articolo 2407

 

 
 
Disappartenenza e alienazione ne La follia in 3D di Piero Zucaro
 











<<Ciò che noi conosciamo di noi stessi non è che una parte, forse una piccolissima parte di quello che noi siamo.  E tante e tante cose, in certi momenti eccezionali, noi sorprendiamo in noi stessi, percezioni, ragionamenti, stati di coscienza, che son veramente oltre i limiti relativi della nostra esistenza>> .
È nella tecnica umoristica del pensiero pirandelliano il segreto della scrittura di Piero Zucaro; scrive sapientemente Antonio Filippetti su “la Repubblica” del  14 ottobre 2019: <<Zucaro si ripresenta per così dire in scena con tre monologhi drammatici raccolti con un titolo che chiarisce subito gli intenti dell’autore che intende riflettere sul tema sempre aperto e discusso del disagio mentale. La trilogia è sostenuta e raccordata da un comune e reiterato filo conduttore qual è quello della difficoltà di capire e forse anche di guarire il “diverso”, afflitto da un
malessere che risulta in ogni caso di non facile comprensione. Ma nel profondo vive e si agita ogni volta un senso di vuoto, un’assenza incolmabile proprio perché è difficile stabilire  il come e il perché. […] E laddove necessariamente acquista spessore e valore il ruolo dell’immaginazione e si afferma la valenza determinante della fascinazione onirica. In quest’ambito ogni analisi diventa al tempo stesso impegnativa e seducente, giacchè coinvolge un aspetto che il teatro nel suo percorso ha seguito e sviluppato con grande intensità e passione, dai classici dell’antichità agli autori moderni e contemporanei come Pirandello, Weiss, Durrenmatt e buona parte dei drammaturghi del cosiddetto teatro dell’assurdo. Ora anche la trilogia di Zucaro aggiunge un altro tassello a quella ricerca di verità che da sempre “l’arte della commedia” si propone giustamente d’indagare e disvelare>> . I tre monologhi di Piero Zucaro, raccolti in questo agile volume, dal titolo, La follia in 3D. Trilogia drammaturgica sul disagio mentale, Postfazione di Adolfo Ferraro, Cosenza, Ottavamiglio Laboratorio, 2019, tendono, nelle loro diverse articolazioni espressionistiche, ad una visione dostoevskiana dell’io; i monologhi-stream di queste creature muovono da una scena onirica e da una farneticante malattia dell’essere. È il teatro della follia, ai limiti della vita, in preda ad un’esistenziale crisi di nervi, in cui si recita a soggetto e dove gli attori non hanno un canovaccio fisso e non recitano, seguendo un copione prefissato. Siamo vicini allo spettro dei pericolosi procedimenti costrittivi del disagio mentale e ad un tentativo di liberazione di quella psichiatria repressiva e dogmatica che, nella Legge Basaglia, n.180 del 13 maggio 1978, trovò il suo momento favorevole per asserire che la psichiatria tradizionale aveva fallito e che iniziava un “nuovo corso” per la malattia mentale. Il modello manicomiale, rassicurante e confortevole, svuotava di significato il senso profondo della malattia mentale; il teatro o, se si preferisce lo psicodramma diventa la quarta parete, che apre alla soggettività dei malati e alla capacità di esprimere in libertà i loro fantasmi. Questi tre monologhi disvelano la visionarietà eidetica di questi personaggi, segnati dalla malattia, ma che vivono la loro storia vera, esponendosi a tutte le mancate potenzialità espressive del mutacismo e dando una funzione psicoterapeuta al teatro, <<quando è capace di buttar giù il muro dell’impossibilità, che è il primo a dividere e dividerci>>, scrive egregiamente Piero Zucaro nella prefazione. L’autore ci fa vivere l’inimmaginabile e l’invisibile, mediante la capacità di dislocazione emotiva, che attraversa il registro psichico, che non è mai esorbitante, dell’io diviso. Piero Zucaro dà voce ad un patema d’animo inguaribile, ma che, mediante il camuffamento della scrittura, coglie una delle tante opportunità, per comprendere il reale valore del disagio psichico. Egli analizza il lato oscuro della malattia del profondo, prendendo in esame l’io diviso e il malessere della mente in questi tre monologhi. La disidentità e la contigua affinità elettiva, tra pulsioni represse e finzione letteraria, trovano, nel metodo delle libere associazioni del lavoro analitico, un ideale riscontro, nel fantasma creativo delle emozioni dell’oltre, del doppio e dell’altrove. Questo testo si muove in un’area delimitata dall’inappartenenza e dalla ricerca dell’altrove. Le tre drammaturgie, raccolte in questo volume, “prendono spunto dal vissuto di alcuni protagonisti di una nota serie di casi clinici pubblicati, negli anni Settanta, da alcuni psichiatri inglesi” e da alcuni soggetti direttamente conosciuti dall’autore, nel corso della sua lunga esperienza di laboratorio di teatro sociale sul disagio mentale . L’implosione del lutto non troverà mai un superamento, se non “fuori della vita”; per loro, la vita è una “malattia mortale” e una sofferta attesa, in limine mortis. In famiglia, l’esperienza tragica della malattia è vista come un disagio irrecuperabile e l’alienazione diventa un punto focale su cui ogni possibilità di dialogo è pressoché impossibile e non esiste alcuna via d’uscita per una scelta dialettica, se non quella teatrale. Nella descrizione dei singoli drammi, quello dell’anonima A., protagonista di chi ha nascosto il diario di mia sorella?, quello di Sara, protagonista di Chi ha nascosto il diario di mia sorella?, quello di Sara, protagonista di Le dalie di Sara non  conoscono i Beatles. Uno “Shabbat” di ordinaria follia e quello del ciclotimico Pasquale, protagonista di Lasciateci almeno la notte , vengono a convergere i nodi problematici del groviglio famigliare come fucina dell’incomprensione e dell’incomunicabilità.
