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Il teatro
Miti
a Taormina
a
cura di Angelo Calabrese
Per
la mediterranea, Taormina, s'eleva da un Eden senza tramonto che,
nel sorriso congiunto della natura fertile e del cielo azzurro di
speranza, accende la vitale fantasia e ripristina un universo magico
e primitivo, armonico alla natura umana.
L'approdo a questa terra amica e fascinosa coincide sempre con un
senso di libertà cui persuade un oracolo senza enigmi, forte
a placare i recenti dissidi con la medesima solidarietà con
cui fu prodigo di consolazione alle angosce d'uomini antichissimi.
La loro vicenda è trama d'onde e venti, ma la parola perduta
s'è fatta memoria di riti custoditi in vertigini di rocce,
in mormorio di fonti e passioni implacabili di fiumi: brilla l'eterna
giovinezza di quei miti che da lontane plaghe cercarono la solare
Sicilia e alle sue Muse affidarono un panteon di forze oscure ed
elementari o l'evoluta consapevolezza delle misure armoniche di
bellezza e sapienza.
Le Muse siciliane, alate nel canto e dotte senza confronti nei temi
universali, hanno consacrato a Taormina ogni mito audace a navigare.
Alla città che Leonardo Vigo esalta "del mare a specchio
su l'aeree cime/dei monti ... " hanno chiarito il destino d'ogni
umana costruzione e soprattutto che la vita è il valore e
la moralità. Un ponte ideale raccorda Creta e la Sicilia.
La culla di Giove, nell'alba degli dei riscattò la vita dal
tempo informe e inesorabile, da Saturno che ingoiava tutti i suoi
figli.
Nel nuovo patto divino, l'armonia dell'Olimpo volle altra culla
per custodire nei secoli dei secoli le storie leggendarie fatidicamente
esposte all'arco declino. Perciò Nettuno vibrò il
possente colpo del suo tridente e custodì nel giro del suo
elemento l'isola che ancora oggi rinnova il sangue e le voci delle
divinità senza crepuscolo: tutta la storia della Sicilia
fu sigillata poi nel giocondo sorriso di Taormina.
Prima ancora di essere città e di mirare i ruderi segnati
dalle vicende di varie invasioni, conobbe Encelado, i Ciclopi, Aci
e Galatea, Polifemo e Proserpina.
Fu testimone delle leggendarie metamorfosi che consacrarono alla
vita mutata tante esigenze precarie, offese da avversi numi.
Vide il trionfo dell'amore di Alfeo e Aretusa, il pianto desolato
di Cerere, Dafni, figlio di Mercurio, i gemelli nati da Giove e
Talia, Afrodite festosa, Apollo fervido e solare, Dedalo architetto,
Aristeo cultore di Cerere. Avvertì tutto il dramma di Ercole,
segnacolo di civiltà e la solitudine di Orfeo consacrato
alla sua unica amata; con l'occhio sereno vide la nave di Ulisse
fuggire prima i Ciclopi e poi l'implacabile Nettuno. Nel corso dei
millenni tutto apprese e si stupì all'umiltà dei neofiti,
fervidi di pietas nel venerare i misteri di ogni culto importato
dalle civiltà che si susseguivano. C'erano stati gli abitanti
delle caverne, gli Itali, i Sicani, i Sicheli, i Fenici; poi venne
Teocle e fondò Nasso, fiorente per cinque secoli. La civiltà
micenea aprì la strada ai Dori, agli Ioni, agli Achei che
consolidarono il loro potere combattendo contro i Persiani e i Cartaginesi.
Sopravvennero i Romani e ancora gli Arabi, i Normanni, gli Svevi,
gli Angioini, gli Aragonesi, i Castigliani. La ruota precipita delle
sorti umane volle altre dominazioni: gli Austriaci, gli Spagnoli,
i viceré, l'Inquisizione, i pirati, i sovrani che si autogratificarono
con il fasto dei monumenti superbi e dovettero reprimere le rivolte
con cui il popolo rispose all'oppressione. Non è certo il
caso di ricordare qui la storia della Sicilia fino all'unità
d'Italia; è invece importante ricordare che Taormina sorse
quando tramontò l'astro di Nasso, intorno al 403 a.Ch. Fu
città sicula, ma il suo splendore brillò sotto il
dominio dei Greci e dei Romani. I Saraceni dovettero fare i conti
con la sua difesa strenua, perciò si vendicarono distruggendola
e trucidando tutti gli abitanti. La riedificò il califfo
Almoez, ma subì poi altri saccheggi, divenne un luogo di
difesa per tornare ad essere città durante la conquista normanna
nel 1080. La sua storia, dunque, è greca, gotica, normanna,
come attestano i monumenti, spesso riedificati sulle rovine di antichi
templi, come quello di Minerva che sorgeva dove oggi è eretto
Palazzo Corvaia. I ruderi antichi di Taormina, le bifore a sesto
acuto del palazzo del duca di Santo Stefano con il famoso balcone
di lava, il palazzo Ciampoli, dicono mille vicende, ma ancora di
più testimoniano come il sovrapporsi di nuovi credi alle
smunte ideologie non valsero a far perdere il senso inequivocabile
del mito dei primordi.
La sua funzione sempreverde, mentre connota l'evento esemplare ed
affascina chi tenta l'interpretazione attualizzata, nello stesso
tempo ride, abbaglia e fa ambigue le deboli congetture e le tentazioni
filologiche. Ecco una moneta cretese, vi è effigiato il Minotauro
in corsa: forma una svastica articolando gli arti e le membra. Il
corpo robustissimo di atleta inimitabile contrasta con la testa
del toro che rende mostruose le armoniche fattezze e riporta il
pensiero alla crudele talassocrazia il cui strapotere era sancito
dalla celebrazione di riti funesti. Sul verso della moneta è
impressa la "svastica" di un labirinto dedaleo, perfettamente
connotato con allusione al corno caro ai Cretesi.
Le immagini riportano alla mente Taormina effigiata come splendida
vergine fino al busto e per il resto connotata dalle sembianze taurine.
Quante fantasie sorgono al confronto delle due immagini: il Minotauro
trova in Taormina la sua perfetta simmetria, il loro incontro riscatta
due nature, Dedalo è signore della sua libertà, Icaro
non è destinato a tentare il volo fatale sulle ali cerate.
Ma la ragione torna a Thor, a tutte le località che ne ricordano
il culto e attestano il passaggio dei normanni.
Il gioco a questo punto non è più interessante, altre
sono le strade da tentare per discernere, tra storia e leggenda,
l'origine e il nome d'una città che meglio si canta celebrando
con il sommo Giove, la culla della nostra gente, il culto di Cibele,
i coribanti, citando il III libro dell'Eneide. A noi congiungere
Creta e Taormina, ricordando il XIX libro 'Odissea dove tra gli
abitanti dell'isola del corno si nominano gli Achei, i Dori in tre
divisi, e Minosse che ogni e anni era ammesso ai misteri del Tonante.
E quanto è bella la favola di due creature che varcano l'aria
mare per incontrarsi e rendersi giustizia, senza interventi divinità
offese, senza stragi e sacrifici. E senza scandagli cuore vinto
d'amore: povera Arianna delusa da Teseo e abbandonata a Nasso...
E ricorre anche questo nome nella al cui tramonto sorse l'astro
di Taormina, tornano fusi miti e pensieri, sorrisi ambigui di sfingi
che vittimizi più scaltri Edipi e trionfa il mistero.
