articolo 1821

 

 
 
NON VALE IL DECORSO DEL TEMPO A SPEGNERE A MATTINATA IL RICORDO DI ARCHITA DI TARANTO
 







Emilio B E N V E N U T O




L’amico Matteo Sansone, l’indimenticabile “speziale” di Mattinata, cui tanto deve la cultura dauna, mi invitava un giorno  alla rilettura del XXVIII carme del Libro I delle Odi del grandissimo poeta latino Quinto Orazio Flacco, nato nell’apula Venosa nel 65 a.C.,  lettura che qui ripropongo ai miei cortesi lettori, in versione, pur se molto vi si perde, italiana:
•Hai misurato il mare, la terra e tutta la sabbia, // Archita, e un pugno di polvere // ricopre ora il tuo corpo presso il lido Matino: // miserabile dono!
•A nulla ti è giovato l’aver scalato il cielo // con la tua mente mortale. // Anche il padre di Pelope, compagno dgli dei, // ghermì la morte, e Titone,
•e Minosse, a cui Giove rivelò i suoi segreti, // Euforbo, tornato dall’Ade, // che uno scudo provò ch’era vissuto // già nei tempi di Troia,
•e solo diede alla morte i suoi nervi e la pelle, // maestro – come tu dici - // della natura e del vero. In un’unica notte // tutti il sepolcro
attende.
•C’è chi le Furie offrono al truculento Marte, // chi s’inabissa nel mare, // mischiate sono le morti di giovani e di vecchi, // nessuno sfugge a Proserpina.
•E me nei flutti illirici sommerse Noto, compagno // del declinante Orione. // O marinaio, non negare, malvagio, alle nie ossa // e al dissepolto capo
•un pugno d’instabile sabbia: qualunque cosa minacci // Euro alle italiche onde, // flagelli i boschi venosini e lasci // incolume te, su cui piova
•ricca messe di doni, da Giove e da Nettuno, // sacro custode di Taranto. // Non temi un colpa che cada sui tuoi figli innocenti? // Un contraccambio pari
•al tuo superbo disprezzo? Siano ascoltati i miei voti // né alcuna pena ti sciolga. // Per quanta fretta tu abbia, non sarà lunga la sosta: // tre pugni di polvere, e via.
Scenario  è la spiaggia di Matinum , l’odierna Mattinata,   ai piedi del nostro Gargano. Lo affollano:
-Tantalo, ricchissimo re della Lidia, figlio di Pluto e Tagete e
padre di Pelope e Niobe, che gli dei dell’Olimpo  invitavano spesso ai loro banchetti, ma, essendo perciò salito in superbia e avendo sottratto in uno di questi  nettare e ambrosia, cibi  divini, per portarli agli uomini e ascosamente offerto in pasto agli dei le carni del  proprio figlio Pelope, per sperimentare la loro onniscienza, della quale dubitava, era stato da essi crudelmente punito: nell’inferno, infatti, immerso  fino al mento nell’acqua, che, quando si chinava per berla, gli sfuggiva, mentre sul suo capo pendeva un albero con frutti dolcissimi che pure gli sfuggivano, quando egli sollevava la mano per coglierli;
-Titone, figlio di Laomedonte re di Troia, sposo di Eos cui Giove concesse che il suo amore per lui durasse eterno; ma essendosi la dea dimenticata di chiedere per il suo sposo l’eterna giovinezza,  era egli invecchiato e tanto decrepito da suscitare ribrezzo e, finalmente,  tramutato in  cicala;
-Minosse,  figlio
di Zeus ed Europa, fratello di Radamanto e Sarpedonte e re di Creta, personaggio tra la leggenda e la storia; gli scavi archeologici di Creta del sec. XX confermano un fondo di verità alla sua leggenda: Minosse creò un grande impero marittimo, debellò i pirati che infestavano il Mediterraneo, emanò leggi così sagge da meritarsi dalla leggenda di sedere agli inferi come giudice con Eaco e Radamanto;
