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Il teatro
I
percorsi del mito
a
cura di Sergio Troisi
Forse
soltanto oggi, quando il secolo che si chiude consegna la vicenda
artistica del novecento a una valutazione capace di riordinare da
una maggiore distanza i tanti fili di un ordito complesso e per
alcuni aspetti contraddittorio, è possibile accostarsi all'opera
di Corrado Cagli con una differente obiettività, e con uno
sguardo critico adeguato ad una esperienza ricca e multiforme come
poche altre, e non soltanto in Italia. Nonostante i quasi venticinque
anni trascorsi dalla morte dell'artista, quella sorta di resistenza,
quel distacco al fondo vicino alla diffidenza che a lungo hanno
pesato quasi come una rimozione nei confronti di Cagli non si sono
ancora definitivamente dissolti. A dispetto delle grandi mostre,
dei riconoscimenti e delle ricostruzioni storiche che già
da tempo, almeno dalla grande monografia dedicata a Cagli da Marchiori
e Crispolti nel 1964, hanno individuato il ruolo fondamentale che
la sua opera ha avuto in alcuni snodi fondamentali dell'arte italiana
dei novecento, ciò che in gran parte continua a mancare è
proprio la compiuta metabolizzazione della funzione essenziale che
Cagli ha svolto per oltre un trentennio, dall'esordio precocissimo
all'inizio degli anni Trenta sino agli anni Sessanta, nel determinare
direzioni e percorsi; e in un arco di tempo dunque assai ampio,
soprattutto in relazione alla diversità delle sollecitazioni
storiche e delle cifre stilistiche, formali e di metodo: e che comprende
dunque non soltanto l'azione intellettuale nei confronti della generazione
più giovane tra le due guerre, ma anche le poetiche spazialiste
e nucleari, dell'astrazione segnica e informale. Al di là
delle difficoltà di una cultura come quella italiana, imbevuta
in modo più o meno sotteso di idealismo, legata al postulato
della coerenza formate come corollario dell'unità tra l'artista
e la sua opera e al valore prioritario della dimensione sensibile
dell'opera stessa, e quindi obiettivamente a disagio di fronte ad
un linguaggio così straordinariamente multiforme ed elusivo
proprio in merito a questi aspetti, uno dei punti cruciali - se
non l'elemento cruciale per eccellenza - è infatti proprio
il rapporto tra l'opera di Cagli tutta, nel suo svolgimento complessivo,
e la storia: il suo muoversi cioè all'interno delle situazioni
singole, e delle singole urgenze che il tempo storico di volta in
volta poneva, e contemporaneamente con un atteggiamento di vaglio
critico che di quelle urgenze filtrava quanto vi era di contingente,
così da sottrarre l'esperienza e la percezione della contemporaneità
a una prospettiva indefinitamente aperta e provvisoria, e da comprenderla
in un solo, tesissimo perimetro.
In questo senso, il percorso di Cagli è stato assolutamente
coerente e unitario: e non nonostante la ricchezza inventiva, la
continua sperimentazione di tecniche e l'incessante esplorazione
di soluzioni espressive, ma, al contrario, proprio per la logica
interna che guidava e presiedeva a questa ricerca, evitando ogni
volta quella cristallizzazione che avrebbe altrimenti impoverito
in una cifra stilistica di routine l'avventura - indissolubilmente
mentale e operativa - del linguaggio artistico; e semmai, procedendo
di ciclo in ciclo, legando come in un'unica variazione musicale
gli elementi della figurazione, così che apparissero, ad
ogni nuovo ritorno, ogni volta riconoscibili eppure trasformati.
Spirito nomade come pochi altri (ed è quantomeno singolare
che quando il nomadismo è divenuto, in anni più recenti,
una definizione di propaganda e un passe-partout ideologico della
crisi della modernità, a Cagli non sia stata riconosciuta
quella lucidità di giudizio sui limiti dell'esperienza moderna
che l'apertura di direzioni della sua ricerca presupponeva), Cagli
lo è tuttavia in modo diverso dagli altri artisti che di
volta in volta sono stati chiamati in causa per individuare, nella
storia del novecento, una configurazione diversa da quella ufficiale
di una linea progressiva che dalle premesse iniziali evolvesse,
quasi per ragioni semplici di cause ed effetto, sino alla rarefazione
e al silenzio delle prove estreme delle neoavanguardie: da Klee
per esempio, riferimento inevitabile per alcune serie di opere degli
anni Cinquanta, per il quale tuttavia ogni singolo tassello contiene,
in potenza, l'intera totalità del suo mobilissimo universo
poetico; o da Picasso, cui lo apparenta una curiosità polimorfa
che sembra ogni volta azzerare e riscrivere da un nuovo punto di
visuale, con uguale apparente facilità, la propria storia
passata ma non la voracità metabolizzatrice di stilemi e
reperto i; o da Ernst, con cui condivide i on soltanto l'uso del
frottage ma soprattutto l'intenzione di un inesauribile sondaggio,
attraverso l'immagine, delle regioni sconosciute e metamorfiche
della psiche, e che comunque sin dagli anni Venti definisce in termini
compiuti la gamma di oscillazioni del proprio orizzonte combinatorio.
La produzione di Cagli sembra invece obbedire a una differente struttura
circolare dove ciò che ritorna non sono i singoli temi, le
scelte stilistiche e figurative o l'ordine della composizione, ma
le questioni che l'opera affronta, e che seppure presenta nella
sua piena evidenza d'immagine non può tuttavia esaurire.
