articolo 865

 

 
 
L ULTIMO GIORNO CON IL MARE ALLE SPALLE
 







di Raffaele Manica




Fabrizia Ramondino

Una coincidenza ha voluto che l’ultimo giorno della vita di Fabrizia Ramondino fosse quello in cui usciva l’ultimo suo romanzo, un libro che racconta di un uomo di mare approdato in un qualunque paese di un’Italia meridionale antica e immutabile, ma sfidata da una modernità sfrontata, imperturbabile nel creare nuovi bisogni. Lo pubblica Einaudi e si intitola La via, non perché alluda alla sapienza comune, quella della strada, ma proprio perché sta a indicare la via principale di quel paesino qualunque, simbolico e reale, Acraia, che sembra dividere in due la storia (vecchie botteghe e nuove attività commerciali; i vecchi davanti al loro bar di sempre e i giovani davanti alla televisione; la guerre vecchia sempre vicina e quella nuova che sembra remota; e il traffico di oggi e di ieri sulla via che di tutto è causa). Non solo la coincidenza tra l’ultimo giorno e l’ultimo romanzo parla di un modo singolare che il destino ha avuto per rivelarsi, ma il modo stesso in cui Fabrizia Ramondino se n’è andata porta il segno di oggetti che hanno segnato il suo paesaggio fisico e mentale: aveva detto alla sua segretaria di prepararle un caffè, avrebbe fatto un bagno in mare e sarebbe tornata. Dall’acqua di Itri, la cittadina dove viveva e villeggiava, è uscita barcollando per un malore. Poi si è spenta sulla riva.
I suoi tratti distintivi
Il suo caffè e il mare: due tratti costitutivi della Napoli dove era nata nel 1936. La città della vita, alla quale aveva dedicato, nel 1989, Dadapolis. Caleidoscopio napoletano (scritto insieme ad Andreas Friedrich Müller). Ma Napoli era stata già al centro di Athénopis, che, nel 1981, le aveva dato la notorietà. La sua era una Napoli per niente oleografica, come lo era quella di altri scrittori all’incirca della sua generazione, da Ermanno Rea a Raffaele La Capria. Così anche Ramondino aveva rimosso il mito di Partenope, lasciandolo alle cartoline e al turismo
dei frettolosi. Occorreva cancellare il famoso pino per dire della città, per ascoltarne la voce nascosta. Napoli, infatti, è da secoli città dura - con «lingua tosta», diceva il gran Basile - e città colta, dove il gusto del dialetto sopravvive accanto a finezze di pensiero: non solo in Benedetto Croce, esempio consueto, ma anche in un matematico fascinoso e misterioso come Renato Caccioppoli; e, non a caso, Fabrizia Ramondino aveva collaborato alla sceneggiatura del film di Martone, Morte di un matematico napoletano. Di tutta questa congerie di esperienze la lingua della scrittrice ha tenuto la massima considerazione, da Storie di patio (1983) a Un giorno e mezzo (1988), da In viaggio (1995) a L’isola riflessa (1998), da Passaggio a Trieste (2000), a Guerra di infanzia e Spagna (2001), a Arcangelo (2005), libri di narrativa cui vanno aggiunte le poesie di Per un sentiero chiaro (2004).
Anche da questi titoli, forse, traspare il fatto che benché la scrittrice fosse dentro Napoli
con tutta se stessa, da lì seppe partire per conoscere molto altro, come confermano i tratti della sua biografia, così intrisa di cultura tedesca. Figlia di un diplomatico, aveva passato l’infanzia a Maiorca. Nel secondo dopoguerra andò a Parigi, poi in Germania. Dopo vari ritorni, fu stabilmente a Napoli, dove si rese protagonista di varie iniziative civili e politiche: aveva lavorato, tra l’altro,per la Mensa dei bambini proletari a Montesanto. A Itri era arrivata dopo il terremoto del 1980 che le aveva devastato la casa in Palazzo Spinelli. Era una borghese colta, con il senso della comunità e della società: il suo essere in sintonia con il sud ricordava quello di altri intellettuali, che dalla loro provenienza avevano tratto una sorta di spina dorsale, essendo al tempo stesso figure cosmopolite: solo apparentemente senza datazione e senza radici - come l’uomo di mare che inaugura la narrazione dell’ultimo romanzo della Ramondino - ma ben consapevoli dei loro approdi migliori, capaci di coltivare la memoria e di immergersi nel presente, amanti del semplice gusto di chiacchierare come pure della conversazione che specula sulle forme della teoria politica: non a caso, forse, sulla copertina di questo ultimo libro della Ramondino c’è il divano borghese di Chaste Suzanne dipinto da Vallotton, al tempo stesso una scena di conversazione e la rappresentazione di tentativo di seduzione da parte dei soliti vecchioni con pochi capelli e crani molto lucidi. Sfogliando La via, ci si accorge presto che è un romanzo dall’impianto fitto, perfino visivamente. Pochi gli a capo, con più voci che si innestano sulla narrazione quasi a creare un coro, riferendo accadimenti e finendo per diventare il fondale e il sentire stesso del romanzo.
Qualcosa in comune con la Ortese
Scrittori come la Ramondino sanno essere visionari, sulla pagina, anche avendo a disposizione pochi elementi di una realtà nuda e cruda, e sanno trarre inattese conseguenze da ciò che sembrerebbe, a
persone dotate di sensi meno vigili, pura cronaca. Forse anche per questa qualità della Ramondino, alcuni hanno colto, nel suo scrivere, una derivazione dal magistero della Ortese. E forse davvero c’è qualcosa, nel sud, che induce a quella magia di cui parla anche un famoso titolo di Ernesto De Martino, una magia che si intona in modi ogni volta diversi, e si nutre di una fantasia giudiziosa, com’era quella della Ramondino, spesso covata sotto le ceneri del tempo.de Il manifesto



2008-07-02