articolo 2089

 

 
 
Napoli e Leopardi: un “esilio acerbissimo” cercando una nuova vita
 











Sì, occorre davvero guardare alla grande critica desanctisiana per ritrovare un precedente metodologico di approccio all’opera letteraria che sappia tracciare simultaneamente, come accade in questo poderoso e illuminante Studio di Carlo Di Lieto, il percorso individuante della genesi creativa dell’Autore prescelto, l’esatta indagine di inquadramento storico dell’ Opera esaminata e l’unità stilistica di una narrazione diagnostica del tutto scientifica, ma anche empaticamente avvertita. Che Di Lieto abbia appieno compreso l’universalità, la complessità profonda, l’insita modernità del Pensiero e degli Scritti leopardiani, è quanto già rivelato da tutto il suo precedente lavoro critico, ma anche e ancor più qui si riafferma l’appassionata forza del suo ascolto “latente” che raggiunge, attraverso il metodo psicocritico, che Egli adotta in maniera fondante, gli insondati meandri di un rapporto fortemente intersecato tra il Critico che indaga, l’Autore e la specularità interiore che denunciano i Testi affrontati. Insomma, Di Lieto è, con il suo procedere metodologico, il” terzo incluso”tra Leopardi e la sua Opera per quanto concerne, anche e soprattutto in questo Saggio, il periodo napoletano da lui preso in esame.
Per il nostro Studioso, infatti, ogni testo leopardiano acquista in sé, oltre che valore di opera alta del Pensiero e della Letteratura, anche il preciso significato di una struttura creativa intesa come compiuta espressione di una autentica, anche se spesso occulta, testimonianza. Non si tratta però, da parte del Critico che lo asserisce ed individua, di disarmata, immediata accoglienza,né di riferirsi ad un semplice autobiografismo del profondo, quanto piuttosto di riconoscere la complessità nodale di quelle stratificazioni interiori che, come ondate successive, invadono e sopraffanno il sostrato di una materia psichica sensibilissima, quella leopardiana appunto, pericolosamente porosa alla disponibile e
quasi oblativa accoglienza e quindi, per tale innata predisposizione, esposta a tutte le offese delle risonanze lunghe che gli accadimenti incidono nell’individuo durante il processo del suo farsi e divenire persona.
E’ questa una precisazione fondamentale del nostro Studioso che spazza completamente via il nesso diretto di causa/effetto come, in maniera assai miope, qualcuno ha inteso vedere tra la produzione del Poeta e le sue malattie. Intendiamo naturalmente qui riferirci a quelle patologie concernenti il fisico e la precisione diagnostica di un accertamento clinico di esse, rifiutandoci, pertanto, di intendere  come “malattia” quel profondo “male di vivere”che sembra essere imprescindibile compagno di ogni mente davvero cogitante  e pertanto non rifiuta di rispecchiarsi in un sanissimo principio di realtà.
La condizione umana, infatti, a chiunque si applichi un poco a considerarla, senza alcun pessimismo, ma anche senza vacue esuberanze, appare per quello che essa
è: condizione di insufficienza a se stessa; esposta alla fragilità del proprio consistere fisico, psichico e relazionale; bisognevole di cura e soccorso; in dinamica di continua evoluzione e sviluppo, causa ciò  inoltre di una individuazione a se stessi sempre provvisoria ed incerta; soggetta agli adattamenti all’ambiente fisico e sociale che la determina, nonché sottoposta ad eventi di ogni sorta che impongono ed esigono una definita risposta di prestazione. Quella risposta, appunto, che diviene poi per ciascuno  intima conoscenza della misura propria a se stessi, delle possibilità e dei limiti, fino a turbare intimamente per le non gestite insufficienze o ad esaltare precariamente per qualche riuscito conseguimento. Manca per tutti e a priori,dunque, il possesso del “significato di senso”.
Questa la connaturale e condivisa condanna della condizione umana,soprattutto se non si riesce a sublimarla in una superiore visione fideistica o se non approda ad una confortante
complicità amorosa, fertile anche di continuità.
E’ naturale così che per Leopardi, anima ipersensibile, ingegno precocemente avviato e dedito agli studi,  posto nel suo tempo storico in condizione sociale a un tempo privilegiata e ristretta, tutto
questo imprescindibile e tormentato considerare non restasse relegato ad un sottosuolo di coscienza più o meno percepito, come accade alla maggior parte degli individui. Individui tanti che, in genere,  stemperano nella dinamica dell’azione, e spesso anche dell’azione frenetica, ogni considerazione non pragmaticamente cogente. Quel continuo considerare, invece, costituisse dunque per lui il nocciolo duro di un filosofare perenne, tanto pressante e vissuto da diventare travolgente e neppure addomesticabile in ordinato sistema di pensiero filosofico. Restava così piuttosto un pulsare continuo , un’ invadenza dell’animo sulle cose, un desiderio sempre emergente e sempre annichilito dalla riflessione, un bisogno di scoprire il