E in questa accezione che occorre allora parlare di mito: non tanto
dunque o non soltanto - in chiave di repertorio, che comunque gioca
un ruolo importante in particolare durante gli anni Trenta e nel
ciclo delle Metamorfosi degli anni Cinquanta (per citare soltanto
i momenti più espliciti), ma, più in profondità,
nei termini della funzione immaginativa che l'opera svolge, e che
provvede a manifestare risolvendosi interamente nella sua costituzione
formale. Che poi sia possibile ritrovare, anche a distanza di anni
o anche di decenni, richiami e assonanze, sviluppi e intrecci di
alcuni principi guida, non muta la sostanza del discorso. La pittura
e la scultura di Cagli non seguono cioè un principio di semplice
evoluzione, e non sono ordinabili secondo un criterio di tappe stilistiche
concatenate l'una all'altra in una serie progressiva: vanno semmai
indagate nella loro lucida volontà di sondare, con strumenti
di volta in volta differenti ma mai contraddittori o antagonisti,
i fondamenti archetipi della modernità. Non si trattava di
sottoporre la contemporaneità a una critica radicale, irridente
e nichilista, come fece invece De Chirico soprattutto a partire
dalla seconda metà degli anni Trenta, ma di assumerla, civiltà
tra le civiltà, nella sua identità irrisolta e problematica,
investigandone le sedimentazioni e i collassi, le antiche pulsioni
richiamate a rinnovato furore, i timori e le ansie, la felicità
panica e l'atto di libertà creativa. Sorvegliando sempre
che l'opera così concepita e come immediatamente trovata
non coincidesse con un abbandono ingannevole al sentimento dell'autenticità
- altro pregiudizio idealistico - e sottoponendola invece a un controllo
serrato e vigile, così da chiarire la sua relatività,
il suo essere cioè circoscritta a un vitale nucleo interrogativo:
ed è questo a disegnare quella tangenza ellittica con le
poetiche del tempo, spesso così vicine quanto a soluzioni
formali eppure così irrevocabilmente distanti per quel che
concerne la genesi intellettuale. t noto come tutto ciò sia
stato causa di fraintendimento: il sospetto di eclettismo, insinuante
negli anni in cui la dicotomia tra astrazione e figurazione corrispondeva
in Italia a precise scelte di campo, e comunque irriducibile al
dogma della purezza linguistica che ha dominato il panorama dell'arte
internazionale per buona parte del secondo dopoguerra; l'equivoco
di una sapienza tecnica che avrebbe costretto la dimensione espressiva
ad una virtuosistica esercitazione manierista; e infine la riduzione
di quell'attraversamento iconografico, che in Cagli ha sempre svolto
una funzione essenziale di attualizzazione delle grandi fonti mnemoniche
della storia dell'arte, a una mera pratica di citazioni, hanno più
di una volta fatto velo ad una esatta comprensione di un'attività
così intensa e come priva di pause. E si tratta comunque
di fraintendimenti che partono da lontano: dagli anni Trenta appunto,
a conferma di come la posizione di Cagli sia stata, sin dall'inizio,
sottilmente dialettica nei confronti dei raggruppamenti di scuola
e delle tendenze a programma.
"In un certo aspetto, la pittura di Corrado Cagli è
uno schedario di galleria, un repertorio; neanche si potrebbe dire:
un repertorio d'esperienze critiche, perché tanti riferimenti
classici di cui essa è popolata vi rimangono, all'incirca,
allo stato di "citazioni". Le riserve di Emilio Cecchi
alle grandi tavole delle Cronache del tempo, esposte alla Il Quadriennale
romana del 1935, riassumono bene I'impasse in cui si trova una parte
della critica del tempo di fronte alla collocazione assunta dall'artista
nel dibattito culturale di quegli anni. Nonostante vengano enfatizzati,
è infatti evidente che i richiami ai grandi quattrocentisti,
Masaccio e Piero della Francesca in testa, non valgono per Cagli
come misura formale, né come una coniugazione del registro
classicista che una parte di Novecento aveva divulgato nell'ambiguità
di fondo del ritorno alla tradizione italiana. Al contrario, declinando
la composizione per continui slittamenti di piani prospettici di
contro al saldo telaio geometrico delle proporzioni spaziali, e
sottraendo alle figure quella solidità d'impianto chiaroscurale
che ne scandiva la solennità narrativa, Cagli ne verificava
la consistenza all'interno di un diverso contesto figurativo: aprendo
semmai l'idea stessa di tradizione alle suggestioni della pittura
antica, dai cicli d'affreschi pompeiani alla stesura più
corsiva della maniera compendiaria. Non era certo questione di un
riepilogo più ampio e completo delle fonti culturali: piuttosto
che per aggiunte e contaminazioni - cosa che avrebbe giustificato
l'accusa di eclettismo - Cagli opera infatti per elisioni e come
bruciando, nel contatto delle diverse matrici formali, l'insidia
di una riproposizione erudita e meramente archeologica; così
da ordire l'impianto del dipinto in una tarsia mobile e inquieta
di toni virati verso luminescenze quasi visionario, in un ritmo
arcano di gesti sospesi e rarefatti.
Le Cronache del tempo costituiscono del resto il primo fondamentale
approdo di un percorso ancora breve ma già fitto, di cui
il dibattito avviato sulla rivista "Quadrante" e l'esperienza
controversa delle pitture murali della Triennale di Milano del 1933
rappresentano i momenti più significativi. In quel primo
scorcio degli anni Trenta il panorama artistico italiano è
infatti già sfaccettato-. fallito il tentativo egemonico
di Novecento di accreditarsi come linguaggio moderno e nazionale
- anche a causa di una politica di allargamento dei gruppo iniziale
che doveva necessariamente sfociare in una compagine eccessivamente
eterogenea - rimanevano però in piedi molte delle opzioni
che avevano sostanziato le aggregazioni di correnti e movimenti
dei decennio precedente, dall'eredità sia pure diluita dell'esperienza
metafisica al rapporto con l'architettura, dal recupero della tradizione
alle formulazioni di Bontempelli di un "realismo magico"
esemplificato più su Piero e Masaccio che sui contemporanei,
sino alle prime avvisaglie di un disagio morale nel tonalismo latamente
espressionista di Scipione, di Mafai e della Raphael. E' quanto
mai sintomatico che il tragitto di Cagli tocchi, ellitticamente,
tutti questi punti senza mai identificarsi con nessuna di queste
posizioni, e anzi forzandole in dìrezione di una differente
sintesi dialettica.
il principale nodo di raccordo è costituito naturalmente
dal problema della pittura murale, che Cagli aveva posto al centro
del dibattito con il famoso appello Muri ai pittori, pubblicato
sul n. 1 di "Quadrante" nel maggio 1933, all'epoca della
Triennale milanese, e cui aveva fatto eco Sironi con il Manifesto
della pittura murale nel dicembre dello stesso anno, alcuni mesi
dopo che quella esperienza aveva evidenziato limiti e rischi della
questione e anche le notevoli divergenze di impostazione. Il modo
in cui i diversi artisti chiamati a decorare le pareti dell'esposizione
milanese avevano interpretato la dichiarata vocazione della pittura
moderna a dar voce ad una rinnovata funzione sociale era infatti
assai eterogeneo: e i pericoli maggiori provenivano sia da una accezione
celebrativa che da una riproposizione del modello umanistico e rinascimentale,
due forme parallele di semplificazione laddove in gioco erano il
sentimento di appartenenza al presente ("tempo in noi convesso"',
è la definizione di Cagli) e la aspirazione - non di rado
generica e contraddittoria - ad una nuova forma di espressione.
