezione di Braque - il Braque degli anni Venti che riassembla la visione cubista dello spazio - in alcune nature morte dei 1938 e del 1939, ma anche la ripresa, nei disegni del 1940 Hocs e Hocs racconta, di una scomposizione più violenta memore sia di Picasso che di Boccioni, sembra infatti annunciare quello che sarà il tratto fondamentale dei decenni successivi-. la continua esplorazione di differenti registri formali. In questi stessi anni l'esercizio del disegno non rinunzia così a ripercorrere, ancora una volta, le strade del mito classico: talvolta variando appena quella nitida filigrana dei tratto che nei disegni precedenti sembrava ritrovare come in trance l'antica fonte figurativa; altre volte addensando un diverso sentore di minaccia oscura, come nel bellissimo e quasi goyesco volo notturno di Prometeo (1940), o serrando le file dei guerrieri greci - Macedoni, Termopili, Maratoneti, tutti del 1944 - come una risolutiva chiamata alle armi contro la barbarie. Non a caso, del resto, questi disegni si alternano a quelli, intensissimi, realizzati durante la campagna militare a documentare l'orrore della guerra e dei campi di sterminio.
E' possibile che la situazione artistica negli Stati Uniti, nel momento in cui l'influenza diretta del surrealismo europeo era decisiva per la gestazione e la nascita dell'espressionismo astratto, abbia agito da lievito nella maturazione di alcune indicazioni sperimentali dell'opera di Cagli; e tuttavia le premesse fondamentali sono già contenute, pressoché per intero, sia nelle posizioni sostenute nei numerosi interventi critici e polemici che nel metodo intellettuale e nel valore attribuito all'immagine durante tutti gli anni Trenta. Il riferimento obbligato è naturalmente il famosissimo passaggio del Corsivo n.12 pubblicato su "Quadrante" nel 1933 in cui Cagli teorizza la consistenza di astrazione e figurazione come poli complementari dell'espressione moderna: "Ci sono pittori e scultori apparentemente illogici nel loro manifestarsi. La realtà è che in arte una sola logica è dannosa; perciò pittori e scultori, che siano grandi, hanno una seconda logica della quale non fanno mai a meno senza per questo fare a meno della prima (... ) L'eclettismo apparente del pittore moderno dipende dall'avere scoperto la natura "dei generi pittorici". Come l'arte poetica ha i suoi generi (lirica, epica, idillica) così la pittorica ha i suoi che non sono paesaggio, figura e natura morta, ma sono l'astratto e il formale. Superato il dissidio tra i due generi (si può fare epica e lirica senza mutare anima) si riscatta l'astrattismo dalla polemica per trasportarlo nell'arte". Eppure anche questo lucido argomentare, che Cagli ribadisce ancora in seguito, rischia di essere fuorviante se non si comprende come ciò che permette di trascorrere dall'uno all'altro genere non è la manifestazione di un momento del gusto - cosa che svaluterebbe l'espressione ad un mero dato contingente - ma la natura interiore dell'immagine, la sua valenza psichica. E' evidente allora che un unico filo rosso lega la produzione anteguerra a quella dei decenni seguenti: un filo rosso che alla fine degli anni Quaranta, solo apparentemente in modo improvviso, si allarga a ventaglio, mantenendo però sempre la funzione di scandaglio di quella realtà inconscia in cui le grandi architetture simboliche dispiegano la loro potenza metamorfica. Il continuo presentarsi di assonanze e variazioni ben al di là della distinzione dei due generi astratto e figurativo, fino a costituire una fittissima raggiera di diramazioni e ritorni, non fa che confermare questo procedere per analisi cicliche: così, già nella seconda metà degli anni Quaranta, la serie di opere con le figure umane drammaticamente tese in pose straniate riprende la stesura pastosa degli ultimi dipinti romani, e prepara ugualmente, nell'insistenza sui motivi circolari ed ellittici, le prove neo-metafisiche in cui vengono per la prima volta enunciate le geometrie non euclidee; e il tracciato continuo dei dipinti in bianco e nero dello stesso periodo amplifica la tensione ritmica dei disegni preparando i percorsi labirintici della fine degli anni Cinquanta e delle Siciliane.
