articolo 2479

 

 
 
in memoria di Giovanbattista Cutolo
 







Rosario Ruggiero




Nella realtà che ci circonda esistono paradossi che sottendono sottili equilibri. Un’automobile notoriamente sarà più veloce quanto minori saranno gli attriti della carrozzeria con l’aria e degli pneumatici con il terreno. Ma se l’attrito delle ruote con l’asfalto fosse addirittura nullo, gli pneumatici non avrebbero alcuna presa al suolo ed il veicolo, per quanto potente, non si muoverebbe di un centimetro. E già il grande filosofo Immanuel Kant, nel XVIII secolo, osservava nella pagine della sua Critica della ragion pura, che l’aria frena la corsa di un uccello, ma, al tempo stesso, ne sostiene il volo.
Anche l’artista soggiace ad un sottile paradosso, tra l’altro vitale, con il commercio. Farà arte tanto maggiore quanto più offrirà al pubblico ciò che egli ritiene in piena coscienza sia meglio per esso, farà misero commercio ogniqualvolta si piegherà ad offrire alla gente quello che la gente più banalmente vuole. Il paradosso sta
nel fatto che poi è proprio il commercio che permette all’artista di vivere della sua arte.
 Esemplare, all’uopo, la dichiarazione dell’illustre Pablo Picasso nel corso di un’intervista:«  Da giovane, come tutti i giovani, ho avuto anch’io la religione dell’arte, della grande arte. Ma poi, col passar degli anni, mi sono accorto che l’arte, come s’intendeva fino a tutto l’Ottocento, è ormai finita, moribonda, condannata e che la cosiddetta “attività artistica”, con la sua stessa abbondanza, non è che la multiforme manifestazione della sua agonia. Gli uomini vanno sempre più disaffezionandosi di pitture, sculture e poesie, nonostante le contrarie apparenze. Gli uomini di oggi hanno messo il loro cuore in tutt’altre cose: le macchine, le scoperte scientifiche, la ricchezza, il dominio delle forze naturali e delle terre del mondo. Non sentono più l’arte come bisogno vitale, come necessità spirituale, a somiglianza di quel che in altri secoli accadeva. Molti di loro seguitano a
fare gli artisti e ad occuparsi d’arte, ma per ragioni che con l’arte vera hanno poco a che vedere, cioè per spirito d’imitazione, per nostalgia della tradizione, per forza d’inerzia, per amore dell’ostentazione, del lusso, della curiosità intellettuale, per moda o per calcolo. Vivono ancora, per abitudine e snobismo, in un recente passato, ma la grande maggioranza, in alto e in basso, non ha più una sincera e calda passione per l’arte, che considera tutt’al più come spasso, svago e ornamento. A poco a poco le nuove generazioni, innamorate di meccanica e di sport, più sincere, più ciniche e più brutali, lasceranno l’arte nei musei e nelle biblioteche, come incomprensibili e inutili relitti del passato. Un artista che vede chiaro in questa fine prossima, come è avvenuto a me, cosa può fare? Troppo duro partito sarebbe quello di cambiar mestiere, e pericoloso dal punto di vista alimentare. Ci sono, per lui, soltanto due strade: cercare di divertirsi e cercare di far quattrini.  Dal momento che l’arte non è più il cibo che alimenta i migliori, l’artista può sfogarsi a suo talento in tutti i tentativi di nuove formule, in tutti i capricci della fantasia, in tutti gli espedienti del ciarlatanismo intellettuale. Nell’arte il popolo non cerca più consolazione ed esaltazione; ma i raffinati, i ricchi, gli oziosi, i lambiccatori di quintessenze, cercano il nuovo, lo strano, l’originale, lo stravagante, lo scandaloso. Ed io, dal cubismo in poi, ho contentato questi signori e questi critici con tutte le mutevoli bizzarrie che mi son venute in testa, e meno le capivano e più mi ammiravano. A forza di spassarmela con tutti questi giochi, con queste funambolerie, con i rompicapo, i rebus e gli arabeschi, son diventato celebre abbastanza presto. E la celebrità significa, per un pittore, vendite, guadagni, fortuna, ricchezza. E ora, come sapete, son celebre, son ricco. Ma, quando son solo, fra me e me, non ho il coraggio di considerarmi un artista nel senso grande e antico della parola. Veri pittori furono Giotto e Tiziano, Rembrandt e Goya: io sono soltanto un amuseur public, che ha capito il suo tempo e ha sfruttato meglio che ha saputo, l’imbecillità, la vanità e la cupidigia dei suoi contemporanei. E’ un’amara confessione, la mia, più dolorosa di quel che vi possa sembrare, ma ha il merito di essere sincera».