Rispetto ad almeno uno di quei pericoli, Cagli è del resto
esplicito quando scrive, rubricandolo tra gli iniqui motivi che
inducono alla pittura parietale, "di un mediatore spirito pseudoumanistico
che porta a vagheggiare forme rinascimentali (esistono ancora preraffaelliti)
traverso il caleidoscopio falso e scolastico dei bozzetti, dei cartoni,
degli spolveri"'-, dove ogni ipotesi di ritorno che servisse
in realtà da paravento all'accademismo tardo ottocentesco
è liquidata con tono perentorio. E lo stesso Sironi, affermando
che la natura sociale della pittura murale "dovrà combattere
quei pseudo 'ritorni', che sono estetismo dozzinale e un palese
oltraggio al vero sentimento di tradizione"', ribadisce una
medesima necessità di chiarezza. Non a caso sono ancora Cagli
e Sironi, i due esponenti più consapevoli di quella contestata
edizione della Triennale, a porre senza esitazioni, anche in seguito,
il problema della relazione della pittura murale con l'architettura
moderna razionalista. Sino a qui le analogie, perché poi
le soluzioni stilistiche non potrebbero essere più divergenti:
scabro e arcaicizzante il linguaggio di Sironi, dove gli impasti
bituminosi scandiscono l'epica al fondo tragica dell'uomo moderno,
epifanico e quasi emergente da una favola antica quello di Cagli,
come se ogni tensione drammatica fosse stata dilavata nei sapienti
accostamenti dei colori calcinati, e decantata in una nuova aurora.
E, questo, il tema del primordio, su cui insiste la poetica di Cagli
sino alla metà del decennio, e che segna ugualmente la convergenza
con le posizioni di Bontempelli, amplificando lo stupore magico
che secondo lo scrittore doveva sostanziare "la ricostruzione
del tempo e dello spazio il compito dell'età presente - nella
costruzione dei nuovi miti. Problema nevralgico di questa prima
fase dell'attività di Cagli, già parzialmente esplorato
quando alla fine degli anni Venti, quindi giovanissimo, si era rivolto
al nitore disegnativo della pittura vascolare greca per la decorazione
ceramica; e neppure in questo momento iniziale, a ben guardare,
legittimando in modo esclusivo un repertorio stilistico del passato,
se è vero che la testa di Icaro, una ceramica dipinta del
1929, presenta innegabilmente caratteri formali propri della scultura
negra, sia pure smussati nella capigliatura da eleganze déco:
quasi un'anticipazione di quell'interesse verso le culture figurative
primitive che conoscerà un più ampio sviluppo negli
anni Cinquanta. Matura in questo ambito - e non dunque come ripresa
di un precedente storico della tradizione nazionale l'attenzione
verso la pittura pompeiana, nelle sue diverse accezioni, dalle campiture
larghe e dai misteriosi gesti iniziatici degli affreschi della Villa
dei Misteri alla stesura più abbreviata dello stile compendiario;
così da coniugare il contenuto mitico e la suggestione dell'antica
pittura parietale con quel senso di attesa stupefatta che è
la manifestazione del sentimento del primordio: "In un'alba
di primordio" - scrive nel 1933 - "tutto è nuovamente
da rifare e la fantasia rivive tutti gli stupori e trema di tutti
i misteri. La forma appare nuova e l'astratto è una nuova
forma; le dimensioni sono vive del loro miracolo, e il cavallo bianco
è strano, strano il cielo, strano il dipingere il volto di
un amico". Nel nuovo cominciamento del tempo - l'elemento di
maggiore e irrisolta ambiguità rispetto alla ideologia restauratrice
del fascismo e alla sua contraddittoria volontà di farsi
ugualmente portatrice del moderno - la dimensione sociale della
pittura coincide allora con l'evocazione interiore; e in questa
direzione di ricerca verso un'espressione ciclica, corale e polifonica,
gran parte dell'opera di Cagli, almeno sino al 1936, tende all'affresco
e alla pittura murale, anche prescindendo dalle maggiori realizzazioni
in questo campo: dalle decorazioni di Casa Maravelli-Reggiani a
Umbertide, del 1930, alle pitture della Mostra dell'Edilizia del
1932 (dove viene proposto, consapevolmente, un tema caro all'arte
antica ellenistico-romana quale la scena di battaglia), dai Preludi
della guerra della Triennale del 1933 sino a La corsa dei barberi
a Castel de' Cesari del 1935 e alla grandiosa tavola della Battaglia
di San Martino del 1936. t in questo contesto di affabulazione mitografica,
trasognata e ansiosa, che si inseriscono quei prelievi iconografici
che sono stati scambiati per una pratica manierista, e che invece
rappresentano non soltanto la grande memoria della storia dell'arte
- e di un procedimento proprio della sua storia millenaria - ma
la conferma sperimentale del valore archetipo delle immagini così
come si sono conservate attraverso le civiltà pur mutando
appartenenza e significato: il gesto della Sirena del 1933 ricalca
così quello famoso di Ifigenia nella scena del sacrificio
di un affresco di Pompei, il chiasmo di Edipo a Tebe, dello stesso
anno, quello di una raffigurazione di Teseo di uguale provenienza,
seppure reso più incerto e come da sonnambulo il cavaliere
travolto dalle acque nel Passaggio del mar Rosso
(1934) riprende un particolare della colonna Traiana, mentre un
altro cavaliere, quello visto di spalle ne La caccia (1935), è
il frutto di una contaminazione tra un'altra figura della stessa
colonna e un personaggio dell'episodio dell'incontro tra Attila
e Papa Leone delle Stanze di Raffaello"; per arrivare all'esempio
più eclatante e scoperto dei Neofiti (1 934), dove il catecumeno
che si spoglia della veste proviene per via diretta dal Battesimo
di Cristo di Piero della Francesca.
Questa indagine della dimensione archetipa del patrimonio di immagini
non si esaurisce comunque con le tipologie figurali, ma è
ugualmente estesa anche alle tecniche: al disegno innanzitutto,
cui, parallelamente alla pittura, in questi stessi anni è
affidato il compito di una immersione quasi rabdomantica nella geografia
mitologica che abita la psiche, e la cui stupefacente ed elegantissima
sicurezza di tratto non dissimula l'origine di quelle immagini dalle
profondità notturne"; e poi la tempera ad encausto,
che rappresenta il primo manifestarsi di quell'attenzione all'universo
dei materiali e dei procedimenti che costituisce uno degli aspetti
più importanti di tutta l'opera di Cagli; e che spiega chiaramente
la distanza che lo separa da ogni declinazione del tonalismo in
chiave intimista - e quindi soprattutto da Mafai - ma anche da quella
più ancorata alla rappresentazione lirica della realtà
quotidiana: e quindi, nonostante la prossimità delle intenzioni
sintetiche e costruttive del colore, da Cavalli, Capogrossi e Melli.
