articolo 749

 

 
 
La percezione dell’arte si giova del libero arbitrio
 







di Giuliano Battiston




Marcel Duchamp

New York, 1917. Un uomo passeggia per la 5th Avenue, entra in un negozio di sanitari e compra un orinatoio: con la firma «R. Mutt 1917» candida l’oggetto alla prima esposizione che la Society of Indipendent Artists organizza al Grand Central Palace di New York. L’opera, che l’artista anonimo ha titolato Fountain, non viene accettata. Si scoprirà poi che l’autore è tra coloro che hanno fondato la società organizzatrice della mostra, si chiama Marcel Duchamp. Perchè la commissione giudicante non ha accettato la scultura, ritenendola un semplice orinatoio? E perché, oggi noi lo «riconosciamo» come Fountain? Più in generale, se osserviamo due oggetti che hanno le stesse proprietà materiali e che dunque appaiono indiscernibili dal punto di vista percettivo, cosa ci permette di stabilire che uno è un oggetto ordinario mentre l’altro è un’opera d’arte? Perché, ad esempio, la scatola di spugnette abrasive esposta nel 1964 alla Stable Gallery di New York da Andy Warhol con il titolo Brillo Box è considerata un’opera d’arte mentre il suo corrispettivo negli scaffali dei supermercati - Brillo Box - è destinato soltanto alle cucine degli americani? Sono queste le domande intorno alle quali si muove gran parte del percorso speculativo di Arthur Coleman Danto, filosofo dell’arte, esponente di primo piano della filosofia analitica americana e critico del settimanale radical newyorkese The Nation. Un filosofo dell’arte che ha saputo «contaminare» le proprie costruzioni teoriche, nutrendole di assidue frequentazioni con gallerie e studi d’arte e partecipando direttamente alla rivoluzione artistica che prendeva piede nella New York degli anni Sessanta, quando attorno a Manhattan gravitavano Andy Warhol, Robert Rauschenberg e John Cage.
Interessato a farsi leggere «più dagli artisti che dai professori di estetica», Arthur Danto ha sempre guardato al momento presente per individuare «una filosofia dell’arte valida per ogni periodo storico», e non ha mai esitato a
proporre tesi radicali e provocatorie: come quella sulla «fine dell’arte», che ha sollevato un importante dibattito tra filosofi, storici e critici d’arte. La polemica, sebbene tardivamente, è arrivata anche al pubblico italiano, con il risultato di proiettare sulle opere di Danto un rinnovato interesse editoriale: lo testimonia, oltre alla recente pubblicazione per postmedia-books di L’abuso della bellezza, la traduzione da Laterza - prevista per per marzo - del suo libro più importante, La trasfigurazione del banale, a cura di Stefano Velotti, che ne ha anche scritto una interessante introduzione. Di passaggio a Roma, dopo avere partecipato a Torino al convegno Il futuro dell’estetica organizzato dall’Università di Torino, che gli ha conferito la laurea honoris causa, Arthur Danto ha accettato di ripercorrere parte della sua biografia intellettuale.
Per alcuni anni, prima di dedicarsi alla filosofia, lei è stato un artista piuttosto apprezzato. Ci può raccontare qualcosa
di quel periodo e spiegarci perchè ha deciso di abbandonare l’attività artistica?
Sin da bambino ho avuto una forte passione per l’arte, anche grazie alfatto che mia madre aveva l’abitudine di portarmi al museo di Detroit, la città in cui sono cresciuto; dopo la seconda guerra mondiale, in quanto veterano ho avuto inoltre l’opportunità di frequentare gratuitamente la Wayne University, sempre a Detroit, per quattro anni, studiando arte. Ho deciso poi di trasferirmi a New York, perché mi sembrava che dal punto di vista artistico quanto c’era di più interessante accadesse lì (per esempio l’espressionismo astratto). E proprio a New York ho cominciato a esporre alcuni miei lavori, ottenendo un discreto successo. Nello stesso tempo, però, coltivavo un forte interesse per la filosofia, fino a che un giorno, credo fosse nel 1963, mentre lavoravo a una incisione su legno mi resi conto che avrei preferito scrivere di filosofia piuttosto che continuare a fare arte. E così feci.
Passiamo ora alla questione che la tiene impegnata da molti anni, ovvero l’idea che, dopo il Modernismo, ciò che appare alla vista non basti più a informare la distinzione tra oggetti d’arte e oggetti comuni. Come è maturata questa idea?
Durante le feste di Natale del 1962, dal sud della Francia dove stavo scrivendo il mio primo libro, mi spostai a Parigi. Lì andai all’American Library e, sfogliando la rivista Art News, mi trovai di fronte un dipinto di Roy Lichtenstein che sembrava un fumetto. Non potevo credere ai miei occhi. Abituato all’idea che l’arte avesse una dimensione quasi religiosa e presupponesse un profondo coinvolgimento spirituale - perché erano queste le convinzioni circolanti a New York negli anni Cinquanta - la prospettiva per cui un’opera del genere potesse essere esposta in un museo mi provocò uno schock. Tanto fui scosso che, arrivato a Roma, continuai a pensarci, fino a convincermi che dal punto di vista artistico ormai tutto era
