articolo 2400

 

 
 
Il linguaggio alla moda
 











La civiltà dei social sembra avere  tra le principali caratteristiche quella di spingere  gli utenti  della rete ad intervenire  praticamente su ogni tema, a far sentire (o a gridare) la propria voce sugli argomenti più diversi. Si può anzi affermare che non esiste aspetto della vita civile, politica, culturale, ecc.  che non sia soggetto ad affermazioni e valutazioni  da parte   del pubblico riunito sotto il vessillo appunto della comunicazione social.  E’ nato così anche un modo nuovo di farsi sentire ovvero  di interloquire con gli altri, il che ha mandato in soffitta senza appello la vecchia abitudine di affidarsi alla comunicazione tramite  lettere e missive varie. C’è chi vede anche in questo la crisi sempre più vasta dell’informazione tradizionale affidata storicamente ai giornali e ai periodici nel senso che il potenziale utente non si accontenta più di ricevere dati su eventi e circostanze di vario tipo ma intende essere egli stesso  protagonista  producendo  informazioni, messaggi, riflessioni e così via. Per di più  con il vantaggio di non doversi muovere dal proprio “sito”, ovvero andare all’edicola  o in libreria e dover finanche pagare per   acquisire  dati e notizie.
Questa per così dire universalizzazione dei comportamenti ha anche un’altra  peculiarità  che riguarda l’uso della lingua. Al di là della forma con cui vengono espresse le diverse valutazioni,  colpisce  l’uso di  vocaboli e termini   che è possibile rinvenire in  molti dei messaggi espressi, tralasciando ovviamente in questo contesto ogni riferimento alla  correttezza  grammaticale o sintattica  che andrebbe analizzata a parte. Quello che stupisce maggiormente, infatti, al di là dell’uso di una terminologia   ripresa da altre lingue - ma quasi sempre dall’inglese al punto tale che
si potrebbe parlare di un nuovo idioma, l’italinglese -  è il ricorso  a  determinati vocaboli,   diremmo di moda, che piace utilizzare  anche in contesti non proprio pertinenti. Valga per tutti l’esempio della parola “resiliente”, utilizzata anche nel decreto del governo per la ripresa economica. Si può dire che fino a ieri  il termine resilienza (e il suo derivato resiliente) era pressoché sconosciuto alla maggior parte dei nostri concittadini essendo il termine stesso usato in ambito scientifico (la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi). Ora invece lo troviamo adoperato per indicare  l’attitudine     ad adattarsi per superare senza traumi un periodo difficile. E quello che stiamo vivendo, il dopo covid, è appunto un momento che rientra nella categoria di riferimento. E una volta acquisita familiarità col vocabolo, giù a più non posso col suo utilizzo. Si tratta in definitiva di quello che con un termine manco a dirlo inglese si definisce buzzword (traducibile con parola d’ordine o parola chiave), ma più genericamente  vocabolo alla moda. E non importa se spesso termini di questo tipo vengono usati a sproposito; in fondo  fa sicuramente  chic usarli nel mezzo di una conversazione magari tra un piuttosto e l’altro impiegati in luogo  della congiunzione e,  oppure riproponendo a getto continuo l’avverbio assolutamente: sono solo esempi naturalmente  ma possono dare  la misura diremmo di una omologazione  “culturale” non disgiunta da  vanità o vera e propria ignoranza.
Antonio Filippetti

 



2021-06-01