articolo 1833

 

 
 
GIOVANNI VAILATI
E IL METODO D’INSEGNAMENTO DELLA MATEMATICA
 











Il caposcuola del pragmatismo in Italia,  Giovanni Vailati (1863-1909),  in un saggio “ Sulla importanza delle riceche relative  alla storia delle scienze ” si disse non del tutto alieno, per ciò che riguarda in modo speciale gli studi matematici dal dar ragione a quelli che credono che il metodo migliore, dal lato didattico, per l’esposizione delle varie parti d’un determinato soggetto, sia quello che risulti dal presentare la materia, di cui esso si compone, sotto una forma che si discosti il meno possibile da quella che corrisponde al suo sviluppo storico. Si riferiva il Vailati a quello che si chiama  il metodo euristico, quel metodo cioè d’esposizione e di insegnamento nel quale l’allievo arriva a impossessarsi delle cognizioni che costituiscono un dato ramo di scienza, passando attraverso le considerazioni che hanno guidato coloro che sono giunti a esse per la prima volta: metodo che presenta da questo lato indiscutibili vantaggi sull’ordinario metodo d’esposizione, che, astraendo da qualunque considerazione d’indole psicologica sulla differenza di tirocinio mentale e di abitudini coordinatrici tra chi impara e chi insegna, mira a esporre fin dal principio il soggetto sotto la forma che all’insegnante può sembrare la più logicamente connessa, la più aggiornata, alla moda, rispondente alle più recenti esigenze, up to date, come dicono gli anglofoni, sotto la forma più soddisfacente, insomma, per chi, come lui, non senta altro bisogno che quello di sistematizzare e coordinare un complesso  di cognizioni che possiede già. Come scienziato, come pensatore, come scrittore anche, il docente può bene aspirare ad appartenere alla nobile schiera dei maestri di color che sanno, ma, come insegnante, egli ha soprattutto il compito di essere il maestro di color che ancora non sanno.
“ A nessuno  che abbia avuto occasione di trattare in iscuola, davanti a dei giovani, qualunque soggetto che si riferisca alle parti astratte e teoriche della matematica, può essere sfuggito il rapido cambiamento di tono che subisce l’attenzione e l’interessamento degli studenti ogni qualvolta l’esposizione, discostandosi per una circostanza qualsiasi dall’ordinario andamento dottrinale e deduttivo, lascia luogo a delle considerazioni d’indole storica,  a considerazioni, per esempio, che si riferiscano alla natura dei problemi e delle difficoltà  che hanno dato origine allo svolgimento d’una teoria o all’introduzione d’un metodo, alle ragioni per le quali determinati concetti o determinate convenzioni sono state adottate, o ai diversi punti di vista dai quali un dato soggetto fu considerato  da quelli che maggiormente contribuirono ad avanzarne  la trattazione scientifica ” [v. Giovanni Vailati, Il metodo della filosofia, Bari, Laterza, 1957, pp. 53 ss. ].
Nella  sua  nota  introduttiva  al  citato  volume, Ferruccio
Rossi-Landi  ha   voluto   ricordarci   del  Vailati:  “ Come  insegnante   “medio”, lo troviamo dapprima al Liceo privato di Pinerolo e poi, nello stesso 1899, insegnante di matematiche al Liceo di Siracusa. Nel 1900 passò all’Istituto tecnico di Bari; di lì a poco a Como w poi, nel 1904, all’Istituto tecnico G. Galilei di Firenze . Quivi lo raggiunsero l’incarico dei Lincei di curare insieme ad altri l’edizione nazionale delle opere torricelliuane e la nomina, da parte del Ministero della pubblica istruzione per suggerimento di G. Salvemini, a membro della Commissine reale per la riforma delle scuole medie . . .  Partecipò ai Congressi di filosofia a Parigi nel 1900, di storia a Roma nel 1904, di filosofia a Ginevra nello stesso anno, di filosofia a Heidelberg e di matematica a Roma nel 1908. Passò gli ultimi tre anni della sua vita tra Roma, dove lo teneva l’ufficio di membro della Commissione per le scuole medie, e Firenze, dove nel 1908 riprese volontariamente l’insegnamento all’Istituto tecnico . . . ” [v. pag. 27]. Quanto il Vailati scrisse era  frutto, quindi, oltre che di un suo convincimento, d’una lunga esperienza di docente.
Le ragioni per cui gli studi che si riferivano alla storia della matematica e di quelle tra le altre scienze  più strettamente collegate con essa, come l’astronomia, la meccanica, la  fisica, sembrarono  al Vailati presentare maggiore interesse e richiamare maggiore attenzione di quelli che riguardavano la storia degli altri rami del sapere umano.
Per nessuno di questi, come per le scienze matematiche, la solidarietà del presente col passato, anzi la collaborazione dell’uno con l’atro, erano così intime e così indispensabili a conoscersi da chiunque mirasse  a penetrare lo spirito della scienza.