La Diche eschilea segna il confine tra gli uomini e gli dei e o
rivolto al teatro di Taormina mira gli spettatori della Orestea.
In quel teatro Eschilo ci fu davvero e la sua poesia fece osi gli
uomini di allora, proprio come noi che sentiamo profondo ogni mito
intramontabile e inesorabilmente allusivo alla condizione umana.
Sappiamo bene che ogni tempo deve avere un mito, un punto di riferimento
che possa alla società organizzata un etos del trascendimento
in valore e specialmente alle svolte epocali.
Allora si avverte il senso dell'apocalisse e ogni cultura ha la
sua: vacilla il sentimento, la presenza è in crisi, si ripropone
il problema dell'esserci, della partecipazione e della funzione
a storia quotidiana e la ragione esperta si scontra con la magia.
Alle svolte epocali devono corrispondere miti emergenti, nuovi nelle
spoglie e primordiali con il sapore delle forti ci e della dignità
che sostanze ogni fatto umano. C'è il tempo degli dei, quello
degli eroi, quello degli uomini, ma sempre nell'apocalisse culturale
si respira il primordio. Corrado Cagli che di Taormina ha fatto
patria d'elezione rende alla sua ispiratrice nel decennale della.sua
morte: è mito egli stesso, sempreverde e vigoroso nel sorriso
arte che s'inchina alla bellezza mediterranea e la onora la sua
creatività in cui s'esaltano sapienza, armonia, vocazione
orfica.
Cagli s'incanta al Primordio, ai miti naturali che si rigenerano
nelle metafore e sono indigeni di quel villaggio nella memoria che
ogni uomo custodisce per essere grande sulla tradizione e farsi
poi baluardo per la coscienza civile. Cagli riporta i miti a Taormina:
le offre quelle immagini se che sentì e comunicò in
gioventù, interpretando le remote origini di Roma.
Erano tempi in cui il Maestro con il suo arcaismo suggestivo riconnotava
eterne allegorie e le adeguava agli spazi che gridavano in difesa
della umanità. Creava miti e metafore sul antichissimo di
radici ideali e celebrava Teseo emerso tenebre del labirinto, con
l'occhio chiaro e volitivo, con la pacata coscienza d'essere esempio
di libertà dopo aver atterrato un mostro, generato come sempre
dal sonno della ragione. Il monito è palese: tutto ciò
che generosamente si tenta in nome dell'umanità è
realizzabile.
Cagli ricorda e celebra Orfeo e la sua vocazione che è insieme
dono impareggiabile e sofferenza senza confronti. Da artista precocissimo
e capo carismatico aveva affrontato con il timone e la vela della
sua cultura, l'avventura del riscatto dell'arte e come Ulisse aveva
navigato al mito, al primordio, audacemente affrontando i labirinti
della psiche.
Vi aveva incontrato Orfeo cantore di introiezioni e proiezioni,
capace di commuovere i bruti e far sentire la passione del mondo,
l'irrevocabile presente. La realtà e l'ideale, la drammaticità
caotica e l'armonia lontana e vera sogno d'un mito, si scontrarono
e coincisero in Cagli nato sotto il segno dei Pesci.
E celebrò Edipo, il destino che lo volle espiatore di colpe
vaticinate, padre infelicissimo di figli nati all'odio inestinguibile
ed alla condanna a morte per un gesto pietoso. Trepidò con
i neofiti, giovani fiorenti, sicuri, maestosi nell'umiltà
e purificati nel gesto sacrale segno del viaggio concluso. Tornano
spesso i neofiti nell'arte di Cagli sono i novelli rami sul tronco
millenario, son voci di speranza acquisita nell'immersione sacrale.
Cagli li riporta a Taormina come pure vi riconduce Ulisse, generoso
acquisitore di virtù e conoscenza, le "Chimere",
larve d'orrore e strane metamorfosi, "Bacco" eternamente
giovane, "I Pescatori" che parlano con voci teocritee
e pindariche.
Tutte presenze che vengono dalle lontane plaghe del mito e si identificano
con le creature recenti di cui sono archetipi.
Il Maestro gioisce inventando allegorie e metamorfosi: sempre nei
labirinti della psiche trova le fonti metafisiche del suo riplasmare
i materiali e fingere tangibili le illusioni.
Attinse a quel patrimonio interiore quando i suoi appunti di pittore
soldato di libertà si fecero tappe d'orrori e documenti di
eccessi da dimenticare. Troppe le vittime dei campi di sterminio,
troppe le larve superstiti della fame e delle torture subite in
nome dell'idolatrato orgoglio di razza superiore. Dopo la estenuante
marcia durata un tempo interminabile dallo sbarco in Normandia fino
all'ingresso a Lipsia, Cagli sogna e rivive il mondo della sua cultura.
Ritrova l'allegoria, la tradizione, il sogno di pace e il culto
delle muse siciliane alle quali chiede ispirazione per cantare con
i colori "paulo maiora". Le immagini diventano metamorfiche
all'incontro con la matematica e la geometria di Donchian e Moebus:
si sposano felicemente razionalità e magia, inderogabilità
formale e ambiguità dei fatti umani: eccoli i nuovi miti
per le nuove esigenze, nascono "Il malgoverno", "La
veglia e il sonno", "Teatro tragico", per dire il
presente con il cuore antico e la saggezza dei classici. Cagli diventa
metafisico, precedendo tutti, come al solito, perché era
già stato forte nel realismo, perché bisognava rinnovare
gli uomini e ricondurli a quel patrimonio che appartiene a tutta
l'umanità. Non fu metafisico per nostalgia di miti, bensì
per inventarne nuovi e parlare col cuore antico al futuro che esige
la lingua più aggiornata. "Icaro" neometafisico,
"La nascita ", " Il tumulto ", " Troubadours
", vivono in una quarta dimensione, equilibrati dai ritmi matematici,
ma fatti metamorfici per nuove possenti allegorie in cui la rivolta
e la connessione di fatti e oggetti, di volumi e fantasie elevate
a musica, si dovevano concretizzare in tempi plastici e potevano
parlare agli uomini che tra poco avrebbero sognato e visitato la
luna.
Per le nuove generazioni uscite dal tunnel bellico e confuse da
miste ideologie, non era certo più consono il segno unitario
che aveva caratterizzato il Cagli romano, interprete dei "Dioscuri",
dei "Maratoneti" del "Dialogo", della "Scuola
di Atene", della "Maga Circe", di "Teseo",
di "Sotto il segno del toro", "Paestum", "Polifemo",
"Orfeo che incanta le belve", "Laocoonte" e
di tante stupefacenti allegorie.
Il Maestro proteiforme riprende il suo viaggio con altri strumenti:
i suoi miti hanno altri tuffi e voli; li cerca nel suo profondo
e nei respiri galattici: li canta per altri atleti, per altri giovani
speranze, per nuove stagioni di neofiti e pellegrini. Miti comunque,
sempre, quelli che acquistano colore, forma, volume, metamorfosi,
intreccio, vaghezza di mistero e sempre attinti al "villaggio
nella memoria", alla fonte d'una cultura di umanità
che Taormina ritrova nel suo seno. Cagli le riporta i suoi figli
cresciuti. Solo così non sentono il peso del tempo e delle
incursioni barbariche. I miti devono crescere, attualizzarsi, non
consentire che la cristallizzazione li faccia dimenticare e sostituire
con altre ideologie meno esperte di humanitas. Comunque la matrice
di Cagli metafisico, del cantore di altre arcadie, più tumultuose
nei loro musicali dinamismi e proiezioni silenti, è già
nella ricerca del primordio e nella poetica della scuola romana.