-Pitagora di Samo (570-531 a.C.), che viaggiò molto in Egitto, in Fenicia, a Babilonia, in Magna Grecia, dove si stabilì a Crotone, insegnando musica, matematica e altre scienze e fondando una scuola filosofica, simile a una comunità di asceti, viventi con regole rigide e dediti a insegnamenti esoterici: tutto era al mondo regolato secondo rapporti numerici;   l’anima, relegata in un corpo per colpe antecedenti, attraverso un lungo processo di trasmigrazioni e purificazione (metempsicosi), arrivava a una vita spirituale incorporea; egli stesso  da uno scudo appeso nel
tempio di Era, avrebbe appreso d’essere già vissuto nelle vesti d’Euforbo, un guerriero troiano, il cui  scudo, nella parte inferiore, ne recava infatti il nome;
-le Erinni (= le colleriche), Aletto, Tisifone e Megera, divinità del mondo sotterraneo, personificazioni della maledizione e della vendetta punitiva, soprattutto contro i delitti di sangue, secondo Esiodo figlie di Gea, nate dal sangue di Urano quando era stato mutilato dal figlio Crono, che dovevano quindi la loro origine a un delitto tra parenti; a esse si sacrificavano pecore nere e si davano offerte senza vino; dapprima si credette che la loro persecuzione non avesse tregua, più tardi che avesse fine quando il colpevole si fosse purificato, donde il loro nome di Eumenidi (= ben pensanti, benevoli): erano, per i Romani, le Furiae;
-Identificata da costoro con Proserpina, Persefone, figlia di Zeus e Demetra, moglie di Ades (Plutone): signora dell’Averno, chiamata anche Core (onde si dicevano  Coreie le feste
in suo onore),  staccava un capello ai moribondi, per decretarne la fine;
-per ultimo Nettuno (Poseidone), figlio di Crono e Rea e fratello di Zeus, cui dopo la vittoria sui Titani toccò, nella  divisione del mondo, la signoria del mare e su tutte le deità marine:  era sacro custode e patrono di Taranto perché, secondo la leggenda, Taras, il fondatore della città, era suo figlio.
In questo mescolar leggenda e storia, con cui Orazio altro non intende che richiamarci al pensiero dell’ineluttabilità della morte, emerge la figura di Archita di Taranto, morto in un naufragio nell’Adriatico. Il suo cadavere, spinto dalle correnti marine  sulla spiaggia della garganica  Mattinata, v’era rimasto insepolto. Il poeta immagina che un navigante, forse egli stesso al ritorno da Filippi, dialoghi con la salma del filosofo.
Ma chi era, in realtà, Archita?
Scarsissime sono le notizie sicure. Sappiamo tuttavia: che visse a cavallo tra il sec. V e il IV a.C.; che fu
insigne matematico e filosofo pitagorico, uomo politico di vaglia,  signore di Taranto, sua città natale, contemporaneo  e amico di Platone (428-347)  e, a dir di Diogene Laerzio (VIII, 79-83) “ornato di tutte le virtù”; che, arconte della  potente Taranto,  riuscì  a far ripartire Platone da Siracusa per Atene, quando questi nel 361-6 si trovava in quella città semiprigioniero del tiranno Dionigi. Secondo Aristosseno (fr, 48 W) Archita, quando fu stratega mai fu sconfitto: solo dopo essersi ritirato dal comando, cedendo all’invidia altrui, Taranto subì subito una sconfitta.
Il pensiero greco, da Talete  ad Aristotele, ha, certamente, posto le basi dell’intera problematica filosofica della nostra civiltà. Dire, per esempio, che Socrate (469-399 a.C.)  appartiene esclusivamente al suo tempo significa voler limitare la figura del grande maestro a un grado minimo; oggi, infatti,  sotto alcuni aspetti non certo marginali, il suo pensiero è
