articolo 718

 

 
 
Quando la globalizzazione sbarca alla Biennale
 







di Arianna Di Genova




Fuori c'è il sole e una luce chiara che profuma d'estate ma dentro tutto si fa buio. Lo spazio però non è asfittico. La stanza di grande metratura assomiglia a un loft ma alcuni «mobili» di fortuna (materassi a terra e lettini militari), più le immagini video che scorrono a parete, riconducono il visitatore alla realtà. Non siamo in paradiso ma in un campo profughi, un territorio di detenzione di esseri umani allestito ai Giardini della Biennale di Venezia dall'artista Aernout Mik. Il padiglione olandese, infatti, si presenta così: una «lanterna magica» che ci fa entrare nei meandri della violenza, registrando un perenne stato di allerta ansioso.
Sono due i protagonisti previsti dal set di Mik: i citizens e i subjects, ovvero coloro che hanno diritti e appartengono a uno stato nazione e gli «altri», i reietti, coloro che sono sottomessi a ferree regole e non riescono mai a cambiare status sociale. Gli
scarti umani, li ha chiamati un sociologo come Bauman, i turisti e i vagabondi.
Le immagini indagano la fortezza Europa, le zone di attraversamento dei confini, dalle coste di Lampedusa ai tunnel ferroviari della Manica al passo di Calais fino al «border» turco-greco. E ogni tanto si accende una trama, la più gettonata è quella che racconta le tecniche di addestramento dei poliziotti per l'arresto degli immigrati illegali. Il progetto di Aernout Mik, articolato in una trilogia (a cura di Maria Hlavajova), è accompagnato non da un tradizionale catalogo ma da una antologia critica in cui scienziati e intellettuali cercano di rispondere alle sfide lanciate dalla globalizzazione. In autunno, il padiglione (che chiuderà in Laguna il 21 novembre) avrà una sua «scia» nei Paesi Bassi per allargare il dibattito sulle trasformazioni delle identità nazionali.
Aernout Mik da tempo mette in scena alcuni momenti della quotidianità «deviando» verso azioni surreali (edifici che crollano,
manifestanti che distruggono i beni da supermercato). In Scapegoat arriva a indagare la reazione alla paura filmando un (finto) caso di ostaggio di alcuni civili all'interno di un palazzetto dello sport.
Il centro del suo lavoro è sempre lo stesso: il livello di ansia raggiunto dalla nostra civiltà.
Lei si interroga spesso sui flussi migratori e sulla globalizzazione...
La globalizzazione può sembrare qualcosa che si materializza da sola, quasi fosse un fenomeno naturale. In questo senso, non è né negativa né positiva. Ma sentiamo di non avere un controllo su ciò che accade. Non manca però di offrire alcune opportunità. Proprio a causa della sua complessa e totale interdipendenza di tutte le differenti parti del mondo, noi potremmo sviluppare una eventuale consapevolezza che i maggiori problemi del pianeta debbano essere risolti anch'essi in un modo globale. I suoi drammatici effetti, probabilmente, ci costringeranno ad agire così. Dall'altro lato, la
mobilità è qualcosa che ha un significato per i capitali e le elite sociali mentre le larghe masse ne restano fuori, sono tagliate via. L'esclusione e la rigidità però non fermeranno la pressione delle migrazioni che i paesi occidentali stanno fronteggiando. Alla fine, bisognerà escogitare soluzioni strutturali.
Il mio lavoro non cerca di offrire nessuna soluzione. Ma tenta di rendere visibile e di rinforzare i dilemmi interni e le contraddizioni che nascono. Allo stesso tempo, mi piacerebbe poter creare la possibilità di pensare non a senso unico.
È d'accordo con la definizione di Zygmunt Bauman che definisce la modernità «liquida»?
Sono d'accordo con la sua nozione di incertezza poiché è davvero centrale nella nostra condizione umana. Anche le relazioni sono diventate ormai insicure; in parte, questo è il risultato della scomparsa del «welfare state», della fine della utopie moderniste e della paura che abbiamo in occidente dell'immigrazione. Credo che il
significato corrente dell'insicurezza sia uno degli elementi chiave per leggere il mio lavoro; è come essere in preda a una deriva, con una costante confusione fra finzione e reale.
Da questa prospettiva, possiamo notare lo sforzo europeo di restaurare le identità. Il tentativo di riarticolare una storia nazionale, anche dal punto di vista culturale, è in primo luogo una conferma di quella scomparsa. L'ambiguità intorno al concetto di rappresentazione nazionale lo abbiamo considerato un vero punto di partenza per il padiglione olandese alla Biennale.
Il suo padiglione è un container come quelli dei centri profughi... È questo il risultato delle politiche europee?
Gli elementi dei campi di detenzione che utilizzo nel mio lavoro si riferiscono non soltanto al modo in cui vengono trattati gli immigrati illegali ma funzionano anche come metafora per la nostra (intendo noi, gente occidentale) precaria posizione. Entrambi siamo dentro il «mondo» e dentro lo stato
in cui viviamo. Ma c'è incertezza. Siamo cittadini o stiamo diventando tutti soggetti? Come elaboriamo questo permanente stato di eccezione che viviamo come fosse una cosa normale?
Ho ritenuto importante non realizzare, nel padiglione olandese, solo delle assonanze con i momenti dell'esistenza quotidiana nei campo profughi. Ciò che realmente accade qui è che le strutture - e oggetti - tipici di quei posti, vengono dissolti in uno spazio «aperto» e modernista, quello del padiglione stesso (costruito da Gerrit Rietveld). Così, il territorio viene creato fra i due pali e si trasforma in qualcosa di transizionale, perdendo i connotati di «area ristretta», di ghetto. Anche nei video ho fatto la stessa operazione: momenti imprevisti di trasgressione o di rovesciamento non fanno altro che aprire nuovi spazi mentali.
Pensa che l'arte possa avere una funzione educatrice e una voce nella politica che si allontani da quella mediatica?
Sì, non in senso didattico ma può
creare uno spazio per l'immaginazione. Può aiutare a realizzare un'esperienza in forme alternative e «correggere» i meccanismi dei media.da Il manifesto



2007-07-27