Se Cagli è lontano da quella fissità malinconica in
cui non di rado si stempera l'inquietudine metafisica, e che rimane
uno dei tratti distintivi di tanta pittura italiana degli anni Venti
e Trenta, è perché il valore riflessivo della sua
opera imponeva il confronto su un profilo ben diverso con la lezione
di De Chirico: non tanto sul piano compositivo e formale (ma si
veda comunque come un disegno del 1933, Penelope, sia debitore nei
riguardi dei suoi dipinti del decennio precedente: con quella pedana
a metà tra teatro e stabilimento balneare su cui si svolge
la scena, l'elmo abbandonato per terra e i due nudi maschili a colloquio
sulla destra a variare l'analogo motivo de La partenza degli Argonauti),
quanto piuttosto sul metodo e sulle conclusioni del giudizio storico
e filosofico. Se insomma per De Chirico l'accesso alle fonti civilizzatrici
del mito antico è sbarrato, e all'uomo contemporaneo non
resta che contemplare il palcoscenico dove gli emblemi di quella
perduta totalità di senso giacciono ormai inutilizzabili,
per Cagli invece la scommessa (o l'azzardo) della cultura moderna
si gioca proprio nella sua capacità di attraversare le ere
del tempo storico, riemergendo infine rigenerata dal contatto vivificante
col mito: una posizione che sembra già quasi prossima al
pensiero di Jung, a cui Cagli farà poi esplicito riferimento
sin dai primi anni del dopoguerra, e che conferma una volta di più
come nella sua opera ogni periodo illumini in circolo tutti gli
altri. E' del resto lo stesso artista a fornire il miglior commento
a questi problemi, in un passo famoso a proposito delle proprie
opere alla Quadriennale del 1935: "AI di là delle comuni
ricerche di un linguaggio tonale, di una dignità delle tecniche
e delle materie, di una osservazione delle leggi metafisiche che
pervadono la pittura, vi è una foce alla quale tutte queste
fatiche non sono che fiumi: la creazione di nuovi miti". Il
ritmo iterativo dei gesti - per esempio ne La nave di Ulisse -,
la spazialità straniata, le lunghe ombre irreali ne l'Edipo
a Tebe e nei Neofiti, tutti dipinti del 1933 - traducono così
l'affiorare intatto e ancora tremante del mito dalle stratificazioni
delle età e della coscienza; una dimensione aurorale, che
è compito del raccordo e dell'unità tra le arti realizzare
compiutamente nella esistenza sociale della vita moderna. Da qui
il dialogo polemico con l'architettura razionalista, a cui Cagli
contesta l'idolatria della parete bianca", ma anche un'opera
emblematica come i mosaici della fontana di Terni con i segni dello
Zodiaco, in cui il repertorio classico si fonde con i temi e la
tipologia circolare delle fontane medievali esaltando nella figurazione
continua il corso ciclico del tempo. La Battaglia di San Martino,
dipinta su pannelli in legno per scongiurare la distruzione che
era invece toccata ai dipinti murali della Triennale del 1933, rappresenta
per diversi aspetti l'opera spartiacque dell'attività di
Cagli degli anni Trenta. Momento conclusivo di quella serie dedicata
alle battaglie che Cagli aveva già esplorato negli anni precedenti,
epos collettivo risolto in una figurazione favolistica in cui confluiscono
le memorie di Piero e di Paolo Uccello ma anche la ricchezza descrittiva
del Gotico internazionale, il dipinto è organizzato come
una gigantesca tarsia di colori brillanti e accesi: una rivisitazione
della tecnica quattrocentesca ma anche, nelle direttrici diagonali
delle lance che attraversano la scena riportando vicino e lontano
sui medesimi valori di superficie, della nuova sintesi spazio-temporale
del cubismo; quasi a saldare la metafisica prospettica quattrocentesca
delle Battaglie di San Romano e della Battaglia di Ponte Milvio
con le leggi metafisiche della pittura contemporanea.
E tuttavia questa lettura dichiaratamente antiretorica dell'episodio
risorgimentale segna già un sentimento di distanza dalla
poetica del primordio: anche se quei temi continueranno ad essere
dibattuti sulla rivista "Valori Primordiali" edita tra
il 1938 e il 1939 e a cui partecipano tra gli altri Bontempelli,
Terragni, Celiberti e Antonio Banfi, spesso raccogliendo le indicazioni
proposte dallo stesso Cagli nei primi anni del decennio", il
clima culturale - e non soltanto quello - comincia a mutare. L:attività
della Galleria della Cometa, di cui Cagli è il principale
animatore, aggrega giovani artisti come Guttuso e Ziveri intorno
a un nuovo senso di disagio morale nei confronti del fascismo che
rappresenta il preludio alla svolta generazionale di Corrente; il
distacco dalla mitografia primordiale è implicito nella mostra
allestita nel 1936 dove Cagli espone esclusivamente nature morte,
e la stessa stesura pittorica, prima architettonicamente costruita
dai contrasti tonali, approfondisce d'ora in avanti quegli umori
più mossi, densi e drammatici già presenti ne La corsa
dei barbari. La situazione politica aveva insomma svelato quanto
di illusorio vi fosse nello stupefatto silenzio del primordio; e
come il mito fosse ormai, piuttosto, il testimone inerme e tenace
della civiltà di fronte all'irrazionale: così ad esempio,
figura d'ombra minacciata, si presenta il Bacchino (1938); e un
sentore di allarme anima Orfeo incanto le belve, l'affresco (distrutto)
per la Biennale veneziana del 1938. E non a caso in questi anni
che vedono la promulgazione delle leggi razziali Cagli intensifica
nei disegni quella presenza dei temi ebraici - quasi una disperata
difesa della memoria - che lo accompagnerà in tutta la sua
produzione successiva, per culminare, all'inizio degli anni Settanta,
nella vertiginosa combinazione dei triangoli della stella di Davide
che nel monumento piramidale di Gottinga salgono intersecandosi
come una architettura di Borromini o di Guarini. Dopo le critiche
e le censure per le quattro Vedute di Roma esposte all'Esposizione
Universale di Parigi del 1937, agitate da uno spirito cupo e visionario,
e per la serie di ritratti di uomini illustri dello stesso anno,
dove i personaggi sembrano come sprofondare nello spazio che li
accoglie, a Cagli non rimarrà che intraprendere la strada
dell'esilio verso la Francia.
