articolo 2265

 

 
 
LEONARDO DA VINCI
L’uomo modello del mondo
 






Venezia, Gallerie dell’Accademia
dal 17 Aprile 2019 - 14 Luglio 2019




Intorno all’Uomo Vitruviano 
Riprendendo l’immagine simbolica dell’uomo come specchio dell’universo, Leonardo si inserisce perfettamente nella corrente neoplatonica, accogliendo la visione del mondo rinascimentale elaborata nella Grecia classica, secondo cui il mondo è ó (universo), espressa già nel Timeo da Platone, da Seneca e da Tolomeo nella Cosmografia, testo che Leonardo possiede e cita nel Trattato di anatomia: “La cosmografia del minor mondo […]”. La teoria che l’universo è un grande uomo e l’uomo è un piccolo universo è già presente nell’esoterismo arabo, arricchito poi, nel Medioevo, di elementi spirituali ed ermetici. L’analogia tra i due mondi trova due precursori, Brunetto Latini e Niccolò Cusano. Il primo, nel Trésor, afferma che la terra ha un’anima che abita in fondo al mare e che le maree sono il respiro del grande corpo della terra. Il secondo parla della terra come un animale, con le foreste come pelo. Molto simile anche la descrizione di Marsilio Ficino: “La vita del mondo […] si propaga nelle erbe e negli alberi, quasi peli del suo corpo e capelli; e poi nelle pietre e nei metalli, quasi denti e ossa” in cui nell’uomo prende forma l’idea dell’identità tra cielo e terra e tra corpo e anima, detta spiritus. È a Ficino che, nel 1463, Cosimo il Vecchio affida il compito di tradurre dal greco, da un manoscritto acquistato poi da Poliziano e ora alla Laurenziana (71,33), prima Ermete Trismegisto e poi Platone. Nella sua Theologia platonica, pubblicata nel 1482, il medico, filosofo e letterato si dichiara convinto del valore dell’ermetismo, fonte della verità rivelata: sotto il mistero ermetico sta ogni forma di sapere, che fornisce le conoscenze per intervenire sulla realtà; quello che anche Pico della Mirandola, in possesso di una copia manoscritta del Picatrix – nome latino di un testo arabo di magia di autore ignoto (Ghayat Al-Hakim) – accetterà, cioè la magia come atto pratico della scienza della natura: “Chi non si affatica nelle scienze, è difettoso e di scarsa autorità, e per conseguenza non deve dirsi uomo […]: attraverso la scienza l’uomo fa miracoli, comprende tutto […]”, può salire verso il divino e abbassarsi verso gli animali, “può farsi tutto, e per questo si chiama piccolo mondo (minor mundus)”, perciò tutto quello che è contenuto nel mondo maggiore, lo è in quello minore. La prima edizione del Picatrix, sempre del 1463, è tradotta in italiano da quel Tommaso Benci che volle da Leonardo il ritratto della figlia Ginevra in occasione delle sue nozze nel 1474, dipinto ora a Washington. Anche secondo Pico della Mirandola l’uomo è un microcosmo, poiché possiede i semi di tutte le cose, quelle terrene come le divine, ma è per la libertà, il risultato delle sue scelte, e solo per questo, che occupa un posto centrale e privilegiato nell’universo.
I neoplatonici teorizzano l’inserimento della ricerca empirica sui fondamenti
matematici che costituiscono le strutture razionali assolute del mondo. Prima Cusano nell’Asclepius del 1458 – “Così l’uomo ha l’intelletto che è similitudine dell’intelletto divino quando crea” – poi Marsilio Ficino nel suo commento al Timeo discutono sulla necessità di collegare la conoscenza empirica a quella matematica; quest’ultimo, nella Theologia platonica, esalta quell’ideale punto di unione fra la scienza del pittore e la scienza della natura per cui la mente dell’uomo “si trasmuta in similitudine di mente divina”. Quando Leonardo enuncia il noto principio che “nessuna umana investigazione si può dimandar vera scienza, s’essa non passa per le matematiche dimostrazioni”, si collega al tema platonico-ficiniano. Con lo spirito del sapiente, tra fenomenologia naturale, magia e gnosi, in piena sintonia con lo spirito ermetico e neoplatonico, Leonardo proclama l’inserimento della scienza empirica sui fondamenti matematici che formano la struttura razionale assoluta del tutto. Nell’elogio dell’esperienza come interprete dell’artificiosa natura, mediatrice tra l’uomo e l’universalità dell’essere, sta la grande novità di Leonardo. Nell’esaltazione della riconquistata coscienza del valore dell’uomo che diventa, con Ficino, “il centro dell’universo”, reinterpretando l’affermazione di Protagora “l’uomo è la misura di tutte le cose”, nasce il pensiero di Leonardo, che considera l’uomo modello del mondo.
Nell’umanesimo il recupero del classico, noto in arte da copie in marmo, tra I e II secolo, di originali greci in bronzo, esprime la volontà di circoscrivere un’epoca passata, facendone il simbolo di valori positivi e universali. La perfezione vera delle proporzioni è incarnata nella nudità delle sculture, l’unica che imita direttamente la natura in quanto assoluta e atemporale. L’Uomo Vitruviano è nudo: la nudità, prerogativa della statuaria antica, va letta come un esplicito riferimento ai grandi esempi della plastica greca e romana.