Lo stato di emergenza psicologica nasce, per l’appunto, dalla conflittualità del nucleo familiare e l’esperienza della malattia, nell’anonima A., in Sara e in Pasquale, ha come scaturigine l’impatto con l’universo
del “romanzo familiare”. Freud, ne Il romanzo familiare dei nevrotici (1908), scrive: <<La psicologia della nevrosi insegna che, tra  gli altri fattori, al senso che il bambino prova di essere messo in disparte, contribuiscono i più intensi impulsi di rivalità sessuale. Quando cresce e tenta di staccarsi dai genitori, il bambino considera la loro autorità come ostile e risponde con la sensazione che il proprio affetto non sia pienamente corrisposto. Il maschio si mostra di gran lunga più incline a moti ostili verso il proprio padre che verso la madre. Il grado evolutivo ulteriore da questo incipiente estraniamento dai genitori si può indicare col nome di “romanzo familiare” dei nevrotici>> . È un fantasma particolare, secondo Freud, nel  quale il soggetto immagina di essere nato da genitori di rango sociale elevato, mentre disprezza i propri, pensando di essere un bambino da essi adottato. In altre varianti di tale fantasma, l’io può imputare alla madre relazioni sentimentali nascoste o può considerarsi l’unico figlio legittimo di sua madre. Tali elaborazioni subentrano, quando il bambino si confronta con il distacco che deve necessariamente compiere nei confronti dei genitori. La vicenda di questa anonima A., donna schizofrenica, è la storia di tante donne , segregate in manicomio, fino agli anni Settanta, il cui trattamento medico psichiatrico era caratterizzato dal massiccio uso dei sedativi e di insulina e di oltre cinquanta elettroshock all’anno. La famiglia, probabilmente, era la causa patogenetica della sua malattia mentale. La protagonista anonima, in preda ad un delirio visionario, sull’onda del proprio immaginario onirico, con un surreale Gioco dell’Oca, raggiunge, attraverso una scala a pioli, il diario di sua sorella, ripetendo ossessivamente: <<È che queste cose le diceva al dottore. Io sentivo, ma restavo fuori. Non ricordo gran che a questo proposito>> . In questo universo alienante, la realtà supera ogni immaginazione e <<il mondo, così, non può sembrare completamente reale. Se non si fanno delle cose, le cose non sono mai completamente reali>> . Nell’assurdo isolamento dell’io, lo sdoppiamento, nell’immagine speculare della sorella, trova una sua giustificazione, perché la malattia è per questo personaggio uno dei tanti varchi, per comprendere il reale valore conoscitivo dell’esistenza e un’indagine acuta sul mistero della schizofrenia. La vita è una malattia incurabile, un male senza remissione, ma che aiuta a capire il gioco delle immagini di queste tre storie avvincenti, che procedono sul subdolo discrimine del disagio mentale. La rinuncia al discorso logico porta al silenzio afasico, esso si lega ad una fisicità reificata, che dischiude sempre di più i limiti della realtà. Nell’arcipelago della disidentità, non a caso la saggezza alchemica si è appropriata del detto zenoniano unus ego et multi in me: un manifesto emblematico della moltiplicazione dell’io. Nei personaggi della mente, Pontalis afferma: <<Ci vogliono parecchi luoghi dentro di sé per avere qualche speranza di essere se stessi>>. È un’affermazione che avalla il buon funzionamento della mente, per una pacificata convivenza di molteplici stati del Sé. Non esiste dinamica psichica senza conflitto; per la psicoanalisi, il più classico dei conflitti è quello edipico, ovvero la convivenza della famiglia interiore che costruiamo a partire dalla famiglia in cui siamo nati; da una parte, “il desiderio, il bisogno, la tenerezza e il legame”, scrive Vittorio Lingiardi, dall’altra, “la proibizione, l’esclusione, la rivalità, il timore della punizione” . La nostra vita mentale è impegnata a organizzare la convivenza di una tregua apparente tra parti che si oppongono con pensieri divergenti e posizioni contrapposte. <<Io loderei un’anima a diversi piani>>, scrive Montaigne; questa scansione a vari piani in questi personaggi di Zucaro nasce dall’idea che il mondo interiore delle convivenze è