La storia delle scienze matematiche ci presenta un esempio unico e ammirabile d’un processo continuo di elaborazione e di svolgimento nel quale ogni progresso ulteriore ha sempre  presupposto come condizione indispensabile i progressi anteriori e in cui ogni nuova scoperta si appoggia e si sovrappone  alle scoperte antecedenti e tende ad accrescerne piuttosto che a sminuirne e ad attenuarne l’importanza. Se  Archimede di Siracusa,  (287-212 a.C), e Apollonio di Perga (265-170 a.C.) potessero rivivere oggi ed essere messi a parte di tutto ciò che è stato scoperto e dimostrato dai loro tempi  fino ai nostri sui sogetti da loro investigati, non si potrebbe mostrar loro una sola preposizione che contraddica le conclusioni cui essi erano arrivati ed essi non potrebbero essere costretti a confessare d’aver avuto torto in una sola delle loro affermazioni. Se Euclide d’Alessandria (300 ca, a.C.) assistesse a una lezione di geometria in uno dei nostri licei o istituti tecnici, non farebbe certo fatica a riconoscere che le proposizioni, le definizioni, i teoremi, le dimostrazioni, che costituiscono la materia
del programma svolto, sono  ancora le sue proposizioni e dimostrazioni, solo qualche volta leggermente ritoccate e non sempre migliorate. Se egli volesse divertirsi a sfogliare un nostro volume qualunque di matematica non tarderebbe a riconoscere, pur tra le differenze formali e secondarie, la profonda identità tra lo spirito che animava le sue ricerche e quello che continua a guidare e dominare  le ricerche dei matematici odierni; constaterebbe come il suo rigore è ancora il nostro rigore, come il suo punto di partenza è ancora il nostro punto di partenza  e come non ci è possibile studiare neppure quella geometria che ci ostiniamo a chiamare non euclidea senza far uso degli stessi procedimenti dei quali egli, per primo, ci ha insegnato ad avvalerci.
Non è soltanto però sotto questo profilo che la successione  dei cultori attuali delle scienze matematiche ai loro predecessori si manifesta e dà impulso ai progressi della scienza. Vi è un’altra specie di comunione fra loro che il Vailati chiamava automatica e inconscia e che non era meno importante da considerare.  Leonard Euler, setto Eulero (1707-83), uno dei maggiori matematici di tutti i tempi,  accennò all’impressione da lui provata  che, ogni volta che dalla natura dei suoi lavori era costretto a servirsi di lunghi sviluppi o trasformazioni di formule per giungere al risultato desiderato, gli pareva che i simboli e le formule da lui usate pensassero e ragionassero in sua vece e che la sua penna  precedesse  addirittura  la  sua  mente.  Egli  acquistava  allora tanta fiducia  nella sua  penna  al  punto  di  pronunciare,  in  presenza  di  un risultato  assurdo  cui  incosciamente  giungeva,  la  ben  nota  frase: “ Sebbene ciò sembri contrario alla verità, pure più c’è da  fidarsi del calcolo che del nostro stesso giudizio ” [Meccanica, vol. I, § 272]. Il Vailati spiegava: “ Tale impressione e tale fiducia, per quanto sembrino a prima vista strane ed ingiustificabili, diventano perfettamente spiegabili e naturali quando si pensi a  quante idee e quante meditazioni, alcune delle quali rimontano a secoli anteriori, si trovano, per così dire, concentrate e immagazzinate in quei segni e in quelle formule che l’abitudine ci pone in grado di maneggiare con tanta facilità e rapidità. In esse cooperano effettivamente ancora con noi, a così grande distanza di tempo, altre menti, senza il cui aiuto non dovremo ripetere, ritornando da capo, tutto il lavoro che esse hanno fatto una volta per tutte” [ o.c., pag. 56 ].
Il caso dell’Euler coincide in sostanza con quello di chi compia un calcolo, eseguendo una lunga moltiplicazione prima direttamente e poi con l’aiuto dei logaritmi, e si trovi ad avere ottenuto due risultati diversi. E’ evidente che è allora ragionevole che lui abbia più fiducia nell’esattezza delle tavole
logaritmiche che sulla sua abilità personale a eseguire un lungo calcolo senza incorrere eventualmente in errori.
Le fasi più importanti e decisive nello sviluppo delle scienze matematiche, specialmente nei tempi moderni per i quali, com’è naturale, i dati al riguardo sono più copiosi e accessibili, si sono esplicate sotto l’aspetto non tanto di aggiunte repentine, o accrescimenti subitanei, al patrimonio di cognizioni già acquistate e posseduto dai più eminenti cultori di esse in ogni data epoca, quanto piuttosto sotto forma di innovazioni, o di riforme, nei processi di indagine o dimostrazione, di cambiamenti del punto di vista da cui considerare, o coordinare,  le conoscenze già in possesso delle persone più competenti, qualche volta anzi, infine,  sotto le modeste sembianze d’una semplice introduzione di nuovi strumenti, o artifici, atti a raggiungere con maggiore semplicità, o rapidità, risultati ai quali, sebbene con maggiore fatica, o maggiore impiego di s forzi  intellettuali, si sarebbe potuto giungere, o si era già giunti anche  prima.