Il periodo trascorso a Parigi e gli anni del soggiorno americano,
della partecipazione alla guerra di liberazione in Europa come soldato
dell'esercito alleato e del rientro negli Stati Uniti prima del
definitivo ritorno in Italia, costituiscono una importante fase
di gestazione dell'opera di Cagli del dopoguerra. La meditazione
sulla lezione di Braque - il Braque degli anni Venti che riassembla
la visione cubista dello spazio - in alcune nature morte dei 1938
e del 1939, ma anche la ripresa, nei disegni del 1940 Hocs e Hocs
racconta, di una scomposizione più violenta memore sia di
Picasso che di Boccioni, sembra infatti annunciare quello che sarà
il tratto fondamentale dei decenni successivi-. la continua esplorazione
di differenti registri formali. In questi stessi anni l'esercizio
del disegno non rinunzia così a ripercorrere, ancora una
volta, le strade del mito classico: talvolta variando appena quella
nitida filigrana dei tratto che nei disegni precedenti sembrava
ritrovare come in trance l'antica fonte figurativa; altre volte
addensando un diverso sentore di minaccia oscura, come nel bellissimo
e quasi goyesco volo notturno di Prometeo (1940), o serrando le
file dei guerrieri greci - Macedoni, Termopili, Maratoneti, tutti
del 1944 - come una risolutiva chiamata alle armi contro la barbarie.
Non a caso, del resto, questi disegni si alternano a quelli, intensissimi,
realizzati durante la campagna militare a documentare l'orrore della
guerra e dei campi di sterminio.
E' possibile che la situazione artistica negli Stati Uniti, nel
momento in cui l'influenza diretta del surrealismo europeo era decisiva
per la gestazione e la nascita dell'espressionismo astratto, abbia
agito da lievito nella maturazione di alcune indicazioni sperimentali
dell'opera di Cagli; e tuttavia le premesse fondamentali sono già
contenute, pressoché per intero, sia nelle posizioni sostenute
nei numerosi interventi critici e polemici che nel metodo intellettuale
e nel valore attribuito all'immagine durante tutti gli anni Trenta.
Il riferimento obbligato è naturalmente il famosissimo passaggio
del Corsivo n.12 pubblicato su "Quadrante" nel 1933 in
cui Cagli teorizza la consistenza di astrazione e figurazione come
poli complementari dell'espressione moderna: "Ci sono pittori
e scultori apparentemente illogici nel loro manifestarsi. La realtà
è che in arte una sola logica è dannosa; perciò
pittori e scultori, che siano grandi, hanno una seconda logica della
quale non fanno mai a meno senza per questo fare a meno della prima
(... ) L'eclettismo apparente del pittore moderno dipende dall'avere
scoperto la natura "dei generi pittorici". Come l'arte
poetica ha i suoi generi (lirica, epica, idillica) così la
pittorica ha i suoi che non sono paesaggio, figura e natura morta,
ma sono l'astratto e il formale. Superato il dissidio tra i due
generi (si può fare epica e lirica senza mutare anima) si
riscatta l'astrattismo dalla polemica per trasportarlo nell'arte".
Eppure anche questo lucido argomentare, che Cagli ribadisce ancora
in seguito, rischia di essere fuorviante se non si comprende come
ciò che permette di trascorrere dall'uno all'altro genere
non è la manifestazione di un momento del gusto - cosa che
svaluterebbe l'espressione ad un mero dato contingente - ma la natura
interiore dell'immagine, la sua valenza psichica. E' evidente allora
che un unico filo rosso lega la produzione anteguerra a quella dei
decenni seguenti: un filo rosso che alla fine degli anni Quaranta,
solo apparentemente in modo improvviso, si allarga a ventaglio,
mantenendo però sempre la funzione di scandaglio di quella
realtà inconscia in cui le grandi architetture simboliche
dispiegano la loro potenza metamorfica. Il continuo presentarsi
di assonanze e variazioni ben al di là della distinzione
dei due generi astratto e figurativo, fino a costituire una fittissima
raggiera di diramazioni e ritorni, non fa che confermare questo
procedere per analisi cicliche: così, già nella seconda
metà degli anni Quaranta, la serie di opere con le figure
umane drammaticamente tese in pose straniate riprende la stesura
pastosa degli ultimi dipinti romani, e prepara ugualmente, nell'insistenza
sui motivi circolari ed ellittici, le prove neo-metafisiche in cui
vengono per la prima volta enunciate le geometrie non euclidee;
e il tracciato continuo dei dipinti in bianco e nero dello stesso
periodo amplifica la tensione ritmica dei disegni preparando i percorsi
labirintici della fine degli anni Cinquanta e delle Siciliane.
Ciò che comunque interessa Cagli in tutte queste serie di
opere del primo dopoguerra non è la ripresa dell'automatismo
surrealista, anche se le larvali figure di Uomini o dei Sicari sembrano
materializzarsi dalla sfera dell'incubo; né la gestualità
propria dell'informale americano, nonostante i dipinti in bianco
e nero presentino apparenti affinità con le successive prove
di Frank Kline; e neppure l'eredità dechirichiana, poiché
il riferimento alla metafisica si limita ai sembianti d'elmi antichi
in cui si organizzano i piani ellittici e spiraliformi. L'intenzione
è semmai di indagare come il continuo spazio-temporale delle
geometrie non euclidee di Donchian e di Moebius abbia il proprio
correlato nel dominio dell'immagine, laddove l'impasto incandescente
di memorie e pulsioni provvede alla nascita dei miti. Analogamente,
nei Disegni di quarta dimensione il problema non è quello
della trasposizione sul piano figurativo dell'enunciato scientifico,
ma piuttosto quello di verificare attraverso il nuovo modello concettuale
il principio fondamentale della vita psichica, ossia la metamorfosi".
Sono così posti i temi fondamentali su cui, da questo momento
in avanti, Cagli esercita senza pause il suo ricchissimo spettro
di invenzioni e variazioni linguistiche: il controllo dei materiali
e delle tecniche, sia antichi che moderni, come necessario postulato
di quella unità tra la dimensione espressiva individuale
e l'aspetto dell'esistenza sociale che il mondo moderno ha scisso
in ambiti separati; la nozione di archetipo come fulcro di questa
reintegrazione della coscienza; e, appunto, il principio della metamorfosi
come dato centrale del dinamismo della realtà interiore.
