articolo 2510

 

 
 
IL VELO STRAPPATO
 











Questo bel lavoro parte da reali verità storiche, dunque autentiche, con un esempio molto sofferto degli infiniti casi accaduti. “Te l’ho detto, non ho la vocazione. Abbi pietà!” implorò la figlia: queste le prime parole che la sventurata Enrichetta (orfana senza dote!) rivolge alla severa madre, nobildonna in difficoltà economiche vedova dei Caracciolo di Forino e con sette(!) figlie. Stanno salendo i 33 gradini delle maestose scale del convento benedettino di San Gregorio Armeno scelto da lei per rinchiudervi la figlia quasi 19nne. E, ai primi contatti nel monastero, la giovane aggiungerà “Dio mio, come sopravvivrò?”. Siamo a inizio 1840 nella capitale del Regno delle Due Sicilie, Napoli, dove regna Ferdinando II del casato Borbone. Tempi ben lontani dagli attuali, anche se gli anni intercorsi non sono poi tantissimi ma di certo abitudini sociali, atteggiamenti, rapporti tra coniugi, tra maschi e femmine, oggi appaiono del tutto impensabili, con l’emancipazione femminile nelle tappe primarie risalente solo a pochi decenni or sono (e oggi ancora incompleta…). E, nel giorno della vestizione, ecco cosa pensa la poverina:
"Non perdere l’orizzonte dei tuoi sogni, continua a sognare e la tua anima sopravvivrà" ripeteva a se stessa per farsi coraggio, mentre la navata veniva invasa dalle note dell’organo. La chiesa illuminata a giorno da centinaia di lampade era parata a festa. (…) Di quella folla variopinta, nella luce abbagliante, Enrichetta non vedeva che una massa informe e confusa, le sembrava di galleggiare, di osservare il tutto dall’esterno, come se l’anima sua fosse scappata fuori insensibile al proprio dolore.”
Entrata in convento qualcosa si rompe dentro ed ecco cosa accade, primo segnale di un supplizio che durerà lunghi anni finendo solo con la caduta del Regno:
“Rimase una settimana a letto incapace di reagire, il corpo senza energia, la testa vuota. Era in uno stato così
pietoso che anche la conversa Angiola Maria ne ebbe pietà e la lasciò in pace. Le portava un vassoio con il cibo che lei non toccava: inerte e senza forze, dormiva e piangeva, piangeva e dormiva. Che l’avessero spostata in una cella singola non era di consolazione.
Emblematiche le parole del destino che il padre Fabio, nobile e generale, purtroppo caduto in disgrazia presso il re, dice alla figlia prediletta sul letto di morte, e che lei confiderà nel suo pieno sconforto sul futuro a una sorella:
“Mi ha detto: "Muoio in pena per te... Tua madre non ti ama... Che ne sarà di te, povera figlia?"
Leggiamo quindi di gesti immutabili che si sono ripetuti per secoli in ambienti sempre uguali, perdenti ogni luce di sacralità ridotti come sono a essere teatri di vicende e pensieri che ben poco hanno di religioso e men che mai di sacro, più che conventi veri e propri nidi di vipere... In un mondo di tutte donne - e, peraltro, è così anche per un mondo di soli uomini - il
rituale consolidato è fatto di parole e atti davvero immutabili e molto censurabili. Il destino di Enrichetta è tracciato e la poverina non ha scampo. Unica sua fortuna è quella di avere un carattere forte e combattivo che l’aiuterà a fronteggiare i già gravi problemi con la madre ma anche quelli ancor maggiori che troverà con il suo diabolico persecutore, il cardinale Sisto Riario Sforza 35nne arcivescovo di Napoli, che l’assedierà, diabolico, ottuso e implacabile, per decenni. Dopo la sua visita al convento, bello ed elegante, Enrichetta penserà:
"«Forse sono davvero un bastian contrario, ma l’uomo non mi piace, ha qualcosa di ripugnante. Ha labbra troppo sottili, una bocca cattiva. Un signorino bennato travestito da principe ecclesiastico» disse a se stessa. E quella prima impressione pregiudicò il suo futuro.”
Nemmeno una prima supplica al Papa Pio IX per cambiare almeno sede, finita nelle mani del cardinale, avrà alcun esito. E questi arriverà persino a mettere i
bastoni tra le ruote quando la monaca – per intercessione dei nobili parenti - otterrà un Breve pontificio per poter lasciare il convento passando a un conservatorio. Tutti quelli presenti in città inizialmente la rifiuteranno, poi qualcosa cambierà a suo favore… I ripetuti colloqui privati tra i due nel convento e l’accanimento del porporato possono essere ben letti come passione mascherata dell’uomo verso la monaca, ma per questa ogni cedimento sarebbe stato più che mai impensabile date le premesse mentali e l’odio provato verso l’uomo profumato come un damerino. Quale ultima subdola manovra lo Sforza, per farla rientrare a San Gregorio, le proporrà nel seguito - attraverso un delegato - di nominarla addirittura badessa del convento stesso.