vero e di saggiarne la dichiarata vacuità .
Ed è qui che Di Lieto punta la sua acutissima riflessione critica.
La mente pensante e lo psichismo dell’animo sono gli interferenti che agiscono di comune forza nell’intimo dell’individuo. Nulla vi è nell’inconscio che non abbia dapprima sfidato la conoscibilità, magari non riuscendovi, ma presentandosi sempre all’esame del suo possibile appercepire; così come nulla vi è di conscio che, per farsi pienamente consapevole, non sia stato tarato dal giudizio della sua  riconosciuta e accettata connotazione. Se Giacomo Leopardi avesse fatto prevalere di sé la capacità speculativa avremmo avuto un sistema filosofico vòlto ad accertare un profondo nichilismo, una desolata visione di smarrimento esistenziale: quella che pure descrive, in frammenti, in molte pagine dello Zibaldone o che vanno a sostanziare i Canti e le Operette Morali. Ma Leopardi avvertiva troppo la consonanza compassionevole dell’umano per stemperare nel solo rigore
ragionativo della stretta consequenzialità tutta la piena del suo sentire e riflettere. Quel riflettere, appunto, che  lo costringeva a ripiegarsi su se stesso, riconoscendo in sé una titanica disperazione solidale dell’umano. Quel dissentire dunque, quel disdire l’assioma, fanno di lui l’immenso Poeta dalla parola alta e colloquiale, descrittiva e profonda, pacata e potente, constatativa e ribelle: la Parola unica della sua Poesia.
Di Lieto, con lo strumento della critica psicoanalitica, entra nei meandri di questo percorso tortuoso, oscuro e luminoso al tempo stesso, per esaminarne la genesi,  quella occulta o anche disvelata, in tutta l’ Opera dal Poeta stesso che l’ha prodotta, utilizzandola  al fine,quasi  nuovo filo di Arianna, di non disperdere il suo stesso smarrimento, più che del solo parzialmente rintracciarsi. Leopardi cerca cioè di “corrispondersi” e Di Lieto, con il suo lavoro critico, sembra porgergli i pezzi di questo magnifico puzzle. A Lui e
nella ricerca che noi, suoi lettori, facciamo di Lui.
Nel repertare i materiali letterari Carlo Di Lieto non istaura  dirette equivalenze, non cede ai facili rispecchiamenti immediati, ma scende nelle stratificazioni che hanno prodotto e cristallizzato la forma compiuta dello Scritto o del Verso leopardiani. Ed è qui che il metodo psicocritico si definisce come necessario, veritiero e comodo strumento di indagine, per lasciare poi il passo, quando lo Studio approda ancor più in fondo all’esame dell’Opera leopardiana come pervenutaci, ad uno statuto di vera e propria psicoestetica letteraria: unica prospettiva veramente deputata a sancirne il valore.
La Letteratura, infine, non è  fatta della semplice esposizione di idee, siano pur esse alte, congrue e personalissime; non è neanche mera volontà comunicativa; non è neppure espressione solipsistica del Sé; non è asservita ad alcuna ideologia, non è assecondamento di genere riconoscibile e retorico; non è esclusiva
espressione testimoniale, pur non volendo negarsi a questo, ma non in questo esaurendo se stessa.. La Letteratura è l’espressione più alta di una insondabile libertà che trascrive l’autenticità di un essere pensante mentre si riconosce profondamente umano nella testimonianza di un sé annegato alla consonanza universale del fraterno collettivo. Questa l’alta Parola della Letteratura. Che è sempre Parola di Poesia, perché creativa, in quanto è il Verbo che provoca l’unicità interna e necessitante della Creazione. La Parola poetica modula, infatti, proprio l’ unicità necessaria della sua forma, ad essa così unita con l’imprescindibile sintesi che della retta fa la linea univocamente rispondente al suo nome.
Ben consapevole di ciò, Carlo Di Lieto avverte la necessità di imbrigliare questa assoluta libertà della Parola e dell’Arte, per cui  storicizza, con puntuale documentazione di archivi e di fatti, il
reticolo portante su cui va a collocarsi tutta la grande Scrittura
leopardiana . Intelaiatura essenziale questa, perché il dichiarato vizio dell’absence  che Leopardi denuncia di possedere e quel suo avvertirsi promeneur solitarie, nonché talora il Suo approdo ad una distaccata ironia salvifica, non potrebbero instaurarsi senza il solido controcanto delle cose,  della sofferta difficoltà dei rapporti, della subìta estraneità al contesto. Contesto che appare sempre solidissimo e assai concreto alla Sua acuta capacità di comprensione ed alle Sue indagini di animo e di pensiero e che, proprio per tale motivo, tra tentata accettazione e conati di ripulsa, diventa sempre più interferente sulla sua sensibile vulnerabilità.