Ciò che comunque interessa Cagli in tutte queste serie di opere del primo dopoguerra non è la ripresa dell'automatismo surrealista, anche se le larvali figure di Uomini o dei Sicari sembrano materializzarsi dalla sfera dell'incubo; né la gestualità propria dell'informale americano, nonostante i dipinti in bianco e nero presentino apparenti affinità con le successive prove di Frank Kline; e neppure l'eredità dechirichiana, poiché il riferimento alla metafisica si limita ai sembianti d'elmi antichi in cui si organizzano i piani ellittici e spiraliformi. L'intenzione è semmai di indagare come il continuo spazio-temporale delle geometrie non euclidee di Donchian e di Moebius abbia il proprio correlato nel dominio dell'immagine, laddove l'impasto incandescente di memorie e pulsioni provvede alla nascita dei miti. Analogamente, nei Disegni di quarta dimensione il problema non è quello della trasposizione sul piano figurativo dell'enunciato scientifico, ma piuttosto quello di verificare attraverso il nuovo modello concettuale il principio fondamentale della vita psichica, ossia la metamorfosi". Sono così posti i temi fondamentali su cui, da questo momento in avanti, Cagli esercita senza pause il suo ricchissimo spettro di invenzioni e variazioni linguistiche: il controllo dei materiali e delle tecniche, sia antichi che moderni, come necessario postulato di quella unità tra la dimensione espressiva individuale e l'aspetto dell'esistenza sociale che il mondo moderno ha scisso in ambiti separati; la nozione di archetipo come fulcro di questa reintegrazione della coscienza; e, appunto, il principio della metamorfosi come dato centrale del dinamismo della realtà interiore.
E' alla luce di questi tre punti indissolubili che va considerata la paradossale coerenza della multiforme attività di Cagli: come un'ipotesi aperta di riconciliazione insieme soggettiva e storica in cui il demone altrimenti incontrollabile delle istanze inconsce fosse condotto ad una nuova chiarezza conoscitiva, sfuggendo alle trappole di opposto segno formale ma in realtà parallele di una mera liberazione delle forze conflittuali da un lato, e da una concentrazione esasperata e in fondo illusoria sulla elementare purezza ideale dell'elemento linguistico dall'altro. Anche per questo la sua opera è irriducibile, nonostante le tangenze espressive e di strumenti, a gran parte delle poetiche del tempo: di fronte alle istanze espressioniste e romantiche di gran parte delle esperienze informali e alla volontà di controllo intellettuale esercitata attraverso il processo di riduzione fenomenologica degli elementi costitutivi dell'opera - come è avvenuto principalmente nella linea dell'astrazione geometrica Cagli pone dunque l'esigenza di una sintesi che non riguarda semplicemente i fattori stilistici, quanto le ragioni profonde della civiltà contemporanea. Una delle questioni era quindi quella di riscattare la conoscenza scientifica dalla sua separatezza e da una visione essenzialmente applicativa per ritrovarne quella vitale funzione immaginativa che presiede a ogni rappresentazione: così, ad esempio, nei Disegni di quarta dimensione e nella serie dei Motivi cellulari - le opere più esplicite in tal senso - il dato matematico e biologico fornisce lo strumento di partenza per interrogare la logica interna dell'immagine, il suo perenne germinare e trasformarsi nella durata interiore". Così che quando, a cavallo del decennio, questa ricerca approda - provvisoriamente - alla tematica della pittura segnica, con le serie degli Estri e dei Reticoli modulari, ciò che conta