Entrata in clausura con la promessa materna che vi sarebbe rimasta due mesi, quando uscita contravviene all’ordine della madre di lasciare Napoli per Reggio Calabria, e lei si infuria. Per placarla, come soluzione creduta migliore, decide di
tornare in convento. Ma, fatto ciò, la zia - sorella del padre e badessa in esso - dicendo che quello non è un albergo le impone la promessa di prendere i voti. Distrutta accetta, poi si sente spacciata e scrive alla madre:
“Mamma cara, poiché non mi lasci alternative, ho accettato di suicidare la mia volontà e farmi monaca. Sai bene quanto detesti il chiostro, così come sai che la clausura è una solitudine che sa di morte. Mi aspetta una vita senza affetti e senza aspirazioni, perché tu vuoi così, e io non posso che sottomettermi, ma lo faccio con la morte nel cuore.”
Ed ecco cosa dirà al suo confessore Francesco (il confessore è l’unico uomo con il quale una monaca può avere un contatto ripetuto) il giorno dopo la vestizione:
“Per vivere serena smetterò di avere aspettative. Ho deciso di chiudere il mio spirito in una parte remota di me, creerò un secondo monastero, sarà un edificio soltanto mio dove vivrò in solitudine tra i miei pochi libri e la meditazione.
Insomma, mi rifugerò in una piatta malinconia. I miei sogni li ho sotterrati sotto un cumulo di pietre.”
Curatissima l’analisi dei sentimenti della sventurata Enrichetta. Un ingegno non comune e profonde capacità di analisi interiore funzionano come un affilato coltello che si fa strada nella testa e nei pensieri della giovane. In fondo solo una tenera ventenne con nessuna esperienza di vita, e il capire troppo è il suo peggior nemico infestandole di atroce sofferenza ogni giorno di esistenza. Dettagliate le descrizioni di ambienti e cerimonie, testimonianza di accurata indagine da parte dell’Autrice di norme dell’epoca, oggi cadute in disuso nei tempi fin troppo affrettati dell’oggi.
Brunella Schisa (Napoli, 1953) oltre che scrittrice è anche ottima giornalista sin dagli anni ‘80. Ha esordito nella narrativa con “La donna in nero” nel 2006, romanzo centrato su un amore del celebre pittore francese Edouard Manet. Molto preciso e pertinente il lavoro preparatorio di questo
curato lavoro, attinto su memorie e testi storici che hanno consentito di narrare in termini moderni le incredibili disavventure dell’eroina, monaca forzata, che dall’età di 19 anni sino alla maturità verrà rinchiusa in condizioni aborrite e sofferenze senza fine. Un carattere fortissimo che mai si piegherà a fronte di decine di soprusi e sopraffazioni, camuffate da volontà del Cristo. E il sottotitolo del lavoro “Tormenti di una monaca napoletana” ben chiarisce a cosa andremo incontro nella lettura…
Il giorno della professione di fede per Enrichetta così si conclude:
“Andato via il pubblico, i cancelli del monastero tornarono a stridere sui loro cardini. Adesso un baratro separava Enrichetta dal mondo. Aveva abdicato a tutto, anche alla sua personalità, ma non alla ragione che, a dispetto di tutto, avrebbe continuato a spingerla verso la vita e verso gli umani. Lei però questo ancora non lo sapeva.”
La terribile situazione relazionale all’interno dei conventi li
rendeva molto più simili a tristi ricoveri per malati mentali. Tutte le internate presentavano sintomi di disturbi psichici, per alcune particolarmente gravi. Per nulla rari i suicidi, magari gettandosi nel pozzo al centro del chiostro. Le gelosie reciproche, i dispetti, l’assoluta incapacità delle badesse di affrontare e controllare un nutrito gruppo di giovani disturbate dalle condizioni di vita imposte e rovinate dall’obbligato monacarsi di tante, i molti preti peccatori profittatori delle più deboli rendendole schiave del vizio, rappresentano una somma di elementi disgreganti che, anche fuori dalle mura chiuse, minaccerebbero pesantemente l’equilibrio mentale di chi vi è soggetto.
A Mondragone, il ritiro dove giungerà con un ulteriore “editto” Sforza, la cella e i divieti ricevuti lo faranno sembrare più un carcere che un luogo monacale. Tra l’altro non può ricevere nessuno né andare nei luoghi di ritiro comuni alle altre suore. Ed ecco cosa scrive la madre in una lettera
clandestina nascosta in mezzo alla biancheria pulita, dato che la figlia non ha più nemmeno la conversa per aiuto personale:   
Figlia mia, sono avvilita, sei la peggior nemica di te stessa. Adesso hai due poteri alle calcagna: la polizia borbonica e l’arcivescovado. Rinchiudendoti ti tengono alla larga dai guai. E io penso che tu debba rassegnarti.”