Convinto di ciò, Di Lieto, per meglio gestire la possibilità di dimostrare la stretta intersezione tra la concretezza del vivere, la profondità del percepire e  il produrre immaginativo poetico del Leopardi, considera in questo Saggio un ben preciso e circoscritto periodo dell’avventura leopardiana: il periodo
napoletano, che  comprende gli anni che vanno dal 1833 al 1837. Sono anni di estrema significatività non solo perché quelli conclusivi della vita del Poeta, ma perché assai bene chiariscono i meccanismi inconsci di una produttività creativa che si libra alta e svincolata dalle contingenze, ma che tali contingenze pure assume in una sorta di rarefazione purificatrice.
Il “mal di Napoli”, cui fa riferimento il titolo dello Studio Critico, e che oscilla tra l’illusione del Poeta di approdare ad una “nuova” vita ed alla  successiva caduta nella disperazione di avvertirsi in un “esilio acerbissimo”, trovano proprio nel particolare carattere della città partenopea la loro saggiatura di ragione. La città dionisiaca e sfrenata, la sua gente dalla gestualità opulenta, la teatralità, l’interazione del collettivo, le voci frastornanti fanno illudere appena per un attimo il Leopardi di essere anch’egli “vago di novità”: è l’illusione di un vitalismo possibile subito interrotto dal
sentimento dell’infelicità strutturale della condizione umana. Il tentativo del Poeta di riportarsi verso una quotidianità è sconfitto “ dal sentimento vivo della nullità di tutte le cose, e dalla impossibilità di essere felice a questo mondo, e dall’immensità del vuoto che si sente nell’anima” . All’inizio del suo soggiorno, tuttavia, Napoli, città festevole e chiassosa, variegata e assorbente, con il suo slargo comunicativo, l’accelerazione dei ritmi di vita, il debordare della gente per le vie, le piazze, i luoghi di convegno, immediati e precari come il pubblico Caffè di strada, gli consente di avvertire una libertà nuova, un più disinibito affidarsi, ma presto si evidenziano le dissonanze e riprende il disgusto del consorzio, della faticosa e vuota società.
Tra queste due polarità indaga assai bene il Saggio di Carlo Di Lieto che segue con puntiglioso rigore tutto il procedere del percorso leopardiano, lì dove gli scritti divengono anche supporto testimoniale di una
evoluzione/involuzione interiore, che però non si sofferma mai soltanto alla percezione del suo disagio ma piuttosto si innalza a sostanziare la nudità alta di un pensiero implacabile, che chiude nel suo mondo immaginativo e poetico l’acutezza di una  esistenziale sofferenza dove comunque sempre opera l’altissima ala della Poesia che l’ avvolge e la rende universale. Se  è vero che  Napoli ha donato al Leopardi un nuovo sentimento della fisicità e del valore del corpo e del suo vigore, come così bene sottolinea Di Lieto, è però pur vero che, ed altrettanto lo indica lo Studioso, la “coscienza captiva  del poeta è proiettata verso l’assoluto” e che” il Suo non è un pessimismo cosmico, ma un pessimismo ontologico che tenta, senza riuscirci, il superamento del limite, perché il suo varco è introvabile, in quanto il tentativo è inefficace nei suoi presupposti:la non-vita è un processo di decentramento centrifugo;la realtà sfugge alla logica stringente e tutto è affidato allo snodo dell’immaginazione come sintesi magica del pensiero poetante.” (p. 855 )
Ed è proprio testimonianza di questo “ pensiero”, l’approdo poetico, alto e drammatico,di quel vertice raggiunto dall’immenso componimento che è La Ginestra o il fiore del deserto, datato 1836 e composto a Torre del Greco, alle falde del Vesuvio. Si tratta di una summa che nella sua meditazione accora e consola, con un sentimento unificante di congedo cosmico, un titanismo morale che piange la condizione umana ma che la assurge ai vertici del divino nella nudità implacabile del pensiero e nell’utopia del suo eroico slancio.
L’Opera leopardiana tutta, ed in particolare quella dell’ ultima produzione, esce profondamente illuminata e ridefinita da questo analitico, documentato, rigorosissimo Saggio di Carlo Di Lieto che, attraverso una metodologia critica di estremo rispetto dell’umano e dell’indagine scientifica insieme, sa accompagnare il lettore ad una conoscenza seria e puntuale di uno dei
maggiori Autori della nostra Letteratura .E ciò anche con l’ausilio di  una esposizione di  preziosa chiarezza, densa e narrante a un tempo, che rivela quanto i testi compulsati e analizzati siano stati avvertiti e condotti al possesso di una sapiente familiarità dal nostro assai valente Studioso.                                                 
Lucia Stefanelli Cervelli

Carlo Di Lieto : “Leopardi e il mal di Napoli”
Genesi Editrice, pp. 1080, euro 60,00



2016-01-01