E' alla luce di questi tre punti indissolubili che va considerata
la paradossale coerenza della multiforme attività di Cagli:
come un'ipotesi aperta di riconciliazione insieme soggettiva e storica
in cui il demone altrimenti incontrollabile delle istanze inconsce
fosse condotto ad una nuova chiarezza conoscitiva, sfuggendo alle
trappole di opposto segno formale ma in realtà parallele
di una mera liberazione delle forze conflittuali da un lato, e da
una concentrazione esasperata e in fondo illusoria sulla elementare
purezza ideale dell'elemento linguistico dall'altro. Anche per questo
la sua opera è irriducibile, nonostante le tangenze espressive
e di strumenti, a gran parte delle poetiche del tempo: di fronte
alle istanze espressioniste e romantiche di gran parte delle esperienze
informali e alla volontà di controllo intellettuale esercitata
attraverso il processo di riduzione fenomenologica degli elementi
costitutivi dell'opera - come è avvenuto principalmente nella
linea dell'astrazione geometrica Cagli pone dunque l'esigenza di
una sintesi che non riguarda semplicemente i fattori stilistici,
quanto le ragioni profonde della civiltà contemporanea. Una
delle questioni era quindi quella di riscattare la conoscenza scientifica
dalla sua separatezza e da una visione essenzialmente applicativa
per ritrovarne quella vitale funzione immaginativa che presiede
a ogni rappresentazione: così, ad esempio, nei Disegni di
quarta dimensione e nella serie dei Motivi cellulari - le opere
più esplicite in tal senso - il dato matematico e biologico
fornisce lo strumento di partenza per interrogare la logica interna
dell'immagine, il suo perenne germinare e trasformarsi nella durata
interiore". Così che quando, a cavallo del decennio,
questa ricerca approda - provvisoriamente - alla tematica della
pittura segnica, con le serie degli Estri e dei Reticoli modulari,
ciò che conta non è il prontuario linguistico e la
messa a punto di una nuova grammatica di invarianti (come sarà
invece per un artista come Capogrossi, che proprio a partire da
queste opere di Cagli maturerà la sua svolta astratta), quanto
l'individuazione di una risonanza archetipa che si condensa nel
ritmo musicale ed evocativo della composizione. E' per questa strada
allora che Cagli ritrova la centralità del mito: già
l'alfabeto congetturale di Dal libro di Ulisse (1949) dispone gli
elementi segnici - le croci, le losanghe, i reticoli di quarta dimensione
- come tasselli colorati che galleggiano sulla superficie come sul
mare del tempo ancestrale; quasi una tarsia - nuovamente - i cui
incastri avvengano però non sul piano, nonostante la programmatica
bidimensionalità della geometria astratta, quanto nelle profondità
altrimenti insondabili della memoria primordiale. Non a caso dunque,
a partire da questa data, negli scritti di Cagli i riferimenti alla
psicoanalisi di Jung diventano più precisi e circostanziati:
è sin troppo trasparente che la distinzione tra ciclo sintomatico
e ciclo simbolico, cui fa riferimento introducendo la mostra con
cui nel 1950 Capogrossi presenta la sua nuova produzione astratta
(e nel 1962 impiegata anche per rileggere l'itinerario di Sironi)22
è meditata innanzitutto sul proprio percorso artistico. L:adozione
dei termini di archetipo e di inconscio collettivo e le stesse citazioni
da Jung apposte ad apertura di alcuni testi diventano così
uno strumento fondamentale per comprendere la complessità
dell'operazione intrapresa da Cagli. Come è noto, infatti,
secondo Jung gli archetipi svolgono una essenziale funzione di ricomposizione
dinamica tra la natura notturna e indifferenziata dell'inconscio
e la differenziazione diurna operata dalla coscienza; il loro carattere
è mobile, intrinsecamente metamorfico e inesauribile all'indagine
conoscitiva. La fantasia mitopoetica - e l'arte nella sua antica
funzione sociale - dispiega l'immaginazione simbolica dando senso
e figura al movimento altrimenti sordo e oscuro della psiche. Se
la perdita dell'archetipo comporta un impoverimento della coscienza,
tanto più pericoloso poiché la civiltà che
rinunzia alla componente inconscia si espone al suo distruttivo
e incontrollabile ritorno, compito storico dell'arte è dunque
di ricuperarne la posizione mediatrice: non con un moto regressivo
- ed è questo che Cagli imputa implicitamente ad alcune direttrici
delle avanguardie più recenti - ma mediante un controllo
del metodo e delle finalità. Le problematiche non sono difformi
da quelle del periodo anteguerra: differenti sono comunque i modi
della ricerca come anche la consapevolezza critica, definitivamente
liberata dai lacci che imbrigliavano la tematica del primordio nell'ambiguità
del dibattito culturale degli anni Trenta. "Colui che parla
con immagini primordiali è come se parlasse con mille voci",
scrive Jung nel 1922 in un passo che Cagli utilizza nella presentazione
alla citata mostra di Sironi; e nelle mille voci che Cagli modula
dagli anni Cinquanta in poi, il dato iconografico, la padronanza
dei mezzi delle moderne tecnologie - come il colore industriale
spruzzato dall'aerografo - e di procedimenti tradizionali pur desueti
come l'arazzo, l'intreccio e la continuità di materiali antichi
e nuovi, la reinvenzione di antichissime forme e repertori rappresentano
i momenti correlati di un unico progetto che ha per posta la convinzione
umanistica di un accordo tra tutte le diverse sfere dell'operare
umano: quella tecnica non meno che quella intellettuale e simbolica.