ancora vivo e attuale. Ma, sia pure volendo prescindere da un tale grado di  valutazione, ci pare scontato il fatto che non si possa, come Benedetto Croce e Giovanni Gentile hanno giustamente affermato, pretendere di cogliere lo spirito della grecità, che è poi quello di tutta la filosofia occidentale, senza conoscere Platone, che di Socrate fu fedele discepolo.
Ora, se il discorso è valido per uomini come Socrate, Platone e Aristotele, tanto per rimanere nel campo degli esempi, crediamo che si debba altrettanto poter dire di qualche altro. A questo punto è bene fare subito il nome dell’italiota tarantino Archita, il quale certamente – e altri meglio di noi possono documentarlo – influì sia sul piano filosofico che su quello scientifico e, inoltre, sul piano politico, non solo del suo tempo.
Vivace assertore della dottrina pitagorica, il pensatore tarantino offrì alla speculazione filosofica  e scientifica un particolare contributo, non ancora pienamente valutato. Oltre
tutto,  come da più fonti ci viene testimoniato, fu stratega d’indubbie capacità e di sensibilissimo acume e fece acquisire alla sua città una posizione egemonica notevole nei confronti di gran parte dell’area magnogreca. Con lui il pitagorismo, venato da influenze platoniche, assunse certo nuova e importante dimensione politica e quindi sociale.
Fino a qual punto la personalità di Archita fosse da considerarsi cardine della civiltà cui appartenne, si riteneva che fosse un discorso ancora da fare, poiché gli studiosi che  se ne erano  occupati,   l’ Egger e lo Hartenstein  nel 1833, il Grueppe nel 1840, il Becckmann nel 1844, lo Chaignet nel 1874, il Mullch nel 1875, il Blass nel 1884, il Nolle e il Rostagni nel 1914, il Delatte nel 1915, il Frank nel 1923, il Maddalena nel 1954 e infine l’Adorno nel 1961, non sembrava che avessero definitivamente messo un punto fermo sulla sua opera e sul suo
pensiero.                                                                                                 Che un valido contributo fosse quindi tentato nella sua città, la quale mai nel corso di oltre 2ooo anni  aveva perduto il timbro della grande Taras greca, che proprio ai tempi di Archita aveva raggiunto il maggiore splendore e che negli incandescenti anni ’60 aspirava, sotto aspetti completamente aderenti alla civiltà tecnologica, a rinnovarne il lustro, non era certo un fatto da considerarsi in non cale.
La personalità e il pensiero di Archita, senza dubbio, erano da riscoprire, dunque, e da studiare.
Anche per ciò l’occasione offertale di pubblicare, per la prima volta in lingua italiana, i frammenti del grande filosofo non poteva certamente essere trascurata da una giovne casa editrice tarantina, che aveva già dimostrato di aver schiuso i battenti all’insegna della serietà, consapevole dell’iportanza che mai come nei ruggenti anni ’60 rivestivano i problemi di cultura, intesi soprattutto come dialogo efficace fra gli uomini.
Dare l’editrice “Magna Grecia” i “Frammenti Filosofici” di Archita, con introduzione di quell’insigne storico che fu P. Adiuto Putignani o.f.m., poco dopo Rettore della cessata Libera Università Dauna degli Studi in Foggia,  e commento di Bianca D’Amore, fu nel 1965un fatto important, specie se si tiene conto che il lavoro era stato meticolosamente e per anni, elaborato da uno studioso serio, quale è stato Giovanni Stano, che di quei frammenti curò
dal dorico di Archita una brillante versione.
L’italiota Archita ritornava alla luce, novello Euforbo-Pitagora, nella sua Puglia natale. Ma poi? Poi Archita è nuovamente naufragato nel mare del silenzio di una società consumistica, spregiatrice d’ogni vero valore culturale!                 



2013-01-01