Molte scene mitologiche, le allusioni alle Muse, sono già
principio di evoluzione. Cagli umanista tenne sempre l'occhio ed
il cuore attenti al mito: non erano forse miti eterni i grandi personaggi
che egli interpretò connotandoli nei caratteri fisici e nella
psicologia desunti dalla perfetta conoscenza delle loro opere? Sono
miti eterni Leopardi, Lorenzo il Magnifico, Colleoni, Ovidio e i
rinascimentali tanto cari al Maestro proprio per la forte tempra
classica.
A quella non rinunciò mai anche quando la febbre esplorativa
e l'estro creativo gli fecero cercare altre verità nelle
impronte e nella riconnotazione di materiali poveri: altre metamorfosi,
altri miti; sempre la medesima favola bella che illuse Edipo e che
illude il "Matto dei tarocchi". Sono miti di sempre la
sofferenza e il dolore dei poveri e degli emarginati: non era mutata
la realtà sotto gli occhi del pittore che sognava altri sviluppi
sociali ed i mostri, le chimere erano sempre in agguato. Forse da
quell'impatto fuggì verso il panteon e la magia polinesiana
il cuore di Cagli. Articolò trame ed impronte e lesse figure
emblematiche e vorticose, moti ottici, magie astratte e sorprendenti
metamorfosi straniere. Ne fu affascinato, ma subito riprese i suoi
miti e cantò Ovidio di Apollo e Dafne, respirando di nuovo
l'alta poesia di Omero e i primordi cari a Taormina. Le "Carte"
furono il risultato di un potenziamento delle possibilità
magiche del Maestro. Giocò con la materia e la rese duttile
a narrare visioni impossibili, prodigiose, trasferite sul supporto
come meccanismi mentali e iconografie della memoria: sempre gli
archetipi e la loro eterna giovinezza. Perciò mito e fantasia,
canti mediterranei, realtà d'isola, ombre epiche, animano
tutta l'opera di Cagli: la sua materia è immortale.
L'ha intuita sperimentata, fatta nuova per indicare la via e il
mezzo, per parlare all'umanità con la voce che lievita la
crescita civile e conferisce un senso alla vita. Taormina ritrova
i suoi miti, sa bene che la crescita umana è irrinunciabile,
sa pure che tutto torna sotto mutate spoglie di nomi e forme. Con
Cagli ammonisce a sentire le radici inventando dei miti per diradare
gli spettri del nulla.
Alla morte si sfugge con la vitalità della metamorfosi e
con l'etica della vita. Bene lo appresero i primi felici cultori
dell'isola cara a Nettuno, quando nel colloquio con le forze naturali
seppero resistere con il loro coraggio e furono mito essi stessi:
sognavano di essere uomini, ma erano dei, destinati a perenne giovinezza,
proprio come l'arte somma di Corrado Cagli.
L'eterna giovinezza di Corrado Cagli
Corrado
Cagli è un genio.
E' una di quelle rare creature che dalla Sapienza hanno avuto il
dono di svelare i segreti dell'Io infinito e di attingere a piene
mani a quei tesori inaccessibili dei quali si confermano degni solo
i predestinati.
E non per fatale arbitrio.
Il genio, immenso in sintonia con la sua ansia di conoscenza, ha
il compito di elargire la sua umanità illuminata e farsi
fonte vitale per tutti coloro che chiedono di veder chiaro nei suoi
occhi e nella sua opera.
Insomma deve farsi mediatore di tutte quelle verità che lo
hanno atteso tra i sentieri più impervi della sua ricerca
e riconoscendo i meriti del grande amore e della costante altezza
del pensiero gli si sono rivelate, conferendogli ulteriori possibilità
di celebrare l'umano.
Non è un segreto che l'opera d'arte cresca con la fruizione
e impegni una comunicazione sempre più elevata, ma con Cagli
la celebrazione del mistero e della grandezza del divino
nell'uomo è eccezionale: la profondità dei suoi temi
si intona ai ritmi perpetui di un pensiero che si interna e si fortifica
per chiarirsi sempre alla preziosità dei fatti elementari
e alle più misteriose risonanze di quella vitalità
che assicura un futuro di speranze.
La visione del saggio dimensione desideri e tempeste terrene in
un universo dove l'immaginazione li placa solo in quella immaterialità
luminosa nella quale finalmente si attinge la bellezza.
E non a tutti gli artisti è dato di vagheggiare quell'approdo
e conoscerlo in tutta la sua traboccante naturalità.
Non a caso all'impatto con l'opera di Cagli se ne avverte il sublime
respiro ancora prima di tentare uno scandaglio in quelle multiformi
realizzazioni il cui comune sostrato è la sacralità:
immediatamente si percepisce la solennità di un cantico che
coniuga il senso del divino nell'universo umano.
Si recepisce la pietas per la fragilità delle creature, l'orgoglio
del loro essere vivi nella libertà della crescita culturale,
la certezza che la spirale dell'universo, dal suo intimo infinito
svetta con un mistero profondo quanto quello della psiche con tutti
i meandri del suo labirinto.
L'incontro ha lo stupore del miracolo.
Cagli ha nelle vene lo stesso vigore di quella natura che, nell'ordine
e nella bellezza, testimoniava a Francesco d'Assisi l'amore di Dio
e, nella ragione elevata all'estasi, lo faceva vibrare di gratitudine
tanto da comporre un cantico mirabile per la semplicità con
cui si interpreta la più ineffabile delle architetture.
Corrado Cagli respira in sintonia con tutte le forze che nella natura
deflagrano istintive.
Dalla primordialità dei loro moti stacca però il discorso
dell'uomo che vive proteso al futuro: la sua umanità è
il segreto della storia, o meglio ancora è la sostanza che
permette alla storia di avere un senso.
Pertanto lo scenario naturale fa da sfondo all'alta drammaturgia
nella quale egli esemplifica tutta l'umana vicenda, pervenendo alle
realizzazioni di quella saggezza che si apprezza sia per i contenuti
della scienza rigorosamente vagliata e sperimentata, sia per la
libertà fantastica che si giustifica proprio sulla scorta
della consistenza culturale.
Nessun'altra figura di artista italiano del nostro secolo può
reggere al confronto con Cagli proprio per l'universo delle intuizioni
superiori e la profondità del suo pensiero.
Egli impronta un secolo e va oltre, sbalordendoci per la ricchezza
intuitiva che già permea le opere giovanili e si imporrà
poi nelle polifonie delle varie tappe della crescita interiore.
Un grande spirito la sublima proprio nella pratica di vita per cui
un ingegno multiforme si libra sulle ali salde solo se si è
fatto esperto operando con, per e tra gli uomini.
Cagli interpreta la bellezza.
Pochi geni vi attingono: Dante, Manzoni, Corrado Cagli, una schiera
esigua di iniziati, pieni di quella natura francescana alla quale
abbiamo alluso e che genera continui stupori giustificando la nobiltà
dell'esistenza.