Il contatto di Leonardo con l’arte classica è precoce, poiché, narra l’Anonimo Gaddiano, frequentava a Firenze, novella Atene, il giardino di San Marco detto Orto dei Medici, dove Lorenzo il Magnifico, a partire dagli anni settanta, teneva il suo cenacolo di umanisti, filosofi, letterati e artisti in mezzo a sculture antiche. Nell’Orto dei Medici si afferma il gusto per il bronzetto “all’antica”, destinato a collezionisti che amavano oggetti preziosi di manifattura raffinata, come gemme e cammei, in materiali di pregio. Il primo è forse Filarete, ispirato da Marsia che suona il flauto detto Ignudo della paura, ora al Bargello; dopo di lui, il gusto per il “bronzetto all’antica” si sviluppa a Mantova con l’Antico. Il suo Apollo, qui esposto, ne rappresenta un mirabile esempio.
Da quel contesto, gli scultori fiorentini del momento traggono anche il gusto per il tema dei profili classici degli imperatori o condottieri romani, in particolare il marmo con il Busto di Scipione, ora al Louvre, e quello di Alessandro
Magno, ora a Washington, entrambi del 1480 circa, di ambito di Andrea Verrocchio. Da tali modelli Leonardo trae ispirazione, anni dopo, per i tre busti di profilo “all’antica” ora a Torino, Londra e Venezia, modulati sui prototipi del suo maestro scultore, a loro volta ispirati a cammei antichi: una ripresa, dunque, di modelli contemporanei debitori della classicità.
Giunto a Milano nel 1482, l’artista fiorentino incontra gli architetti provenienti dal centro Italia, fra cui Bramante, Luca Fancelli (allievo di Alberti) e Francesco di Giorgio Martini, che aveva già visitato Roma; e ancora gli scultori imbevuti di gusto antiquario, come Amadeo e Mantegazza alla Certosa di Pavia. Fondamentale è la visita a Pavia nel 1490, dove Leonardo vede l’unico esempio dal vero di monumento equestre, il Regisole, opera del I secolo a.C., proprio nel momento in cui lavora alla seconda fase del Monumento Sforza. È in quell’occasione che pronuncia l’unica celebre frase in cui ammette che il valore dell’imitazione degli antichi è superiore a quello dei moderni: “L’imitazione delle cose antiche è più laldabile che quella delle moderne” (Codice Atlantico, f. 339r). Ma si chiede anche: “Qual è meglio, o ritrarre di naturale o d’antico?” (Ms. A, f. 105v). La frase più esplicita sull’imitazione degli antichi risale al periodo romano, nel Libro di pittura al capitolo Del modo di vestire le figure (c. 533): “Osserva il decoro che tu vesti le figure […]. Et imita quanto puoi li Greci e Latini col modo del scoprire le membra, quando il vento appoggia sopra di loro li panni”.
Più che di un vero debito alla tradizione classica perduto, al quale vanno legati i numerosi fogli sciolti ancora esistenti dedicati allo studio di proporzioni, che probabilmente in origine facevano parte di quell’unico taccuino ed erano espressione di uno studio iniziato verso il 1487 e concluso intorno al 1490. Conservati oggi per la maggior parte nelle collezioni reali di Windsor Castle, studiati da Keele e Pedretti, gli studi di proporzioni riflettono la ricerca leonardiana dell’homo bene figuratus di Vitruvio, non di un corpo, quindi, ma del corpo “ben fatto”: “Abbi intera notizia delle misure dell’omo”, scrive, da scegliere tra “quelli di miglior grazia” e continua: “Debbe il pittore fare la figura sopra la regola d’un corpo naturale, il quale comunemente sia di proporzione laudabile; oltre di questo far misurare sé medesimo e vedere in che parte la sua persona varia assai o poco da quella anzidetta laudabile”.
Giunto a Milano nel 1482, l’artista fiorentino incontra gli architetti provenienti dal centro Italia, fra cui Bramante, Luca Fancelli (allievo di Alberti) e Francesco di Giorgio Martini, che aveva già visitato Roma; e ancora gli scultori imbevuti di gusto antiquario, come Amadeo e Mantegazza alla Certosa di Pavia. Fondamentale è la visita a Pavia nel 1490, dove Leonardo vede l’unico esempio dal vero di monumento equestre, il Regisole, opera del I secolo a.C., proprio nel momento in
cui lavora alla seconda fase del Monumento Sforza. È in quell’occasione che pronuncia l’unica celebre frase in cui ammette che il valore dell’imitazione degli antichi è superiore a quello dei moderni: “L’imitazione delle cose antiche è più laldabile che quella delle moderne” (Codice Atlantico, f. 339r). Ma si chiede anche: “Qual è meglio, o ritrarre di naturale o d’antico?” (Ms. A, f. 105v). La frase più esplicita sull’imitazione degli antichi risale al periodo romano, nel Libro di pittura al capitolo Del modo di vestire le figure (c. 533): “Osserva il decoro che tu vesti le figure […]. Et imita quanto puoi li Greci e Latini col modo del scoprire le membra, quando il vento appoggia sopra di loro li panni”.
ANNALISA PERISSA TORRINI-Curatrice della mostra
Venezia, 16 aprile 2019
Estratto dal testo in catalogo Silvana Editoriale

 



2019-04-30