possibile. Quel dipinto di Lichtenstein aveva trasmesso - come fosse una sorta di epidemia - l’idea che due oggetti possono apparire esattamente allo stesso modo e, nonostante questo, uno è un oggetto d’arte mentre l’altro resta un semplice fumetto. L’idea, naturalmente, trovava la sua massima espressione, allora, nelle opere di Andy Warhol. Insomma, fu così che cominciai a pensare che le opere d’arte possono presentarsi in qualsiaisi modo e somigliare a qualunque altro oggetto di uso comune.
Il che porta a chiedersi, però, perché questo mutamento di prospettiva si sia reso possibile solo nei primi anni Sessanta. Lei ha scritto che «il mondo deve essere pronto per certe cose, il mondo dell’arte non meno che quello reale». Cosa intendeva?
Veramente non è una questione che sappia spiegare fino in fondo. Sarei tentato di dire che un simile cambiamento di prospettiva è stato possibile solo negli anni Sessanta perché fino a quella data hanno funzionato degli apriori
relativi a quale aspetto dovesse avere un oggetto d’arte e a cosa l’arte dovesse essere, che poi sono tramontati. Perché non lo so. È stata una rivoluzione incredibile, e si è manifestata quando gli artisti hanno cominciato non soltanto a premere sui confini stabiliti, ma persino a metterne in discussione l’esistenza. Da qui, a mio parere, ha avuto inizio l’epoca della contemporaneità.
Lei stesso ha riconosciuto che Duchamp per primo ha operato il «miracolo di trasformare in lavori d’arte» oggetti comuni. Eppure il prisma attraverso il quale lei legge l’arte che definisce post-storica è rappresentato soprattutto dalle opere di Warhol. Perchè?
Duchamp in qualche modo identifica i responsabili della prima guerra mondiale con coloro che credono all’idea del grande artista visionario, ed è per questo che mira a dimostrare come sia possibile fare arte senza l’occhio e la mano del grande artista, senza la delicatezza della percezione e la finesse del tratto. Ma
Warhol solleva questioni di cui Duchamp, troppo coinvolto nella polemica del tempo, non tiene conto: gli oggetti del ready-made di Duchamp sono esteticamente non-interessanti e tuttavia non sono banali, mentre Warhol è interessato proprio agli oggetti ordinari. Lavora con i prodotti industriali perché vuole creare un oggetto d’arte indiscernibile, tale che non si possa dire: «è migliore di un altro». La sua è una posizione radicale fino all’estremo, assimilabile a quella dei maoisti. E proprio questo radicalismo di Andy Warhol mi ha colpito molto più incisivamente di quanto non abbia fatto Duchamp. Se avessi seguito Duchamp sarei finito sulla strada sbagliata.
Il suo nome viene associato immediatamente alla proclamazione della «fine dell’arte»: lei stesso ha usato questa espressione, definendola «indubbiamente incendiaria» e nel corso del tempo l’ha declinata in modi diversi. Ce li riassume?
Ho cominciato a riflettere sulla fine dell’arte negli anni Ottanta.
Come mi capita spesso, è stata un’idea sollecitata da un’esperienza artistica: ricordo di essere andato a visitare una mostra al Whitney Museum di New York e di essermi chiesto: «Bene, ora cos’altro dovrebbe succedere? Niente in particolare, mi sono risposto, tuttavia potrebbe anche darsi qualcosa di molto diverso. Insomma, ho pensato che se, in effetti, non aveva tanta importanza cosa sarebbe accaduto in seguito, e se l’arte - come si riteneva allora - era in una fase di evoluzione per cui ogni nuova opera doveva essere più significativa di quella precedente, allora eravamo alla fine dell’arte.
La sua teoria sulla fine dell’arte ha ricevuto molta attenzione critica, ed è stata interpretata con fin troppa disinvoltura: c’è chi ha provato a collocarla nel gran calderone del postmodernismo, e chi ha tracciato una indebita equivalenza tra «fine dell’arte» e fine di ogni attività artistica. Ma la sua posizione si direbbe molto distante da tutte queste prospettive...

È vero. La mia teoria non comprende alcun giudizio di valore: non intendo dire che l’arte sia peggiorata, né che la pratica artistica sia ormai defunta. Ritengo invece che in questo periodo ci siano artisti molto interessanti, alcuni li trovo meravigliosi, per esempio Cindy Sherman, Sean Scully, George Brecht; e mi piacciono anche le opere di Matthew Barney e alcune cose fatte da Damien Hirst.
Dal 1984 lei lavora anche come critico d’arte per il settimanale «The Nation». Se la seguiamo nel suo ragionamento per cui l’arte non sarebbe più qualcosa che riguarda gli occhi, bensì il significato, e se dunque il compito del critico si ridurrebbe a rendere esplicito questo significato, mi domando: che ruolo resta alla facoltà di giudizio del critico?
Individuare quale sia il significato di un’opera e spiegare come funzioni è per me sufficiente. Non credo a quanti rivendicano la necessità di giudizi di valore, perché essi spesso sono fondati su una buona
dose di ignoranza e non vengono giustificati razionalmente. Sono un filosofo e dunque non lascio mai a casa le mie credenziali razionali, tanto meno me le lascio indietro quando esco con l’abito del critico.da il Manifesto



2007-10-30