Pochi spiriti intuiscono ed approfondiscono, fino a contemplarla,
la formidabile architettura nella quale "il geometra"
si muove con la sua logica rigorosa per conoscersi sancire limiti
e dimensioni.
Sa però che deve poi varcarli alla luce di un'altra claritas
alla quale si perviene con gli occhi della mente e con l'elevazione
di quelle forze che ogni giorno esigono il superamento di noi stessi
per rigenerarci ad una vita perennemente rinnovata.
Si nasce così ogni qualvolta si esce dalle angustie razionali
quando all'apice della ricerca, si innalzano i sentimenti che al
loro acme, perdono la individualità che li esemplifica e
s universalizzano in una astrazione che si riformula nella sapienza.
A quel punto l'uomo diventa di aiuto all'uomo e il genio s fa umile
con gli altri di fronte alla sua stessa opera che lo supera perché
rappresenta l'umanità di cui egli fa parte.
Non è difficile dimostrare che Cagli attinga alla bellezza.
L'arte materializza dei sentimenti: si serve di immagini simboli,
segni, sogni, progetti, racconti, relazioni impegnate e con l'impeto
della ricerca creativa, con il rigore dell'ingegno, esige palpitare
con un brano d'armonia.
Talvolta il pudore dell'uomo di parte e l'eccesso ideologico disprezzano
i contenuti poetici, perciò certe partenze, rinunciatarie
nelle premesse rivelano, quando l'opera è conclusa quelle
mutilazioni che si palesano come tenebre della ragione o emblemi
di desideri inappagati.
I non felici epiloghi delle denuncie del realismo pseudo naturalistico
e delle concrete tautologiche astrazioni, rivelano appunto la corsa
delusa verso il desiderio rimasto tale.
Senza Cagli il nostro secolo avrebbe nell'arte sognato la bellezza
solo come una forza in-generosa che si rifiuta d colmare il vuoto
delle umane necessità.
E' il rischio più grave degli epigoni di questo nostro illuminismo
del Duemila che recupera, riscopre, rivaluta risignifica con l'improntitudine
del rigattiere e dell'improvvisato archeologo.
Infatti si rispolvera il reperto e lo si propone senza adeguata
interpretazione.
E' il risultato di chi pretende di far arte senza pensiero e con
il vuoto che deriva dalla mancanza di cultura.
L'ideologia ha avuto infatti la pretesa di sostituire la tradizione;
si è poi svilita nella sua stessa inconsistenza ed ha creato
il consueto baratro dal quale per prassi storica prima poi si riemerge.
Si ritrova così la spinta in avanti per i progresso, purtroppo
però i vuoti profondi sono difficilmente colmabili senza
evitare il rischio di rigurgiti, false dottrine fanatismi superstiziosi
e pipistrelli medioevali.
Sullo scorcio del nuovo secolo l'uomo appare come un reduce sconfitto.
E' un teomaco che ha perduto la battaglia con la metafisica di cui
aveva proclamato la morte.
E' un depresso che progetta la ricostruzione e torna a ripercorrersi
nel labirinto del quale si riconosce parte, ma senza giustificazione.
Si ostina a predire l'avvento di fatti sovrumani tra fantascienza
e ipotesi extraterrestri, rese plausibili dagli eccessi degli automatismi
e dalla robottizzazione e intanto teme di non poter contare neppure
sul futuro a breve scadenza.
Potrebbe infatti identificarsi con un salto in quell'"innominabile",
in quel nulla beckettiano che supera il silenzio e le tenebre della
polvere in cui il pessimismo dei secoli passati vedeva disfarsi
la gloria effimera delle umane vicende.
tragico
il nulla oltre l'afonia della polvere: le consistenze vanifìcabili
o vanificate dal momento che sono sorde alla vitalità ignorano
la bellezza che si scopre con un atto di fede nell'umanità
e solo quando si è in armonia con sé stessi.
L'uomo triste la sogna nella forza consolatrice, l'assetato nella
fonte più cristallina, l'incatenato nella caverna la canta
lontana nella corsa sotto il sole, il solitario la scopre nella
festosa comitiva che si allieta alla manifestazione dell'amicizia.
Così dicendo, lo scettico, il materialista in crisi esistenziale
e lo stesso idealista spesso vittima di un pessimismo ricorrente,
rischiano di pensare che la bellezza sia altrove o che sia una illusione
dalla quale comunque si resta esclusi.
L'arte svela la bellezza per istinto: si pretende di coglierla nel
rigore del singolo, nel sussurro, nel gioco delle luci cromatiche,
nell'urlo dell'espressione, nella macchia, nella messa in posa,
nel bisticcio linguistico come nella malinconia di una natura morta,
ma non è la bellezza, questa, è la continua e diversificata
dichiarazione di un desiderio, di un bisogno precisato nella sua
consistenza.
La bellezza è la coscienza di un incanto nel quale noi stessi
siamo pieni di vita e scopriamo la vita senza difetti e senza eccessi.
Cagli canta sempre la bellezza; anche quando gli anni tristi e la
follia distruttrice delle grandi crisi e di quelle quotidiane ci
impegnano alla denuncia degli orrori e dell'aberrazione.
Proprio per misurare gli uomini nella stagione dell'incostanza occorre
che si superino i connotati specifici dei carnefici e delle vittime.
Non occorre infatti identificare divise e bandiere per ribellarsi
alla guerra e allo sterminio: è importante far emergere i
brani umani per ritrovare la consistenza dell'humanitas e farla
progredire.
Occorre gridare l'orrore di tutte le guerre affinché ci si
ritrovi fratelli, al di sopra dei confini territoriali e dell'originalità
dell'idioma.
Queste sono le radici dell'eterna giovinezza di Corrado Cagli, poeta
dell'uomo e della pace.
Le sue immagini infatti non hanno mai esasperato l'odio di parte,
né si sono mai consumate nella tautologia del fatto pubblicizzato.
Nelle opere giovanili gli emblemi della vanagloria fascista vagavano,
larve disumane, sul panorama delle rovine della Roma dei Cesari
e non c'era bisogno di identificare vessilli e armature per denunciare
la follia assurta agli onori della cronaca.
Nella interpretazione dei lager e dei campi di sterminio, per Cagli
non è necessario commentare con precisi riferimenti la fatalità
della seconda guerra mondiale ed il tragico repertorio degli orrori
nazisti. La sua arte estende a tutti i tempi a venire un monito
ideale di fratellanza.
L'artista aveva previsto gli eventi e denunciato l'oppressione della
dittatura ricordando l'eterna lotta per la libertà.
Perciò acquistano un valore illuminante le immagini allegoriche
del 1940.
E' molto significativa quella che essenzializza la tirannide la
quale, mentre con la serpe del suo oculato viluppo blocca arti e
membra di chi anela alla libertà, agisce poi senza aiuti
di corde ma con la deliberata violenza della sua stessa mano per
bloccare l'anelito della testa che pensa.
E quale poesia aleggia nell'opera che Cagli dedica alla forte e
biblica figura di Davide.
Anche qui il monito è preciso: di fronte alla prepotenza
di Golia può solo insorgere il coraggio illuminato dalle
forze generose.
Davide deve affrontare la superbia, abbatterla per il trionfo del
bene comune, senza però gloriarsene.
Egli soppesa ancora la fionda della giustizia e rivela in tutta
la sua civile ed umana responsabilità la tristezza di essere
stato costretto a raccogliere i frutti di una semina d'odio.