Alla fine degli anni Quaranta, la serie dei Tarocchi costituisce
il primo momento dì una rivisitazione della imagerie popolare
che pochi anni più tardi sfocerà nel ricchissimo caleidoscopio
dedicato alla maschera di Arlecchino. Condotte secondo un forte
telaio grafico che ricorda il segno rigido della xilografia, le
figure dei Tarocchi - il Bagatto e l'imperatore, la Morte e la Ruota
della Fortuna - sono ugualmente organizzate da un sistema di incastri
di matrice cubista che salda sfondo e primo piano in un continuo
processo di scomposizione e ricomposizione dell'immagine: un movimento
ininterrotto che riconduce alla superficie dal fondale dei tempi
il sostrato archetipo dei personaggi, rivelando per esempio, nell'angolosa
oscillazione rotatoria della Ruota della fortuna l'archetipo solare,
o assimilando la falce della Morte ad un aratro impegnato a smuovere
il terreno riportando alla luce gli sparsi frammenti delle civiltà
passate. In questo senso, non fa differenza che i reperti appartengano
alla tradizione dell'Occidente o siano invece patrimonio delle società
dell'Africa o dell'Oceania: quando agli inizi degli anni Cinquanta,
e poi soprattutto nella parte centrale del decennio, Cagli si rivolge
ai temi e simboli totemici, accostandosi inizialmente alla misteriosa
sospensione evocativa di alcune opere di Klee (come in Anabasi o
nella Flotta Arunta, rispettivamente dei 1950 e dei 1951) il suo
atteggiamento è sostanzialmente diverso dal quel primitivismo
che aveva prestato alle avanguardie storiche la propria potente
cadenza barbarica. La questione centrale, infatti, non è
più quella di attingere direttamente alle fonti una grammatica
svincolata dal naturalismo e dalla mimesi percettiva, come era stato,
ad esempio, per il cubismo, né di ridare fiato ad un esotismo
di maniera; quanto, semmai, di riconoscere l'universalità
simbolica di quegli emblemi, e come essi appartengano, in quanto
archetipi, ad un retaggio comune e profondo della psiche. Disposte
in una iterazione frontale che ha il suo immediato precedente nella
sequenza araldica della Levata di scudi (1 95 1), le maschere tribali
del Compianto di Batu Batu o di Lungo il Lungue Bungo (entrambi
del 1954) scandiscono così la perseveranza di un tempo remoto,
emergendo dalla filigrana del fondo in una continuità segnica
che sembra già prevedere la trasposizione in arazzo. Subito
dopo - in Eden, Flotta Arunta o Approdo Arunta, tutti del 1957 -
quelle figure totemiche assumeranno un profilo più astratto,
quasi di ipotetica scrittura geroglifica che investa i segni della
decorazione della sua originaria sostanza animistica, ritmando la
superficie del dipinto quasi senza peso, come materializzate da
un lungo viaggio ipnotico. Nonostante la prossimità di queste
opere con alcune declinazioni degli esponenti storici del surrealismo
- Max Ernst su tutti, anche per quella filiazione del frottage che
sono le impronte ottenute direttamente premendo sulla tela l'oggetto
imbevuto di colore, o indirettamente spruzzando la vernice con l'aerografo
- la ricerca di Cagli muove comunque da premesse diverse: sia perché
nulla è lasciato all'alea dell'automatismo; sia perché
- ed è una ragione più sostanziale ciò che
la pittura in questo modo rivela non è l'inquietudine individuale
dinanzi alla rimozione svelata della dinamica di colpa e desiderio,
ma l'orizzonte salvifico dell'immaginazione archetipa. Simili ad
una apparizione, nitide come solo nell'estasi allucinatoria, quel
decantato regno di emblemi ha dunque attraversato le ere, ripresentandosi,
intatto e intangibile, alla coscienza che l'aveva generato. "Nel
nostro tempo - ha scritto Cagli esplicitando sia questa tematica
sia la funzionalità dei procedimento tecnico - è avvenuta
l'inversione del moto creativo, nella cronologia stessa dei momenti
nei processi tecnologici, e l'immagine può risorgere dall'oblio,
sia essa individuale o ancestrale, andando, per intenderci, a ritroso,
come se Spinello fosse andato dal colore alla sinopia".
Era probabilmente necessario e inevitabile che questa ricerca di
un patrimonio simbolico infinitamente esteso, sia orizzontalmente
che verticalmente, conducesse nuovamente Cagli a confrontarsi direttamente
con il mito classico. Il racconto delle Metamorfosi di Ovidio offriva
in questo senso una verifica preziosa: testo poetico riassuntivo
di quella reversibilità dall'animato all'inanimato e di quella
contaminazione continua tra gli stadi della natura proprie della
fantasticheria filosofica dei mondo antico, le Metamorfosi costituivano
ugualmente il pretesto per riannodare il dialogo iconografico con
la storia dell'arte, che a partire soprattutto dal secondo Cinquecento
aveva eletto il poema ovidiano a esemplare raccolta di spunti e
suggestioni per i temi mitologici. Un doppio gioco di specchi dunque,
e anzi triplo, se si considera che proprio la grande civiltà
d'immagini dei manierismo e del barocco aveva provato - con Bernini
certo, ma non soltanto - la capacità delle tecniche e dei
materiali a suggerire, con un virtuosistico gioco di abilità,
l'attimo inafferrabile della trasmutazione. Inizialmente, l'allestimento
del Tancredi di Rossini per la XV edizione del Maggio fiorentino
dei 1952 - il primo in Italia, dopo le esperienze americane - offre
a Cagli l'occasione di riproporre nella diversa chiave della dinamica
teatrale di spazio e tempo, che aveva già rappresentato un
fecondo momento di sperimentazione delle avanguardie storiche, quel
tema dell'unità delle arti su cui si era ripetutamente soffermata
la sua riflessione polemica durante gli anni Trenta. Trasfigurati
in ambiente della fiaba e dell'idillio, nei fondali del Tancredi
confluiscono in particolare quei motivi legati alla fantasia delle
piante e dei bosco che avevano assunto la sostanza della visione
onirica nella serie dedicata ai Boschi del Lemery (1950), ottenuta
con il metodo delle impronte dirette: nel grande velario di coaguli
e trasparenze di colore veniva così a rinnovarsi l'antichissima
simbologia dell'albero, arcana presenza sacra per la cui crescita
si congiungono in un rito circolare i quattro elementi. Non a caso
nel ciclo delle Metamorfosi (concentrato in particolare nel 1957;
ma le prime prove seguono immediatamente l'allestimento fiorentino)
il mito centrale e più volte rappresentato è quello
di Apollo e Dafne, l'episodio cioè in cui il tema della rinascita
metamorfica si accompagna allo struggimento e al rimpianto; e il
prodigio tecnico che a Bernini era servito per fermare l'istante
fatale della fanciulla braccata da Apollo, e per trasformare il
marmo in rocce, e fronde e carne, qui conduce invece lo spettatore
nel gorgo perenne di quel mutamento. Senza sgomento, come sciogliendo
la contrazione drammatica del racconto nella contemplazione di un
evento sempre identico e senza tempo: una concezione classica e
quasi pagana dell'evento mitico, pronta a riconoscere nel prendere
forma delle immagini il fluire continuo della psiche e il loro compito
rigeneratore. Così, nelle diverse versioni di Apollo e di
Marsia o nel ritratto congetturale di Ovidio, l'elemento arboreo
che cinge il capo del dio o del poeta, assorbendone i lineamenti
nel viluppo di foglie e di fronde diviene il contrassegno della
metamorfosi; e quando più tardi, negli anni Settanta, questa
poetica di ombre, di echi e risonanze sarà tradotta in arazzo
- per Guerrieri per esempio, o per il sipario del Tancredi, o ancora
nel Narciso già pronto a lasciarsi sciogliere nell'abbraccio
di acque e piante - la dimensione fiabesca assumerà la cadenza
di un rituale solenne.