non è il prontuario linguistico e la messa a punto di una nuova grammatica di invarianti (come sarà invece per un artista come Capogrossi, che proprio a partire da queste opere di Cagli maturerà la sua svolta astratta), quanto l'individuazione di una risonanza archetipa che si condensa nel ritmo musicale ed evocativo della composizione. E' per questa strada allora che Cagli ritrova la centralità del mito: già l'alfabeto congetturale di Dal libro di Ulisse (1949) dispone gli elementi segnici - le croci, le losanghe, i reticoli di quarta dimensione - come tasselli colorati che galleggiano sulla superficie come sul mare del tempo ancestrale; quasi una tarsia - nuovamente - i cui incastri avvengano però non sul piano, nonostante la programmatica bidimensionalità della geometria astratta, quanto nelle profondità altrimenti insondabili della memoria primordiale. Non a caso dunque, a partire da questa data, negli scritti di Cagli i riferimenti alla psicoanalisi di Jung diventano più precisi e circostanziati: è sin troppo trasparente che la distinzione tra ciclo sintomatico e ciclo simbolico, cui fa riferimento introducendo la mostra con cui nel 1950 Capogrossi presenta la sua nuova produzione astratta (e nel 1962 impiegata anche per rileggere l'itinerario di Sironi)22 è meditata innanzitutto sul proprio percorso artistico. L:adozione dei termini di archetipo e di inconscio collettivo e le stesse citazioni da Jung apposte ad apertura di alcuni testi diventano così uno strumento fondamentale per comprendere la complessità dell'operazione intrapresa da Cagli. Come è noto, infatti, secondo Jung gli archetipi svolgono una essenziale funzione di ricomposizione dinamica tra la natura notturna e indifferenziata dell'inconscio e la differenziazione diurna operata dalla coscienza; il loro carattere è mobile, intrinsecamente metamorfico e inesauribile all'indagine conoscitiva. La fantasia mitopoetica - e l'arte nella sua antica funzione sociale - dispiega l'immaginazione simbolica dando senso e figura al movimento altrimenti sordo e oscuro della psiche. Se la perdita dell'archetipo comporta un impoverimento della coscienza, tanto più pericoloso poiché la civiltà che rinunzia alla componente inconscia si espone al suo distruttivo e incontrollabile ritorno, compito storico dell'arte è dunque di ricuperarne la posizione mediatrice: non con un moto regressivo - ed è questo che Cagli imputa implicitamente ad alcune direttrici delle avanguardie più recenti - ma mediante un controllo del metodo e delle finalità. Le problematiche non sono difformi da quelle del periodo anteguerra: differenti sono comunque i modi della ricerca come anche la consapevolezza critica, definitivamente liberata dai lacci che imbrigliavano la tematica del primordio nell'ambiguità del dibattito culturale degli anni Trenta. "Colui che parla con immagini primordiali è come se parlasse con mille voci", scrive Jung nel 1922 in un passo che Cagli utilizza nella presentazione alla citata mostra di Sironi; e nelle mille voci che Cagli modula dagli anni Cinquanta in poi, il dato iconografico, la padronanza dei mezzi delle moderne tecnologie - come il colore industriale spruzzato dall'aerografo - e di procedimenti tradizionali pur desueti come l'arazzo, l'intreccio e la continuità di materiali antichi e nuovi, la reinvenzione di antichissime forme e repertori rappresentano i momenti correlati di un unico progetto che ha per posta la convinzione umanistica di un accordo tra tutte le diverse sfere dell'operare umano: quella tecnica non meno che quella intellettuale e simbolica.