Intanto però non può sottrarsi al suo dovere: nonostante
il suo sgomento il giovane eroe trova la forza di troncare la testa
del mostro. Cagli parla quindi in termini di eternità e da
storico dell'umanità. E con una forza assoluta che non si
coglie nelle trame consuete dell'estetismo e del filosofeggiare.
Questi sono dei termini che specializzano eventualmente un'azione
e segnalano delle evidenze, dei percorsi, magari ne privilegiano
uno, proprio quello che ha i presupposti per evolversi, maturare,
e, dopo lo splendore, esaurirsi per fare spazio a nuovi eventi e
teorie adeguate. Il grande artista è il vero storico dell'umanità,
in quanto varca la specializzazione e i termini misurabili: parla
al futuro con la essenzialità immutabile degli elementi primordiali
e le intuizioni che non hanno surrogati.
Veri da sempre e per sempre i termini umani e quelli geometrici
si mutuano in un discorso universale.
Perciò per il monumento dedicato alla "Notte dei cristalli"
non potremmo mai trovare il sostitutivo del triangolo equilatero
che si esplicita nella stella di Davide e ruota tra mille suggestioni
ottiche elevandosi in energia piramidale e fiammeggiando fino al
vertice, nell'infinito del punto dove tutto confluisce e da cui
tutto l'universo prende respiro.
Oriente e occidente non sono più antitetici nell'esagramma
che concilia le antitesi vita e morte, istinto e ragione.
A Gotting, il 9 novembre 1938, le fiamme naziste avevano distrutto
la sinagoga.
Sulle ceneri di quell'odio che aveva visto l'uomo vittima dell'uomo,
il gesto d'amore di Corrado Cagli, il 9 novembre 1973, eleva al
cielo un braciere ardente di umanità.
Una vera e propria fiamma sinuosa, simbolicamente alimentata da
chi accede al basamento di quel monumento vivibile e scandito da
misure sacrali e dall'interno poi volge al cielo gli occhi e il
sospiro, scoprendo mille luci dinamiche.
Si scende infatti all'interno dell'opera passando tra due T congiunte
che simboleggiano la casa elementare con l'essenza del tetto e delle
mura ed è facile interpretare il senso di questo braciere
fiammeggiante che si articola, come una scala ascensionale, in una
spirale d'amore senza antitesi la quale porta alla luce: all'apice
della ragione fatta sentimento.
In quel punto ineffabile convergono tutte le stelle: è la
fonte da cui scaturisce e si irradia nell'armonia delle sue pulsioni,
la fede nella dignità della persona umana.
Ecco come la guerra si scontra con la pace, con il richiamo all'equilibrio
di vita e con la più bella ecologia, quella mentale, la quale
non accetta confini, né eserciti predestinati e benedetti
per le guerre sante.
Tutte le guerre sono tragiche e tutti i morti sono una perdita per
l'umanità che non ha né bandiere né stemmi:
l'arte non può accettare il male del mondo e l'uomo deve
allontanarlo da sé.
Cagli è con l'uomo: la sua giovinezza è nel progresso
e nella misura sociale che si rinsalda proprio quando incalzano
i periodi bui.
Egli è ricco delle perenne gioventù della cultura:
la sua non è erudizione bensì carica vitale che trae
respiro dal passato e lascia le scorie alla cronaca.
Cagli è colto, attinge al pensiero d'ogni tempo e l'essenzializza
arricchendo della sua impronta quel fiume ininterrotto che a tutti
i secoli appartiene e fluisce dalla Grecia a Roma, dal Rinascimento
al Barocco dall'Illuminismo alle dimensioni sentimentali che maturano
fino a diramarsi nel vigore della ricerca e della sperimentazione.
La geometria euclidea è per Cagli il territorio congeniale
nel quale si muove da gran signore del Rinascimento, ma intanto
non rinuncia all'altra geometria che relazione l'uomo al suo futuro
ed estende la prima ai contenuti della fantasia.
Cagli canta la pace e la fratellanza, l'amicizia e il lavoro, i
grandi temi e il bisticcio verbale, ma moltiplica le sue ore approfondendo
la lettura dell'affascinante libro della natura nel quale le dimensioni
dei rapporti umani conoscono i limiti e la gioia del loro superamento.
L'inesausto ricercatore ha orrore dei confini, ama la ricerca aperta
non tanto per la gioia di una conquista, ma per una verifica di
quelle dimensioni interiori di cui si fa artefice.
Perciò canta la ragione allo specchio, la alimenta come una
pianta che vigoreggia e aiuta le gemme novelle a schiudersi, sempre
sapendo che la sperimentazione nel calcolo o nel progetto più
strutturato, all'acme, nel suo momento catartico, trova il sentimento
e la libertà fantastica.
E' come se riscoprisse la sua naturalità, quella che permea
la natura e, da uomo, Cagli la riporta nel vasto panorama della
vita sorridendo così alla bellezza, a quella verità
dalla quale ha sollevato il velo. Sarebbe stato l'unico modo per
riportare nell'arte un documento visibile di uno spazio in cui si
conciliavano la brevità terrena con l'eterno.
A pensarci bene nella sua etimologia l'eterno, l'etereo, il non
solido è tutto ciò che sfugge appunto ai limiti delle
tre note dimensioni della realtà tangibile.
In termini matematico-geometrici si dovevano superare le coordinate
della lunghezza, larghezza e altezza nei solidi: l'eterno andava
oltre le rappresentazioni delle immagini sfociando in una visibile
quarta dimensione che non la ragione comune, ma le ragioni dell'arte
potevano far percepire.
La bellezza delle carte di Cagli è appunto in una resa ottica
che si fa specchio di quanto non potrebbe formularsi plausibilmente
sul piano figurale e che intanto appare concretamente.
"Il crociato", "S. Agostino", "La regola",
"Il mago", "Gea", tutte opere del 1958 rispondono
ad una esigenza linguistica che, al di là del segreto di
bottega che suscita la curiosità dei "tecnici"
accreditati, operatori visivi o critici d'arte, supera le varie
linee analitiche proposte per l'arte moderna.
Per Cagli il linguaggio non può né deve mai sclerotizzarsi.
In lui la parola primitiva si trasforma con l'ottica di un cannocchiale
che si riempie o si svuota di significati a seconda dell'uso o meglio
della manipolazione.
L'eterna giovinezza del Maestro vigoreggia appunto nella consistenza
della parola che è magica e determina le cose.
E' la parola a sancire gli eventi, a riscattarsi a nuova vita e
superare i luoghi comuni.
Un procedimento questo non ignoto ai lettori attenti di Lewis Carrol
che proprio nel capitolo terzo di Alice's adventures in wonderland,
mette a punto il divenire della parola che fuori dai luoghi comuni
crea un evento.
La sicurezza verbale di Cagli si adegua e moltiplica a varie stature,
senza impaccio, con il diritto di precisarsi come attraverso una
selezione naturale e qui ritorna Carrol che dimostra come si dovrebbe
poter cambiare statura tante volte in un giorno senza mai sentirsi
neppure confusi.
Un bruco che si trasforma in crisalide e poi in farfalla trova la
cosa del tutto ovvia e il morire ogni giorno all'ignoranza per rinascere
alle nuove acquisizioni, idem et alter, è una pietra miliare
nella strada della saggezza.