inevitabilmente concentrico. È impensabile vivere in un sistema isolato, improbabile di un io senza un tu speculare o immaginario. Il ritmo inquieto della relazione e il tentativo di negoziare appartengono al rapporto io-tu: la genitorialità, la famiglia, l’amicizia, la psicoterapia, l’insegnamento. Senza un tu, l’io si svuota come, nel primo monologo, si prosciuga, senza la ricerca della totalità e degli insiemi infiniti, nello sviluppo del tema e della molteplicità del Sé, decentrato e dialogico, che è sempre in interiore homine. Reagire armoniosamente con l’esterno, è questo il vero trauma delle dinamiche conflittuali di Chi ha nascosto il diario di mia sorella?: <<Lui è qui, Lui è lì, Lui è ovunque in ogni dì … Lui è qui, Lui è lì, Lui è ovunque in ogni dì>> . L’abisso del nulla è vissuto come rimozione coatta e la colpa lacera perfino la parola che diventa un mezzo inaffidabile della comunicazione, da parte di chi vive nella sfera dell’impensabile e nel turbine delle emozioni. La malattia di Sara è al  centro di una conflittualità familiare e di un’eccessiva ostilità per il padre, rigoroso e di specchiata onestà. Sara sarà ricoverata in manicomio, in seguito ad un improvviso scoppio di violenza nei confronti del padre. Con la loro sessualità inappagata, è difficile, in queste creature, intravedere uno statuto razionale, perché la divisione dell’io interagisce con la malattia, che è intrinseca alla realtà fenomenica, e non supera l’alterità e la malattia dell’essere. Sara travalica ogni limite e vortica in una dimensione di surrealtà, come sentimento della mancanza e dell’assenza, suscitando un furore distruttivo contro ogni tipo di valore. La rappresentazione del conflitto del nucleo familiare, in questo “intimo paludoso”, compone la logica dell’inconscio di un campo di forze in tensione. Questi sintomi ci consentono di cogliere “la diversità” della malattia e una scena psichica in disfacimento, soprattutto nell’anonimo personaggio di A.: <<Il guaio era che io … avevo delle allucinazioni. Non vere allucinazioni, erano … Io mi sentivo dentro di poter vedere … chiarissimo … tutto vedevo … tutto chiaro … silenzioso … quieto e chiaro … tutto questo … tranquillissimo … Ma forse mi sbagliavo>>. <<Mi pare che sarò sempre felice dove non sono. […] Dovunque, fuori dal mondo>>.  Lo spaesamento, prodotto dal fantasma della negazione, esibisce, come possibilità di salvazione, la consapevolezza della fine di un tempo presente-acronico, vissuto come assoluto e astorico. L’angoscia di queste creature muove verso un’improbabile costruzione di un orizzonte di senso, oltre la dimensione umana: tutto, secondo Freud, in questa fase, attiva il sentimento della caducità e svilisce “il godimento del bello”. Il lavoro interminabile dell’analisi opera entro quest’orizzonte e la morte dell’io diventa  il principio di coesione del mondo. Il pensiero negativo si disvela attraverso il “ritorno del rimosso” e smentisce il principio di realtà, che viene annullato dal magma onirico della dissociazione dell’io. “Il tempo ritrovato” della malattia legittima la “coazione a ripetere” dell’inconscio, nel tempo acronico, di questi monologhi deliranti: <<Comincia lo spettacolo! È colpa mia! È solo colpa mia! Avrei dovuto chiamarlo prima! … Che tuo padre non sia perfetto è soltanto frutto della tua immaginazione!... Uno psichiatra … Sì … Loro sanno come prendere questa gente … Sei matta o cattiva ad immaginare una cosa simile! … Avrei dovuto chiamare subito il medico e dirgli: <<È su in camera sua, provi lei  a portarle>>… Avrebbe potuto ficcarle in testa un po’ di buon senso … Sei matta o cattiva se non ci credi quando ti diciamo che sei matta o cattiva a fidarti delle tue percezioni e della tua memoria>> . Nella postfazione al volume, Adolfo Ferraro, con fine acume, scrive: <<Evidenziare il nascosto, il non detto o – se si preferisce – il perturbante che i testi, nella loro individualità e nel loro insieme, producono. […] Ciò che è noto non è conosciuto avrebbe detto Hegel. […] La malattia mentale, intesa come patologia, sembra essere il filo conduttore dei testi. Ma, in realtà, a guardare bene, la vera