Alla fine degli anni Quaranta, la serie dei Tarocchi costituisce il primo momento dì una rivisitazione della imagerie popolare che pochi anni più tardi sfocerà nel ricchissimo caleidoscopio dedicato alla maschera di Arlecchino. Condotte secondo un forte telaio grafico che ricorda il segno rigido della xilografia, le figure dei Tarocchi - il Bagatto e l'imperatore, la Morte e la Ruota della Fortuna - sono ugualmente organizzate da un sistema di incastri di matrice cubista che salda sfondo e primo piano in un continuo processo di scomposizione e ricomposizione dell'immagine: un movimento ininterrotto che riconduce alla superficie dal fondale dei tempi il sostrato archetipo dei personaggi, rivelando per esempio, nell'angolosa oscillazione rotatoria della Ruota della fortuna l'archetipo solare, o assimilando la falce della Morte ad un aratro impegnato a smuovere il terreno riportando alla luce gli sparsi frammenti delle civiltà passate. In questo senso, non fa differenza che i reperti appartengano alla tradizione dell'Occidente o siano invece patrimonio delle società dell'Africa o dell'Oceania: quando agli inizi degli anni Cinquanta, e poi soprattutto nella parte centrale del decennio, Cagli si rivolge ai temi e simboli totemici, accostandosi inizialmente alla misteriosa sospensione evocativa di alcune opere di Klee (come in Anabasi o nella Flotta Arunta, rispettivamente dei 1950 e dei 1951) il suo atteggiamento è sostanzialmente diverso dal quel primitivismo che aveva prestato alle avanguardie storiche la propria potente cadenza barbarica. La questione centrale, infatti, non è più quella di attingere direttamente alle fonti una grammatica svincolata dal naturalismo e dalla mimesi percettiva, come era stato, ad esempio, per il cubismo, né di ridare fiato ad un esotismo di maniera; quanto, semmai, di riconoscere l'universalità simbolica di quegli emblemi, e come essi appartengano, in quanto archetipi, ad un retaggio comune e profondo della psiche. Disposte in una iterazione frontale che ha il suo immediato precedente nella sequenza araldica della Levata di scudi (1 95 1), le maschere tribali del Compianto di Batu Batu o di Lungo il Lungue Bungo (entrambi del 1954) scandiscono così la perseveranza di un tempo remoto, emergendo dalla filigrana del fondo in una continuità segnica che sembra già prevedere la trasposizione in arazzo. Subito dopo - in Eden, Flotta Arunta o Approdo Arunta, tutti del 1957 - quelle figure totemiche assumeranno un profilo più astratto, quasi di ipotetica scrittura geroglifica che investa i segni della decorazione della sua originaria sostanza animistica, ritmando la superficie del dipinto quasi senza peso, come materializzate da un lungo viaggio ipnotico. Nonostante la prossimità di queste opere con alcune declinazioni degli esponenti storici del surrealismo - Max Ernst su tutti, anche per quella filiazione del frottage che sono le impronte ottenute direttamente premendo sulla tela l'oggetto imbevuto di colore, o indirettamente spruzzando la vernice con l'aerografo - la ricerca di Cagli muove comunque da premesse diverse: sia perché nulla è lasciato all'alea dell'automatismo; sia perché - ed è una ragione più sostanziale ciò che la pittura in questo modo rivela non è l'inquietudine individuale dinanzi alla rimozione svelata della dinamica di colpa e desiderio, ma l'orizzonte salvifico dell'immaginazione archetipa. Simili ad una apparizione, nitide come solo nell'estasi allucinatoria, quel decantato regno di emblemi ha dunque attraversato le ere, ripresentandosi, intatto e intangibile, alla coscienza che l'aveva generato. "Nel nostro tempo - ha scritto Cagli esplicitando sia questa tematica sia la funzionalità dei procedimento tecnico - è avvenuta l'inversione del moto creativo, nella cronologia stessa dei momenti nei processi tecnologici, e l'immagine può risorgere dall'oblio, sia essa individuale o ancestrale, andando, per intenderci, a ritroso, come se Spinello fosse andato dal colore alla sinopia".