E' pur vero che, secondo certe istanze estetiche, sarebbe più
opportuno non proporre le interpretazioni per consentire all'opera
d'arte di conservare intatta tutta la sua aura magica e le sue vaghe
valenze.
Questo però giova a chi si improvvisa e giustappone per un
gioco che poi può anche diventare serio, gli elementi di
un rebus che spetta ad altri interpretare.
Va bene per chi si giova dei contenuti visti e formulati dall'interprete
e si veste dei panni altrui, mentre sostiene che l'artista può
sopperire, per dono naturale, alla cultura, ma non vale per Cagli.
Figuriamoci se è accettabile affrontare lo studio di Leonardo
o Dante o Cagli senza andare oltre la piacevole e armonica suggestione
dell'impatto figurale o cromatico.
Il mestiere fine a sè stesso a certi livelli è tanto
scontato da non dover essere posto neppure in discussione.
Parlare in termini di casualità per un Maestro non avrebbe
senso. E specialmente quando non è più l'immagine
che conta, ma gli altri significati che permeano la sostanza filosofica
ed estetica dell'opera, l'analisi diventa doverosa.
Di fronte alle tematiche magrittiane e al suo bisogno di rivelare
una nuova esistenza poetica delle cose d'uso comune sottratte alla
consuetudine dalla pratica quotidiana, non basta parlare di surrealismo.
Occorre per Magritte che pone a confronto due edifici identici e
li definisce "oggetto reale" e "oggetto rappresentato"
riferirsi a Swift, ai saggi di Laputa dei Viaggi di Gulliver e ricordare
la loro strana, assurda pretesa di comunicare direttamente con le
cose senza ricorrere alle parole.
Ma intanto nell'opera magrittiana "Ceci n'est pas une pipe"
se è vero che l'immagine dell'oggetto non è una pipa,
come non pensare che neppure una pipa è tale se si presenta
solo come oggetto d'uso?
Il dono della parola che cresce, ride di quella proposizione.
Pipa, in fondo e più verosimilmente, finisce con l'essere
una terza cosa e cioè una nuova materia che risulta dallo
strumento usato e dagli ingredienti grazie ai quali funziona.
Pipa è l'insieme del legno del tabacco e del fuoco che determina
l'essere pipa.
C'è quindi una molecola universale della materia pipa che
esiste al di là di tutte le stravaganze dei materiali e delle
forme che con diverse e disparate esteriorità emergenti celano
la pipa.
E si torna all'idea e alla parola.
Leggiamo attentamente le opere di Cagli degli anni cinquanta.
"Pesci", "Il matto dei tarocchi", "City
center", tanto per citarne qualcuna, superano addirittura l'immagine
tradizionale nella resa visiva. Sagome di vimini, salvascarpe, rondelle,
chiodini a U, organizzati in una disposizione che al negativo rinvia
ad un'idea nota, diventano pesci. Era una risposta al surrealismo
troppo facile?
Era la psicologia o la riflessione sull'essere ed il sembrare che
determinava certe matrici che si sarebbero esplicitate a pieno diritto
nella realtà del fantastico di Cagli?
"Il matto dei tarocchi" gioca tra positivi e negativi
secondo le alchimie di un genialissimo ricercatore, ma il vimini
che diventa rete, i salvatacchi che con le rondelle si formulano
in farfalla, i chiodini a U che si stringono, dita illusorie, intorno
alla luce che si vanifica in un bastone la cui immagine consiste
proprio nella luce, non lasciano spazio al gioco.
C'è nell'opera l'inconscio che fa affiorare la cultura e
il matto diventa acchiappanuvole, acchiappafarfalle, abbocca all'amo
e vive nel respiro della sua consistente inconsistenza, ammantata
di un mistero che gli uomini astuti vorrebbero determinare senza
un viaggio nei labirinti della psiche.
E son matti anche loro a cercare la luna nel pozzo.
Ecco l'eterna giovinezza che sorride nella saggezza di Corrado Cagli
il quale è come un eterno fanciullo innocente di fronte all'incanto
delle favole antiche e perciò sorride quando verifica lo
stupore dichiarato dei fruitori di "City center" che è
tale per la magia della parola e per la sua creazione perentoria.
Le acque della sapienza si corrono a vele spiegate e la cultura
genera cultura.
La conoscenza esprime il pensato e fa percepire in pienezza di sensi
il nudo fisico dei sogni: il grande artista tesse insieme trame
di vita e di dottrina, perciò i poemi degli arazzi di Cagli
parlano alla fruizione più diversificata e vanno interpretati,
anche se solo per iniziare un discorso ermeneutico i cui risvolti
sfidano gli anni. Cagli non è monocorde.
Le coordinate della rosa dei venti lo vedono spaziare per tutte
le latitudini, dalle più antiche e diversificate civiltà
a quella corale e fitta di proposte del suo secolo, del '900, con
tutte le rotture, i rovesciamenti di valori, l'opposizione dell'universo
culturale a quello naturale, con le istanze delle avanguardie e
le loro afonie ideologiche nelle incalzanti e puntuali restaurazioni.
E' questo un discorso facilmente esemplificabile e per il nostro
assunto non utile, ma intanto si può facilmente recepire
tenendo conto di tutte le verità che Cagli ha fatto svettare
oltre le brevi tenzoni che, per ora, sono negli archivi della cronaca
e attendono di essere ricevute dalla Storia.
Cagli è nel tempo.
Basta vedere come ad esempio ha vivificato l'arte degli arazzi con
delle attualissime e concretissime proposte nelle quali il racconto
si trama appunto tra vita e dottrina con tutto il fascino delle
favole antiche e perenni.
"La ruota della fortuna" del '69 è tra le sinfonie
più leggibili con la sua semiologia emergente e i riporti
linguistici che crescono alla luce del detto popolare.
Quel flusso di coscienza impersonale che nasce dalla rappresentazione
dell'umanità universale raccorda simboli e personaggi nell'opera
che proprio per il tema della ruota e diverse altre consonanze ci
richiama i "Quattro Quartetti" di Thomas Stearns Eliot.
. Ma nella canonica della rappresentazione questi riferimenti si
fondano con i richiami classici che si riferiscono a Virgilio, Dante,
Ariosto, Machiavelli, agli incisori tedeschi, al sempre vivo e presente
rimpianto dell'uomo, mai sereno, vittima per alterne sorti è
sempre escluso dai benefici della Dea Bendata. Cagli compone una
sinfonia nella quale con sapiente sorriso guarda la precarietà
degli uomini delusi nelle loro brame.
La Fortuna emerge in un alone che promana dalla sua persona e dalle
sue vesti di sposa ambita, florida, gravida, ricca e mesta con la
sua corte di amanti interessati e infedeli e di denigratori sconosciuti.
La sua mano destra sembra sfiorare con leggerezza la ruota per facilitarne
il giro. L'altra mano illude nel gesto di toccare uno degli assi:
la ruota è ben ferma perché la Fortuna stessa l'ha
bloccata inserendovi un ginocchio. Rinascimento, medio evo, cultura
bizantina, esotismo orientale, si articolano nei personaggi che
hanno tutti gli occhi aperti nel vuoto dei loro pensieri ed hanno
le labbra serrate.
I veri figli della Fortuna nascono dalla sua manica larga quasi
come da una cornucopia. Non sono felici e vanno verso il basso.