Nonostante insistano su versanti apparentemente distanti e quasi
opposti - figurazione e astrazione, iconografia e aniconismo - alla
fine degli anni Cinquanta le Carte rappresentano lo sviluppo e il
polo complementare delle Metamorfosi. Non soltanto perché
le figure del mito greco ricorrono spesso nei titoli - Gea, Enigma
di Febo - alternati, come del resto sin dagli anni Trenta, ai nomi
dei testi biblici - Genesi, Salomone re - come a unire in un solo
nodo di racconto primordiale la congerie fantastica; ma anche perché
le Carte conducono a un vortice vertiginoso quella riflessione sulle
tecniche e sul linguaggio che nelle Metamorfosi aveva trovato nella
natura fluida della mitologia greca la materia in cui risolvere
la propria intrinseca ambivalenza, quell'oscillazione continua tra
memoria, apparenza sensibile e concetto in cui vive la pregnanza
della forma simbolica. Dal punto di vista del processo esecutivo,
le Carte sono infatti uno stupefacente trompe l'oeil dove la materia
- con le sue pieghe e avvallamenti, le increspature, i riflessi
taglienti della luce e le ombre portate - sono simulate dalla pittura:
quasi un omaggio alla pratica della tradizione manierista e barocca
che fingeva le sostanze più disparate per accampare la spettacolare
abilità mimetica dell'artificio in gara con la multiforme
realtà naturale; rovesciando come per forza di paradosso
le posizioni dell'informale, Cagli avverte insomma che l'esperienza
materica non può che essere, ancora una volta, cosa mentale,
metamorfosi della materia in immagine e viceversa. Nella ancestrale
geologia di quei paesaggi originatisi per sommovimenti tellurici,
nei bagliori metallici che animano la superficie come indizi di
un senso riposto e immanente, il silenzio cosmico e lontanissimo
lascia così levitare una filigrana figurativa che contiene,
in potenza, tutti i miti e i racconti così come la stesura
monocroma contiene tutti colori: il potente incombere rotatorio
del sole nell'Enigma di Febo, il corpo femminile di Gea sagomato
nella carta dipinta come una pietra modellata nei millenni dall'acqua
e dal vento; come a dar corso finale e definitivo agli orizzonti
indicati anni prima da Bontempelli, quando scriveva - e sembra veramente
una epigrafe a tutta l'opera di Cagli che occorre essere "istintivi
per riflessione, impulsivi per volontà, barbari per suprema
raffinatezza".
Un procedere per ossimori, che probabilmente appariva a Cagli l'unica
strada per infrangere le cristallizzazioni che precludevano l'accesso
al dominio mutante dell'archetipo del quale il lavoro dell'artista
può fornire soltanto la mappa di un ricalco tenace e provvisorio
che ne segua con un tessuto fitto profili e contorni, sedimentazioni,
vuoti e addensamenti: un frottage della psiche capace di innervarsi
nelle regioni altrimenti dimenticate dove spazio e tempo si congiungono.
"Nessuno sa della psiche - ha scritto Cagli nel 1956 presentando
una mostra di Gastone Novelli, e poi ripetendo le stesse parole
in un testo del 1959 - se non il perimetro di un impenetrabile labirinto
ove, tuttavia, i processi associativi sondano e traggono da una
illimitata congerie, argomenti, vocaboli, forme, sensazioni, al
fine di comunicare e esprimere". Quel perimetro labirintico,
che è insieme oggetto e metodo dell'indagine dell'artista,
diviene così alla fine degli anni Cinquanta quasi una sigla
formale del suo lavoro: dapprima riprendendo l'andamento a spirale
del nastro di Moebius già utilizzato in alcune opere degli
anni Quaranta (ad esempio nei Dioscuri del 1947) nelle piccole sculture
di cartone colorato o smaltato in cui, seguendo percorsi parabolici,
le curvature sinuose si saldano in maschere elusive, in strutture
araldiche e totemiche dove i tasselli policromi riprendono le scansioni
ritmiche e le strutture aperte dei Motivi cellulari; subito dopo
trasponendo gli stessi elementi nella materia del bronzo, così
da sviluppare nel sistema di incastri e avvolgimenti la continua
tessitura di luce monocroma delle Carte. Una galleria straordinariamente
mobile di ritratti, una variazione ininterrotta sul motivo della
maschera dove la fissità dell'idolo antico è sottoposta,
nella catena di permutazioni che lega un'opera all'altra, ancora
una volta al principio della metamorfosi: decantando, nel gioco
di travestimenti che svela e occulta l'identità inflessibile
del dio, una essenza sottilmente melanconica, la cifra consapevole
del proprio irrisolvibile enigma.
Ancora più tardi, alla fine degli anni Sessanta, Cagli si
servirà di analoghe strutture labirintiche per ulteriori
svolgimenti dei principi di quarta dimensione, assimilando nell'addensarsi
e diradarsi del reticolo spugnoso in bianco e nero alcune ricerche
analitiche proprie all'op art. Ma è soprattutto nella serie
delle Siciliane, realizzate tra il 1962 e il 1965, che il tema del
labirinto si esplicita definitivamente nel tratto continuo del segno
che, nel suo procedere per circonvoluzioni - come nei labirinti
effigiati nelle monete di Cnosso - origina e sommerge senza pause
la memoria mitica del mediterraneo: efflorescenze arboree e coralli,
occhi e pesci, motivi decorativi a meandri, a greca e a tridente,
una coloratissima e felice ebbrezza panica che abbraccia e riepiloga
divinità e paesaggi. L'ultima smagliante immagine di metamorfosi
scioglie così nel divenire fluido della linea ogni residua
resistenza concettuale del simbolo, ogni diaframma tra interiorità
e apparizione fenomenica: le mille voci del canto corale, ciclico
e polifonico che trent'anni prima Cagli aveva indicato come la promessa
dell'arte di questo secolo.
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