Era probabilmente necessario e inevitabile che questa ricerca di un patrimonio simbolico infinitamente esteso, sia orizzontalmente che verticalmente, conducesse nuovamente Cagli a confrontarsi direttamente con il mito classico. Il racconto delle Metamorfosi di Ovidio offriva in questo senso una verifica preziosa: testo poetico riassuntivo di quella reversibilità dall'animato all'inanimato e di quella contaminazione continua tra gli stadi della natura proprie della fantasticheria filosofica dei mondo antico, le Metamorfosi costituivano ugualmente il pretesto per riannodare il dialogo iconografico con la storia dell'arte, che a partire soprattutto dal secondo Cinquecento aveva eletto il poema ovidiano a esemplare raccolta di spunti e suggestioni per i temi mitologici. Un doppio gioco di specchi dunque, e anzi triplo, se si considera che proprio la grande civiltà d'immagini dei manierismo e del barocco aveva provato - con Bernini certo, ma non soltanto - la capacità delle tecniche e dei materiali a suggerire, con un virtuosistico gioco di abilità, l'attimo inafferrabile della trasmutazione. Inizialmente, l'allestimento del Tancredi di Rossini per la XV edizione del Maggio fiorentino dei 1952 - il primo in Italia, dopo le esperienze americane - offre a Cagli l'occasione di riproporre nella diversa chiave della dinamica teatrale di spazio e tempo, che aveva già rappresentato un fecondo momento di sperimentazione delle avanguardie storiche, quel tema dell'unità delle arti su cui si era ripetutamente soffermata la sua riflessione polemica durante gli anni Trenta. Trasfigurati in ambiente della fiaba e dell'idillio, nei fondali del Tancredi confluiscono in particolare quei motivi legati alla fantasia delle piante e dei bosco che avevano assunto la sostanza della visione onirica nella serie dedicata ai Boschi del Lemery (1950), ottenuta con il metodo delle impronte dirette: nel grande velario di coaguli e trasparenze di colore veniva così a rinnovarsi l'antichissima simbologia dell'albero, arcana presenza sacra per la cui crescita si congiungono in un rito circolare i quattro elementi. Non a caso nel ciclo delle Metamorfosi (concentrato in particolare nel 1957; ma le prime prove seguono immediatamente l'allestimento fiorentino) il mito centrale e più volte rappresentato è quello di Apollo e Dafne, l'episodio cioè in cui il tema della rinascita metamorfica si accompagna allo struggimento e al rimpianto; e il prodigio tecnico che a Bernini era servito per fermare l'istante fatale della fanciulla braccata da Apollo, e per trasformare il marmo in rocce, e fronde e carne, qui conduce invece lo spettatore nel gorgo perenne di quel mutamento. Senza sgomento, come sciogliendo la contrazione drammatica del racconto nella contemplazione di un evento sempre identico e senza tempo: una concezione classica e quasi pagana dell'evento mitico, pronta a riconoscere nel prendere forma delle immagini il fluire continuo della psiche e il loro compito rigeneratore. Così, nelle diverse versioni di Apollo e di Marsia o nel ritratto congetturale di Ovidio, l'elemento arboreo che cinge il capo del dio o del poeta, assorbendone i lineamenti nel viluppo di foglie e di fronde diviene il contrassegno della metamorfosi; e quando più tardi, negli anni Settanta, questa poetica di ombre, di echi e risonanze sarà tradotta in arazzo - per Guerrieri per esempio, o per il sipario del Tancredi, o ancora nel Narciso già pronto a lasciarsi sciogliere nell'abbraccio di acque e piante - la dimensione fiabesca assumerà la cadenza di un rituale solenne.
Nonostante insistano su versanti apparentemente distanti e quasi opposti - figurazione e astrazione, iconografia e aniconismo - alla fine degli anni Cinquanta le Carte rappresentano lo sviluppo e il polo complementare delle Metamorfosi. Non soltanto perché le figure del mito greco ricorrono spesso nei titoli - Gea, Enigma di Febo - alternati, come del resto sin dagli anni Trenta, ai nomi dei testi biblici - Genesi, Salomone re - come a unire in un solo nodo di racconto primordiale la congerie fantastica; ma anche perché le Carte conducono a un vortice vertiginoso quella riflessione sulle tecniche e sul linguaggio che nelle Metamorfosi aveva trovato nella natura fluida della mitologia greca la materia in cui risolvere la propria intrinseca ambivalenza, quell'oscillazione continua tra memoria, apparenza sensibile e concetto in cui vive la pregnanza della forma simbolica. Dal punto di vista del processo esecutivo, le Carte sono infatti uno stupefacente trompe l'oeil dove la materia - con le sue pieghe e avvallamenti, le increspature, i riflessi taglienti della luce e le ombre portate - sono simulate dalla pittura: quasi un omaggio alla pratica della tradizione manierista e barocca che fingeva le sostanze più disparate per accampare la spettacolare abilità mimetica dell'artificio in gara con la multiforme realtà naturale; rovesciando come per forza di paradosso le posizioni dell'informale, Cagli avverte insomma che l'esperienza materica non può che essere, ancora una volta, cosa mentale, metamorfosi della materia in immagine e viceversa. Nella ancestrale geologia di quei paesaggi originatisi per sommovimenti tellurici, nei bagliori metallici che animano la superficie come indizi di un senso riposto e immanente, il silenzio cosmico e lontanissimo lascia così levitare una filigrana figurativa che contiene, in potenza, tutti i miti e i racconti così come la stesura monocroma contiene tutti colori: il potente incombere rotatorio del sole nell'Enigma di Febo, il corpo femminile di Gea sagomato nella carta dipinta come una pietra modellata nei millenni dall'acqua e dal vento; come a dar corso finale e definitivo agli orizzonti indicati anni prima da Bontempelli, quando scriveva - e sembra veramente una epigrafe a tutta l'opera di Cagli che occorre essere "istintivi per riflessione, impulsivi per volontà, barbari per suprema raffinatezza".