Il Re corazzato ricco nel manto e con lo scettro che ricorda il
papavero o il fiore d'aglio, afferra la Fortuna per i capelli.
Dal paradiso terrestre che fiorisce sulla testa della Dea scatta
il serpe della congiura e del tradimento.
La Regina si specchia nella consistenza della sua vanità.
L'avaro cela il suo tesoro sotto il cappello ma il suo gesto non
lo salverà dalla Fortuna incostante.
Un avido prelato tenta di tirare a sé la vana ruota ed un
altro personaggio paludato vi inserisce un pallone: un dato dei
nostri tempi che scopre l'ironia delle situazioni, la speranza nella
solita partita con i rischi degli imprevisti che si rinnovano perché
a ciascun giorno basta la sua pena.
Nel "Paesaggio" del 1974 come non tenere conto dell'ora
che ha ispirato l'arazzo?
Come non avvertire il silenzio religioso e la sera la quale aleggia
sulle presenze modulari dei borghi diramati in respiro spaziale
intorno al richiamo dei versi che parlano dell'ora dell'avemaria
e dell'oblio lene della faticosa vita?
Ma più specificamente il richiamo è quello virgiliano
delle Bucoliche: maioresque cadunt altius de montibus umbrae.
Ecco la necessità di fare opera didattica perché si
impari a vedere Cagli: non è facile impresa affrontare i
suoi temi ponderosi e fare i conti con l'arte e la storia insieme.
I "Martiri dell'Uganda" del 1975 e "Enigma solare"
parlano appunto con il cuore dei popoli civilizzati e con la voce
della tradizione. Mostrano come simboli sacri e riti traditi si
siano ritorti contro chi ha vanificato dei valori e non li ha sostituiti
con qualcosa di altrettanto valido.
Mostrano, e il discorso ci porterebbe troppo lontano, come le spirali
dei labirinti solari accomunino varie civiltà e culle di
uomini esperti di terre e mari diversi, dai greci agli indiani d'America.
E che dire della "Caccia"?
Un'altra vera sfinge che si chiarifica tra uomo e terra, tra forze
vitali e desideri con quella sensibilità che si ritrova poi
nel Narciso e in tanti altri arazzi la cui indagine attenta offre
la gioia di scoperte sorprendenti, tra simboli attivati, figure
nascoste, simmetria che nella loro favolosa attualità di
contenuti serbano memorie di miti chimere e sibille e non c'è
un solo spazio concesso alla casualità.
Né avrebbe mai potuto consentirselo l'interprete eccezionale
della più alata poesia e delle vicende civili nei drammi
delle lotte di classe e nelle calamità naturali.
I dati di partenza in queste circostanze erano più che concreti,
stimolanti, ma la stessa pregnanza artistica e la carica espressiva
dei fatti sperimentali avrebbero potuto limitare in qualche senso
la resa artistica.
Cagli interprete varca il fatto: essenzializza.
Perciò gli inni omerici pulsano in trame naturali metamorfiche,
vigoreggiano nel senso panico, nel sorriso che canta l'apollineo,
la solarità, gli stupori di quelle epifanie che splendono
nei versi di Ovidio.
"Hermes", "Le muse", "Demetra", "Ad
Apollo" non hanno tempo: la misura interpretativa raccorda
una dimensione sacrale con il fascino che il tempo non cancella.
Così accade per "I Sepolcri" del Foscolo, mentre
i temi che rientrano nei documenti di storia civile: "Portella
della Ginestra", "Gente a Partinico", "Sulla
pietra di Barbato", "Gente a Camporeale", diventano
brani espressivi di quella umanità d'ogni patria e d'ogni
terra dove si spera giustizia.
"La rotta del Po" offre invece una visione pensosa delle
creature vittime della furia degli elementi con tutta la testimonianza
di quella eredità di dolore che non ha mai avuto patria e
dalla quale non è escluso nessun brano umano.
Un discorso a parte merita l'"Elogio della pazzia".
Erasmo c'è tutto, ma sulla materia erasmiana aleggia forte
della sua ironia superiore l'artista Corrado Cagli.
Egli non rivela acredine nei confronti dell'ipocrisia, dell'ignoranza
e della prepotenza: non sono uomini quegli ipocriti paludati che
irridono il buon senso e dissacrano la sapienza, Minerva e la civetta
che simboleggia l'alta prerogativa dell'uomo.
Cagli sorride illuminando le sue sintesi mentre segue, tra gli impossibili
itinerari dei meandri della psiche, le evoluzioni fantastiche e
le apparenti bizzarrie che connotano l'economia di un discorso magistrale
e costruttivo.
E che sia rigoroso lo attesta il ritmo geometrico che sigilla e
sigla le effettive distanze tra gli uomini umani e quegli altri
su cui grava la colpa di un tradimento operato contro la ragione.
"Moriae encomium" di Cagli offre materia per un saggio
specialistico non solo per l'acume con cui è vissuta la meditazione
erasmiana, ma anche per quelle ali che l'arte estende all'arte quando
due giganti si incontrano.
L'eleganza, la forza, la sobrietà, l'essenzialità
delle immagini dell'Elogio della pazzia verificano un metodo interpretativo
e nello stesso tempo l'arte con cui Cagli sfida e supera sé
stesso nel coordinare da umanista perenne, libertà e necessità.
Egli che ha sempre avuto orrore della guerra ammonisce con l'esempio
di Erasmo i fautori dell' istinto bellicoso che è "ispirato
direttamente dall'inferno".
Così si espresse Erasmo nel "Lamento della pace",
ma già nel 1509 nell'"Elogio della pazzia" pubblicato
a Parigi, aveva trovato il modo di deridere il punto d'onore ed
il prestigio dei militari.
I sapienti, i filosofi, le persone perbene devono odiare la guerra
che invece alletta i dissennati.
Vi primeggiano infatti "omaccioni grandi e grossi... la perduta
gente, parassiti, ruffiani, briganti, sicari, villani, imbecilli,
indebitati e simile feccia".
La guerra è dulce inexpertis, per chi non l'ha provata, per
chi non ha assistito alla follia distruttrice sulla quale Cagli
aveva tanto meditato.
Lo accomunava infatti ad Erasmo l'odio della guerra e lo sentiva
fratello anche per la sagace ricerca delle opere della ragione contro
le quali delle forze maligne si accaniscono per rendere sempre più
fioca la luce e lacerare le costruzioni del pensiero come si fa
talvolta con la tela di un ragno.
E gli uomini sono sempre dentro gli intrecci, i labirinti, le trame
che si estendono intorno alle loro relazioni come lacci ben visibili.
Inoltre nel loro inconscio altre trame urgono con l'esigenza di
chiarificarsi e Cagli nell'"Elogio della pazzia" accentua
la diversificazione tra stimoli esterni e realtà interiore,
giocando appunto con una preziosa geometria di reticoli.
Nelle trame mentali segue un ritmo ordinato per precisare la consistenza
razionale; lo altera poi quando la follia incalza e domina, disperdendo
la concretezza con l'effetto di una pietra che sconvolge l'immagine
riflessa in uno specchio d'acqua.
Gli accenni ai valori evangelici così suggestivi in Erasmo
trovano in Cagli un interprete di non comune rigore che scopre sulla
via evangelica un amico difficile e con naturalezza, mentre conferma
la dianastasis attraverso la quale gli umili si riscattano all'altezza
della sofferenza di Cristo, con l'inventiva ed il simbolo allegorico,
combatte i falsi profeti.
