articolo 2532

 

 
 
Memoria e attualità nella poesia di Domingo Notaro
 











La lettura di un poeta non è mai un’operazione semplice. Intanto nel caso di Domingo Notaro può valere a buon titolo l’osservazione oraziana “ut pictura poesis “ avendo sempre coltivato il duplice campo dell’arte figurativa e della poesia, E nel suo caso si avvalora la considerazione di Simonide di Ceo, da cui proviene del resto l’osservazione oraziana appena ricordata, secondo cui la pittura è una poesia muta e la poesia è una pittura parlante.  Pittura e poesia hanno nel caso di Notaro un’origine comune. A quanto pare, infatti, la vocazione nasce da quando ancora bambino il nostro autore esce da casa con dei tizzoni accesi e comincia a disegnare nell’aria, quasi il segno premonitore di un destino che affascinerà da qual momento in poi il nostro poeta e che fa venire il mente il famoso palindromo di derivazione virgiliana “in girum imus nocte et consumimur igni”:  il fuoco  della creatività che attanaglia e distrugge simile forse alla tentazione delle falene attratte dalla luce fino a morire.
Il volume che Domingo Notaro pubblica in questi giorni, intitolato Mi Buenos Aires Que Rio” nella doppia versione italiana e spagnola può rappresentare   a buon titolo  un vademecum  utile per capire ed interpretare la sua  concezione della creatività. Nell’opera di Notaro, infatti, il segno e il verso hanno marciato per così dire di pari passo nel senso che entrambi hanno puntato al recupero ovvero all’affermazione di una essenzialità priva di orpelli ma che  mira a fare emergere l’humus vitale più autentico ed in questo  l’impegno dell’artista e del poeta  è andato di pari passo con le ricerche più consapevoli delle avanguardie del Novecento. Per il verso viene fuori in particolare una poesia della visione che rimanda anche a grandi precedenti del passato. Ma è sulla parola che si incentra probabilmente il discorso critico di maggior momento in quanto il poeta tende
al conseguimento di una essenzialità  in grado di esprimere quella genialità istintiva del bambino già segnalata e  che  aveva individuato  non  a caso anche Pablo Picasso  in un luminoso giudizio sul suo lavoro  senza dimenticare  in questo contesto  che un altro grande protagonista dell’arte del Novecento come Joan Mirò  ebbe ad affermare che il suo obiettivo era arrivare a dipingere  come un bambino.
C’è tuttavia un altro aspetto per niente secondario nell’opera di Notaro che merita di essere approfondito e che attiene al rapporto con l’Argentina e la sua storia di cui non a caso sono testimoni  il fiume di Rio de la Plata  e gli alberi della città di Buenos Aires. La poesia entra nel cuore del discorso, si fa  testimone e documento  pregnante di  un dolore  civile  che il tempo sembra non riuscire a superare e non solo perché le ferite della storia sono tuttora patenti se si pensa 
che  ancora oggi, secondo stime recenti e attendibili, oltre il cinquanta per cento degli argentini  vive  al di sotto della soglia di povertà. E la memoria di ciò che è accaduto è ancora viva giacché è soltanto nella memoria che si sostanzia la realtà dell’esistenza. L’ha detto proprio un grande figlio dell’Argentina, Jorge Luis Borges, e oggi e per sempre sono ancora i versi di Notaro a testimoniarlo.
Antonio Filippetti

Domingo Notaro
Mi Buenos Aires Que Rio
Versione italiana e spagnola,
La Scuola di Pitagora editrice
pp. 414, euro 35,00



2024-10-16