Un procedere per ossimori, che probabilmente appariva a Cagli l'unica strada per infrangere le cristallizzazioni che precludevano l'accesso al dominio mutante dell'archetipo del quale il lavoro dell'artista può fornire soltanto la mappa di un ricalco tenace e provvisorio che ne segua con un tessuto fitto profili e contorni, sedimentazioni, vuoti e addensamenti: un frottage della psiche capace di innervarsi nelle regioni altrimenti dimenticate dove spazio e tempo si congiungono. "Nessuno sa della psiche - ha scritto Cagli nel 1956 presentando una mostra di Gastone Novelli, e poi ripetendo le stesse parole in un testo del 1959 - se non il perimetro di un impenetrabile labirinto ove, tuttavia, i processi associativi sondano e traggono da una illimitata congerie, argomenti, vocaboli, forme, sensazioni, al fine di comunicare e esprimere". Quel perimetro labirintico, che è insieme oggetto e metodo dell'indagine dell'artista, diviene così alla fine degli anni Cinquanta quasi una sigla formale del suo lavoro: dapprima riprendendo l'andamento a spirale del nastro di Moebius già utilizzato in alcune opere degli anni Quaranta (ad esempio nei Dioscuri del 1947) nelle piccole sculture di cartone colorato o smaltato in cui, seguendo percorsi parabolici, le curvature sinuose si saldano in maschere elusive, in strutture araldiche e totemiche dove i tasselli policromi riprendono le scansioni ritmiche e le strutture aperte dei Motivi cellulari; subito dopo trasponendo gli stessi elementi nella materia del bronzo, così da sviluppare nel sistema di incastri e avvolgimenti la continua tessitura di luce monocroma delle Carte. Una galleria straordinariamente mobile di ritratti, una variazione ininterrotta sul motivo della maschera dove la fissità dell'idolo antico è sottoposta, nella catena di permutazioni che lega un'opera all'altra, ancora una volta al principio della metamorfosi: decantando, nel gioco di travestimenti che svela e occulta l'identità inflessibile del dio, una essenza sottilmente melanconica, la cifra consapevole del proprio irrisolvibile enigma.
Ancora più tardi, alla fine degli anni Sessanta, Cagli si servirà di analoghe strutture labirintiche per ulteriori svolgimenti dei principi di quarta dimensione, assimilando nell'addensarsi e diradarsi del reticolo spugnoso in bianco e nero alcune ricerche analitiche proprie all'op art. Ma è soprattutto nella serie delle Siciliane, realizzate tra il 1962 e il 1965, che il tema del labirinto si esplicita definitivamente nel tratto continuo del segno che, nel suo procedere per circonvoluzioni - come nei labirinti effigiati nelle monete di Cnosso - origina e sommerge senza pause la memoria mitica del mediterraneo: efflorescenze arboree e coralli, occhi e pesci, motivi decorativi a meandri, a greca e a tridente, una coloratissima e felice ebbrezza panica che abbraccia e riepiloga divinità e paesaggi. L'ultima smagliante immagine di metamorfosi scioglie così nel divenire fluido della linea ogni residua resistenza concettuale del simbolo, ogni diaframma tra interiorità e apparizione fenomenica: le mille voci del canto corale, ciclico e polifonico che trent'anni prima Cagli aveva indicato come la promessa dell'arte di questo secolo.



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