Il Rinascimento italiano si presenta come epoca aurea per le arti, eppure i pittori e gli scultori di quei tempi dovevano frenare la propria più indipendente creatività sottomettendosi ai voleri dei committenti che imponevano l’argomento dell’opera, quasi sempre ritratti, scene mitologiche o bibliche, e modalità , sostanzialmente encomiastiche, perché nell’arte vedevano la posterità, della loro immagine, del loro prestigio, delle loro idee. Il Novecento, che vedrà l’artista affrancarsi sempre più dalle committenze, gli offrirà maggiore autonomia espressiva, ma ben più
 problematiche possibilità di sopravvivenza.
Oggi, epoca di
culto dell’immagine, di crisi di valori e di pubblici ampi, superficiali ed incolti, vivere di arte impone di essere popolari, costi quel che costi. Così Giorgio Gaber osservava, ed il filmato inerente è facilmente reperibile in rete informatica: «…uno ha successo solo se è popolare. E dato che i gusti della gente sono imprevedibili, uno può essere popolare perché è bello,… simpatico, …perché è bravo,….no, non perché è bravo… , il campionario degli aspiranti è infinito,  impiegati, piccoli artigiani, consiglieri comunali, mamme di tossicodipendenti, pornostar, pescatori, preti, scienziati, giornalisti, magistrati, politici, tutti, tutti vorrebbero la prima pagina del Times. Non ha importanza quello che fai, basta farsi conoscere».
E, a proposito di commercio e delle sue tristezze, Dinu Lipatti fu importante pianista rumeno, purtroppo prematuramente scomparso a causa di malattia a quei tempi incurabile.  Piero Rattalino, rinomato critico di interpretazione pianistica, nel
suo libro “Da Clementi a Pollini. Duecento anni con i grandi pianisti”, così scrive: «Lipatti desiderava certamente di fare le incisioni. Ma, al contrario degli altri, egli non sospettava che il miglioramento della salute fosse temporaneo, lo si deduce da alcune lettere a Sacher, da una lettera alla Haskil e da una cartolina alla Musicescu. Non posso né voglio esprimere riprovazione, che sarebbero di moralismo sentimentale, ma quel forsennato balletto intorno ad un morente che si crede risanato, quello che scrive, quello che sta all’erta, quello che compra il grancoda, quello che interrompe le vacanze mi fanno una ben trista impressione. E mi commuove il concerto del 16 settembre a Besançon, puntualmente registrato dalla radio francese e pubblicato dalla Columbia, con un Lipatti che non ce la fa più ad eseguire l’ultimo Valzer di Chopin in programma, non posso neppur dimenticare che quel concerto fu registrato, penso, perché aveva ottime possibilità di essere l’ultimo».
Succede
ancora?
Recentemente le cronache hanno riportato la morte, a Napoli, di un giovane musicista, Giovanbattista Cutolo, per efferata mano. Una vittima, come purtroppo tante altre, di bestiale violenza metropolitana. Ma stavolta strombazzamento mediatico e dibattiti televisivi non si sono risparmiati, e già, tempestiva, è iniziata una piccola rassegna, tutt’ora in corso, di concerti che vedono protagonisti la Nuova Orchestra Scarlatti di Napoli ed i Solisti della Nuova Orchestra Scarlatti. Titolo, “in memoria di Giovanbattista Cutolo”.
A questo punto queste righe non si esimeranno certo dal lodare un’iniziativa che ricordi una giovane, innocente vittima, né la generosità degli artisti che si sono così prontamente prestati.
Lasceranno però qualunque altra considerazione al libero discernimento di ogni più sagace lettore.

 



2023-10-01