protagonista della trilogia è l’essenza. È la ingombrante assenza della salute mentale ad essere la vera protagonista, come elemento che manca e di cui si avverte il non esserci pur potendo esserci, come il Jimmy di Sara o la sorella di A. […] La trilogia ci rappresenta e ci ricorda contemporaneamente quanto il tragico appartiene all’uomo e come quest’ultimo si divincola quotidianamente in uno spazio che diventa luogo di confine tra gli antitetici elementi di accettazione e rifiuto, bontà e cattiveria, malattia e salute mentale, norma e suo contrario>> . È necessario spostare l’attenzione dalla malattia alla persona, interpretando, nel vero senso, la rivoluzione basagliana, al di là degli schemi comuni <<che tendono a svilire il pensiero e che infine riproducono il meccanismo dello stigma e della logica manicomiale>> . Nei testi della trilogia, rileva Adolfo Ferraro, i personaggi sono valorizzati nella loro persona e non come malati, “nonostante l’ingombrante minaccia del manicomio” e della pratica terapeutica degli elettroshock. In questo spazio mentale ci si imbatte nell’anormalità, in cui <<l’ombra della regola è il caos, il senso della norma l’anormale>> . In “Lasciateci almeno la notte Monologo dell’immaginario poetico di un ciclotimico, il personaggio Pasquale insegue il suo fantasma nella sua narrazione bifasica, ritenendo la follia in perfetta opposizione con la realtà, perché <<avrebbe voluto fuggire nella pazzia per non essere invaso dalla paura>>. In una dimensione “altra”, la realtà è irreale, nel suo immaginario, e la luce della poesia illumina il suo disagio mentale, in “Versi lanciati in un emisfero rarefatto… dove mani e occhi sono impegnati a capire… le parole  da trovare per descrivere … l’essenziale>>, pur essendo consapevole che <<le pulsioni sono molto più importanti della morale e della decenza; la forza delle pulsioni scaturisce e si ravviva senza sosta, in un modo o nell’altro, in ogni minuto, ora o giorno, dal primo all’ultimo giorno dell’anno … Mai ci si può sottrarre all’impulso di Eros>> . Questa categoria di pensiero, nell’atopos della vita, trasforma il logos amoroso in una realtà che precipita nell’informe e in un’entropia irrimediabile. Il registro simbolico di questo ciclotimico, nel gioco del desiderio, ha reciso ogni legame con la realtà e interagisce con la malattia, allontanando i fantasmi distruttivi e l’atemporalità inconscia, che fa vivere questo personaggio in un tempo sospeso, bloccato, ma pur sempre in dissoluzione, senza avere mai nessuno accanto, a cui confidare le emozioni profonde del suo disagio: <<Una … uno … che ti dica esattamente … come e quando finisce … e che ti porti fuori, fosse l’ultima volta … Se sparisse il cielo, e le stelle con lui, saremmo morti anche con il respiro vivo. Dovremmo rifare tutto e sarebbe molto difficile pure pregare, così  come avete fatto finora … senza Dio>> . Pasquale è “fuori dalla vita”, destoricizza il suo percorso vitale con una sorta di non-vita, in un mondo senza vie d’uscita, insopportabilmente solo e di una solitudine essenziale: <<Abbiamo le frecce spuntate, come Apaches che pascolano sogni. Viviamo separati nelle nostre depressioni, come indiani sperduti che bivaccano il tempo necessario imposto dalla riflessione>> … . Le rappresentazioni fantasmatiche sono la proiezione di un io malato, che abdica alla propria onnipotenza, dinanzi alla nevrosi ossessiva e alla dissociazione dell’io. L’inconscio attiva un sistema di meccanismi difensivi, che non temono la malattia, perché essa è interrelata alla vita ed è da essa imprescindibile. Occorre, perciò, riflettere, paradossalmente, che è necessario “guarire dalla salute”, per raggiungere, nello stato patologico, un eccezionale momento di compensazione. Ben a ragione, Svevo, in una lapidaria lettera a V.Jahier, 27 dicembre 1927, scrive: <<Perché voler curare la nostra malattia? Davvero dobbiamo togliere all’umanità quello ch’essa ha di meglio?>>. <<Ma basta semplicemente mettere a fuoco il loro sguardo>>, scrive l’autore, <<per scoprire il vuoto, la lontananza siderale e l’annientamento>> di questi personaggi.
Carlo Di Lieto



2021-07-31