articolo 2325

 

 
 
L’arte del canto secondo Nicola Pisaniello
 







Rosario Ruggiero




Formatosi sotto la guida di maestri come Arrigo Poli, l’insegnante di Luciano Pavarotti, e di Carlo Bergonzi, si è esibito in Italia ed in Francia, Svizzera, Spagna, Germania, Canada, Cina, Stati Uniti, Venezuela e più, interpretando importanti opere tra le quali “L’elisir d’amore”, “Il barbiere di Siviglia”, “Gianni Schicchi”, “Così fan tutte”, o “Rigoletto”, collaborando con insigni direttori d’orchestra. Vincitore di più concorsi, vanta anche varie incisioni discografiche nonché lusinghiere critiche e recensioni su affermate riviste del settore.
Con un curriculum tanto invidiabile, per robustezza di formazione, prestigio ed internazionalità dei contesti di esibizione, vastità, significatività del repertorio e valore dei riconoscimenti ottenuti, il tenore Nicola Pisaniello è quindi certo mentore più che autorevole per introdurci e guidarci nell’odierno mondo della lirica.
Gli chiediamo allora, subito, oggi, con tanto massiccia
presenza di musica di ogni sorta, che ci giunge anche attraverso mezzi di comunicazione e di riproduzione sempre più comodi, accessibili, finanche invasivi, in che condizioni si trova la musica operistica ed in particolar modo la sua diretta fruizione teatrale, in Italia ed all’estero?
«In una condizione che direi per nulla idonea giacché oggi la società corre verso un modello di sola, vacua immagine, lontana dal valore più precipuo dell’arte».
L’Italia resta sempre il paese del belcanto?
«Storicamente lo è, indiscutibilmente. Napoli, in particolar modo ne è stata per secoli culla,  regalandoci magnifici autori ed interpreti. Ma, con il fenomeno dell’emigrazione, la nostra penisola oggi non ha più una vera e propria scuola. Oltreoceano ce ne sono, e sono di derivazione nostrana».
I talenti?
«Il talento implica virtù naturali. Ne sono esistiti ed esisteranno sempre, purtroppo oggi mortificati dal contesto e dallo stile di vita,
sempre più incline alle comodità piuttosto che al sacrificio motivato. Tra l’altro manca la capacità di attendere pazientemente, si vuole tutto e subito, e questo nelle sfere dell’arte più alta non è possibile».
Cosa abbiamo quindi da rimpiangere del passato, e cosa abbiamo acquisito?
«Abbiamo sicuramente acquisito una profonda nostalgia. I dischi storici ci portano testimonianze forse oggi inarrivabili, scuole, modelli, penso con sconfinata ammirazione a Toti Dal Monte, Enrico Caruso, Beniamino Gigli, Mercedes Capsir».
Come si svolge la giornata di un artista in carriera come lei?
«Studiando, soprattutto con la mente. Il fisico risponde ad impulsi suggeriti dal cervello. Cerco di ascoltarmi e di conoscere soprattutto me stesso».
Quanto è importante la tecnica, e quanto lo è la cultura?
«La tecnica è il presupposto, raggiungibilissima con sapienza, cura e tenacia, ma la cultura è fondamentale per distinguere
l’artista dal semplice esecutore».
Dopo epoche di straordinari fanatismi per miti come Maria Callas, Renata Tebaldi, Giuseppe Di Stefano o Mario Del Monaco, come è oggi il pubblico?
«Il pubblico che ha vissuto gli anni Cinquanta del secolo scorso è sicuramente un pubblico nostalgico. Quello odierno è solo affascinato dal successo e dalla popolarità del personaggio del momento. L’ascolto non è attento e consapevole come un tempo, per cui credo non ci resti che invocare, con Giuseppe Verdi “Tornate all’antico, sarà un progresso”».



2019-11-20