Colpisce l'ipocrisia che si riveste di inutile pompa e utilizza
i sacri simboli per decorare l'esteriorità degli ammanti:
la stessa civetta, la saggezza, deformata, appare a chi la incontra
come un incubo mostruoso contro il quale occorre opporre uno scudo:
è il trionfo della follia.
Cagli attraverso Erasmo parla all'umanità del suo tempo,
alle creature che nella pienezza degli anni settanta tremavano per
il precisarsi della pazzia degli armamenti, per gli irreparabili
danni ecologici, per la sfiducia nel destino degli uomini in bilico
sul nulla e vinti anche per carenza di risorse energetiche alternative.
E' vero che sarebbe impensabile trovare un capitolo della pittura
del Novecento senza Cagli, ma se, come giustamente interpretiamo,
gli anni Settanta rivestono un ruolo decisivo per le arti visive,
restaurate in un universo decisamente più rigoroso e sostanziato
da più profondi pensieri, proprio quegli anni possono essere
meglio interpretati alla luce della fervida produzione del Maestro.
Egli aveva la finezza magistrale dei mestiere e la forte maturità
del saggio che, illuminato dall'antico mito, dà luce a quello
futuro e tanto più aleggia nella libertà fantastica
quanto più specifica e rigorosa è la sua conoscenza.
Lo stesso ritratto di Erasmo è magistrale perché Cagli
coglie la fertile immaginazione del personaggio e la gentilezza
dei tratti tra ieratica e volitivamente operativa.
Erasmo è dentro la trama dei suoi pensieri incalzanti, è
egli stesso Teseo ed Arianna, mai pago delle sue stesse realizzazioni.
Lo attestano i biografi del filosofo, né poteva sfuggire
questo temperamento a Cagli, mai pago e vorticoso nella coerenza
della sua incessante ricerca.
Spostando quindi l'ottica sul fantastico di Cagli si è sommersi
da una rigogliosa giovinezza che sembra attingere forza da ogni
evento, da ogni circostanza come se la coscienza e l'inconscio continuamente
si coniugassero attraverso un meccanismo capace di assimilare senza
tregua e di farsi permeare dalle stesse realizzazioni artistiche
la cui linfa alimentava altra sete.
Se Dante dice che ad un certo momento della sua ricerca "a
l'alta fantasia mancò la possa", Corrado Cagli non rivela
mai un indugio nella evoluzione di quel nuovo che il suo deus ex
machina implacabilmente rinnovava.
Nei suoi Labirinti, nelle Siciliane, nella magia del primitivo e
del tribale che gli fornivano la materia eccellente per l'indagine
della psiche, egli è l'archeologo del mito.
Risalendo da quello al territorio di Yung egli sembra pulsare con
il cuore di Arianna abbandonata a Nasso e sollecitata a riprendere
il viaggio di esilio nel corteo di Bacco per espiare la splendida
colpa di aver infranto la regola del labirinto.
In altri termini l'incessante e fertilissima attività creativa
lo avrebbe sempre spinto a rinnovarsi attraverso la pittura, la
scultura, la grafica, la scenografia, le formulazioni teoriche e
quelle verificate nel più vasto. panorama delle arti visive.
Eccolo quindi all'ombra ed alla luce dei suoi ideogrammi, di fronte
al segreto del perenne Orfeo il quale legge nel profondo della natura
con una vocazione così pura che essa, innamorata del suo
cantore, perde la felinità e lo segue, travolta dalla passione
per l'avventura.
Cagli è stimolato dalla creatività dei suoi eroi perché
nel loro stesso nome c'è l'eros vitale, la continua tensione
vitalistica che affascina nei più alti contenuti del visionarismo
libertino.
Quella superiore intelligenza creativa giostra in pieno vigore scenico,
in evocazioni drammatiche, da Rabelais ai nostri giorni, tutto consumando
e tutto rigenerando perché non bastano mille vite per percepire
l'esistenza organica nei suoi più intimi moti.
Chi non intende questo non può pretendere di accostarsi a
Corrado Cagli o a Leonardo da Vinci o a tutti gli altri geni che
ci coinvolgono nella luminosità della loro perenne giovinezza.
In queste note abbiamo preferito puntualizzare come svetti solitario
il Maestro e come sia alata la sua fiamma di vita.
Ad arte abbiamo evitato gli accenni agli interpreti illuminati della
sua opera, agli specialisti che ne hanno seguito il tracciato nella
sua globalità e a quelli che hanno affrontato i capitoli
specifici connotando l'impianto pittorico, gli itinerari figurativi,
la geometria come ricerca di monumentalità, la realtà
del fantastico e tante altre motivazioni emergenti dalla ricchezza
inesauribile di una produzione che restaura, nel ventesimo secolo,
un nuovo modo di intendere le arti dei Trivio e del Quadrivio e
servirsene come strumenti eccellenti per dare un sapore unitario
alla forza arcaica, all'armonia classica, alla mentalizzazione delle
istanze più moderne. Cagli è aritmetico e geometra;
è musico nel sentimento della sinfonia e dell'opera lirica
sceneggiata con invenzioni di sublime architettura e analizzata
nei dettagli con un vibrante pittoricismo nel quale si vivacizza
una ricerca psicologica che trova l'equilibrio introspettivo proprio
nella realizzazione dei costumi.
Il teatro diede anima e voce, moto e sostanza alla magia dell'arte
di Cagli.
Nel viaggio di ricerca dell'umano destino tra le vie dei suoi stessi
astri e tra i fili dei più umani sentimenti egli è
sublime astronomo, specialmente quando articola la parola.
La sua cultura spazia tra gli stupefacenti meccanismi della grammatica,
della retorica e della dialettica, vi penetra col guizzo di un volo
che poi si annida tra forme di parole impenetrabili.
Allora l'artista raggiunge il nucleo fetale della coscienza arcaica
ed arcana; reinventa e svela fisiologia ancestrali e scandagli dell'anima.
E di là irradia la sua perenne giovinezza deridendo il nulla
che osa battere alla finestra delle costruzioni umane.
Spetterà al nostro tempo o a quello a venire, dettare per
Corrado Cagli una lapide formulata come quella che nel cortile dell'Università
di Torino commemora Erasmo di Rotterdamo, ivi laureato il 4 settembre
1506 e ricordato come sommo filosofo degli studi greci e latini
libero restauratore.
Per il Maestro, sommo artista, si deve ricordare, in tempi di ragione
e sentimenti offuscati, l'opera di restauratore di quella alata
libertà di essere individui, eredi della grandezza di ogni
tempo e destinati alla luce dell'intelligenza.
Inoltre il fatto stesso che l'interprete dell'opera di Cagli sente
la Sua serena presenza che invita a proseguire oltre le sue conclusioni
aperte, conferma che gli spiriti grandi non muoiono: partono per
tornare al nostro richiamo e insegnarci a volare verso un'infinita
idea di libertà.
Cagli era troppo in anticipo sui suoi tempi perché i contemporanei
potessero comprenderlo appieno.
Si dovrà sistemare ancora tanta parte della sua opera per
accorgersi che egli è tutto da scoprire nelle voci delle
sue forme impenetrabili che cantano tutto l'uomo esteso a pensiero.
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