Avvilita e distrutta Enrichetta tenterà anche il suicidio con un coltello sottratto al giardiniere del ritiro, ma fallirà e per la debolezza del braccio e per l’ostacolo degli indumenti indossati. Non vede alcuna via d’uscita dai tormenti, assoluti e infiniti, e fisicamente diventerà il fantasma di se stessa.
Il racconto è la storia dannatamente pietosa delle disgrazie cui la forzata andrà incontro per ben vent’anni senz’essere in nulla colpevole della decisione di una madre mal disposta verso di lei. È un caso che spinge a pietà nel leggere i tanti soprusi cui la giovane, poi donna, viene sottoposta da
mentalità forse al fondo cristiane, ma certo incupite dagli assolutismi dell’epoca e dal vergognoso sottostare dei più alle pretese dei “potenti” del tempo. Un male certo sempre esistito nella storia umana e nessun tempo può esserne considerato immune, fortificato com’è dalla debolezza della nostra natura che, per procurarsi il meglio a proprio beneficio, non esita a offendere e prevaricare chiunque capiti a tiro. “O tempora, o mores!”: il ciceroniano detto, vecchio di circa 22 secoli, MAI ha smorzato la sua universale efficacia nelle “povere” comunità umane… E, finalmente!
“Le vetture si mossero. Enrichetta appiccicò il naso al vetro per guardare da una diversa prospettiva le mura che l’avevano tenuta prigioniera e le venne in mente la terzina del primo canto dell’Inferno: "Così l’animo mio, ch’ancor fuggiva, / si volse a retro a rimirar lo passo, / che non lasciò già mai persona viva". Lei dall’inferno ne era uscita viva e non ci sarebbe più tornata.”
Ma il cammino
sarà ancora lungo e tormentato, passando per varie ospitalità, l’una peggiore dell’altra. Solo il rosso delle redentrici camicie garibaldine la condurrà - dopo il desolato ventennio - verso le spiagge dell’agognata libertà, corporea e mentale: 
“Si tolse il velo e se lo strinse al seno. Quanto l’aveva odiato! Lo teneva con le due mani, stropicciandolo con le dita, stringendolo tanto da sentire le unghie conficcarsi nella pelle. Non l’avrebbe indossato mai più. Con quel gesto strappava l’ultimo filo che la legava alla vita monastica. Attese che la cattedrale si svuotasse rimanendo rincantucciata nella cappella. Piangeva, non riusciva a smettere. Garibaldi era uscito portandosi dietro il codazzo istituzionale e il popolo delirante, mentre le campane del Duomo e di tutte le chiese della città suonavano a distesa. Napoli si era consegnata al dittatore senza sparare un colpo. (…) Quando la cattedrale fu sgombra lasciò la cappella e raggiunse lentamente l’altare, ripensando al
giorno di tanti anni prima quando si era inginocchiata in un’altra chiesa per dare i voti solenni. Teneva il velo lungo il fianco con il braccio steso, lasciandolo strusciare sul pavimento come lo strascico di una sposa. Voleva restituirlo alla Chiesa che glielo aveva dato due decenni prima. Salì i primi sei gradini e fece un profondo respiro, poi gli ultimi quattro, lentamente, per imprimersi nella memoria quel gesto. Lo depose ai piedi dell’altare. Assieme al simbolo della sua schiavitù deponeva ogni risentimento. Adesso era tutto finito, dal Duomo sarebbe uscita donna libera. Sentì una stretta al cuore, avrebbe voluto sua madre accanto, poi immaginò l’adorata sorella Giuseppina sorriderle. Era certa che tutte e due, ovunque fossero, stessero assistendo alla sua rinascita. Si voltò e si avviò verso l’immenso portale cercando di sondare il suo animo. Che cosa provava? Non sapeva rispondere. Possibile che la felicità non facesse rumore?”
Finalmente la nuova donna poté
iniziare una vita normale, rispondente alle proprie passioni e inclinazioni. Una salvezza tardiva ma, proprio per questo, ancor più apprezzata! Una grande donna, un’antesignana, precorritrice di tempi nuovi del tutto inimmaginabili allora…
“Enrichetta sposò Giovanni Greuther, con rito evangelico il 1º marzo 1861. Provò a ottenere il permesso dalla Chiesa ma le venne negato. Libera dall’abito religioso e dalle persecuzioni, dai cospiratori e dalle spie, l’ex benedettina si diede all’impegno politico.”
Era un’attrazione fisica di gran tempo addietro e la vita proseguì per lei come scrittrice di memorie – “Misteri del chiostro napoletano” (Barbera, 1864) ebbe un enorme successo: vendette 16.000 copie (incredibile! A QUEI TEMPI!!!) - e di teatro, oltre che attiva osservatrice e operatrice politica. Assisterà il marito invalido per lunghi anni (morirà nel 1885), e finirà dimenticata il 17 marzo 1901 in Napoli.
Sinceri COMPLIMENTI alla strenua, precisa, laboriosa e
agguerrita Autrice di questo libro!
Luigi Alviggi

Brunella SCHISA: Il velo strappato
Harper Collins, 2024 – p. 352 - € 19,50



2024-05-22