L’esame diligente dei documenti storici ci dice anzi qualche cosa di più e cioè che, tra le difficoltà contro le quali le scienze matematiche nel corso del loro svolgimento hanno dovuto lottare e tra gli ostacoli che esse hanno dovuto superare nel loro cammino, figurano per una piccola parte quelli provenienti appunto dall’influenza che questo carattere speciale, che presentano le fasi del suo sviluppo, ha esercitato sulla mente dei loro cultori.  
Per chiarire meglio ciò che intendeva dire, il Vailati citò quale esempio il carteggio tra John Wallis (1616-1703)  e   Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), che fa ampiamente luce sui particolari storici che si riferiscono all’importantissimo stadio nello svolgimento delle scienze matematiche, segnato dalla scoperta del calcolo infinitesimale.
Vi appare chiaramente quale fosse l’indole delle obiezioni alle nuove vedute del Leibniz e di Isaac Newton (1642-1727) che  erano mosse da quelli, tra i loro contemporanei, che oggi noi, a buon diritto, classifichiamo, insieme a loro, tra i sommi matematici di quel tempo. Esse si possono riassumere nell’opinione di Christian Huyghens  (1629-95), della quale il Leibniz dice: “Hugenius certe, qui haec studia  profondissime inspexerat multisque modis auxerat, parvi faciebat calculum meum, nondum perspecta utilitate. Putabat enim, dudum nota,  sic  tantum  nove  exprimi,  prorsus  quemadmodum Robervallius  [ l. Gilles Personne de Roberval (1602-75) ] et alii, initio, Cartesii [ l. René Descartes (1596-1650) ] curvarum calculum parvi faciebant ”. 
Su questa analogia tra la sua posizione e quella in cui poco meno di un secolo prima  s’era già trovato il creatore della geometria analitica, il Leibniz ritornò con insistenza nella sua corrispondenza col Wallis. Ma ciò che il Vailati riteneva degne
d’attenzione, più delle osservazioni del Leibniz in proposito, erano gli argomenti cui ricorreva per difendere Cartesio  e se stesso dalle obiezioni sollevate  dallo Huyghens e dal Roberval: “ Et licet fatear quemadmodum rem ipsam, in aequationibus curvarum localibus facilioribus calculo Cartesi expressam, jam tenebant veteres, ita rem ipsam meis aequationibus differentialibus expressam non potuisse tibi aliisque egregiis viris esse ignotam, non ideo tamen minus puto Cartesium et me aliquid utile praestitisse. Nam antequam talia ad constantes quondam characteres calculi algebrici reducuntur tantumque omnia vi mentis et  imaginationis sunt per agenda, non licet in magis composita abditaque penetrare, quae tamen, calculo semel costituto, lusus quidam jocusque videantur ”.
Rispondeva il Wallis: “ Quando autem ego alicubi insinuaveram, Cavallerii  [ l. Bonaventura Cavalleri (1587-1647) ] geometria indivisibilium non aliam esse quam veterem methodum exhaustionem compendosius traditam, non putet aliquis id a me dictum in ejus derogationem sed in ejusdem confirmationem ”.
Scrisse Hermann Grassmann (1809-77): “Man hat mir dem Einwurf dass die ganze Ausdennungslehre  nur eine abgekuerzte Schreibart sei”. Il frequente ripetersi di fatti di questo genere nella storia delle discipline matematiche e il costituire essi quasi una caratteristica speciale di questa rispetto alla storia delle altre scienze cessano d’esssere strani e appaiono anzi cosa perfettamente naturale e spiegabile sol che si ponga mente a quanto il Vailati ha detto sulla forma speciale che assume il vincolo che unisce tra loro, in un dato momento, i cultori della scienza e i loro predecessori.
“ Si verifica per le scienze matematiche – scriveva il Vailati .  qualche cosa di simile a ciò che ha luogo nello sviluppo industriale di quei rami di produzione nei quali quello che gli economisti chiamano il capitale fisso predomina sul capitale circolante, nei quali cioè il valore rappresentato dagli strumenti propriamente detti è assai grande di fronte a quello che corrisponde alle spese per acquisto delle materie prime e al lavoro strettamete applicato ” : considerazione, tra quelle fin qui svolte sui caratteri speciali che presenta lo sviluppo delle sciente matematiche, che può ritenersi come particolarmente riferibile alla rilevanza che il metodo storico assume per un proficuo insegnamento della nostra disciplina.  
- scritto inedito della Prof. Miryam Benvenuto (1953-2012) -



2013-01-31