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54.Biennale di Venezia, è prognosi riservata |
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L’impressione che resta dopo essersi faticosamente aggirati fra i Giardini, l’Arsenale e le tante sedi decentrate della Biennale di Venezia è quella di aver fatto tanta fatica per nulla. Lo diciamo con la semplicità che merita la cronaca di un’esperienza di interpretazione tanto negativa quanto univoca. A parte qualcuno degli eventi collaterali, su cui torneremo in seguito, le due principali mostre costitutive l’ossatura di questa Biennale hanno deluso entrambi. "Delusione", per la verità, è una parola troppo generosa se riferita alla mostra di Sgarbi al Padiglione Italia (L’arte non è cosa nostra) che più che deludere ha suscitato sgomento nei visitatori e sconcerto misto a rabbia fra molti degli artisti invitati. L’altra grande mostra, a cura di Bice Curiger, più sobria (solo 83 artisti anziché 260) e sicuramente più meditata (non sempre le lunghe riflessioni producono però grandi risultati) non è servita a correggere un giudizio complessivo deprimente. Afasica, aprassica, anaffettiva, fredda, cinica, non c’è un aggettivo che sappia rinchiudere in sé tutta l’inutilità di una serie di passaggi attraverso segmenti dell’arte contemporanea internazionale che non sanno dimostrare nulla se non il proprio vuoto interiore. Noi non crediamo che questa selezione sia rappresentativa degli attuali valori internazionali, ma sicuramente lo è di un gusto medio che ha finito per dettare legge. Per riscuotere, cioè, i consensi dei curatori e dei critici internazionali, dei maitres à penser del sistema dell’arte, ma che sta finendo anche per esaurire, per stremare coloro i quali si occupano di arte contemporanea solo per il piacere di farlo. Chi non abbia interesse, infatti, ad investire in arte, a conoscere le ultime tendenze allo scopo di orientare i propri interessi economici o professionali, nulla può trarre dall’esperienza di una fruizione completamente incapace di esprimere alcunché. Noi non amiamo la parola "energia" usata a vanvera nelle chiacchiere stile new age, ma in questo caso faremo un’eccezione, usandola per denunciare la completa assenza di essa in una Biennale che minaccia di decretare realmente la morte dell’arte per consunzione. Per lo meno dell’arte così come è stata intesa da alcuni millenni a questa parte. L’arte corrisponde oggi a una multiforme attività economico-commerciale, solo secondariamente creativa, che risponde a ragioni che molto poco hanno a che vedere con quelle che ne hanno determinato l’origine e che hanno resistito quasi fino ad oggi. Da alcuni decenni la tendenza dell’arte a diventare altro da sé ha assunto una intensità così forte da minacciare quei processi di mutazione profonda, di snaturamento che questa Biennale sta denunciando con assoluta chiarezza (forse questo è il suo unico involontario merito). Più in particolare, la perniciosa corrispondenza fra una mostra come quella di Sgarbi al Padiglione Italia, infarcita di discutibile pittura e scultura, fatte salve le non numerose eccezioni, e la pressoché totale assenza di pittura e scultura entro gli ambiti delle presunte "ILLUMInazioni" di Bice Curiger sembra accreditare un’idea dell’arte contemporanea tutta rappresa entro le grinze di una visione tecno-installativo-concettuale che confonde i mezzi con i fini e, soprattutto, annoia mortalmente. Ma annoia veramente tanto, finendo, a nostro giudizio, per tradire in larga misura i paradigmi su cui riposa la natura stessa delle arti visive. Un’opera di arte visiva dovrebbe essere, per definizione, pressoché immediatamente fruibile e godibile, indipendentemente dalle caratteristiche del manufatto che la sostanzia. Non dovrebbero essere necessari manuali d’uso o spiegazioni per "capire" un’opera d’arte. Ora, un’osservazione che quasi nessuno fa e che noi, invece, avanziamo è che quasi tutte le opere esposte, in particolare in questa Biennale, ma più in generale negli eventi espositivi canonici per il sistema dell’arte contemporanea internazionale, non possono essere fruite e godute come opere di arte visiva per il semplice fatto che non sono tali. Sono film, sono azioni più o meno complesse. Sono costruzioni spesso anche molto complicate e costose in grado di assolvere a specifiche ed "esoteriche" funzioni. Sono tutto meno che opere d’arte visiva. Per non parlare della confusione che si crea con la pubblicità, con la comunicazione, con la tecnologia, con le dinamiche della speculazione finanziaria ("l’opera più bella è quella che costa di più…"). Ritornando alla Biennale di Venezia, la pittura e la scultura, e cioè le forme tradizionali dell’arte, vengono particolarmente colpite dal confronto fra l’algido appeal politically correct della mostra di Bice Curiger ai Giardini e all’Arsenale e la sarabanda casinista del Padiglione Italia. Per responsabilità di uno Sgarbi, che sappiamo conoscitore e amante della pittura, essa viene penalizzata da questo improvvido parallelo. Non tanto per la superiorità dell’evento firmato della curatrice svizzera, quanto per la fiera bruttezza del Padiglione Italia. E non è, purtroppo, la presenza dei tre grandi quadri di Tintoretto, che inaugurano il percorso espositivo ai Giardini, pure straordinariamente belli, che può riscattare l’operazione nel suo complesso. Semmai il "tanto" del Tintoretto fa risaltare il "nulla" del contemporaneo. Non bastano le buone prove di Gianni Colombo, Norma Jeane, Luigi Ghirri, Marinella Senatori, R. H. Quaytman, Peter Fishli e David Weiss, Sigmar Polke, Dayanita Singh, Elisabetta Benassi e Urs Fischer per invertire il senso di una deriva che appare veramente generale. Né gran parte dei Padiglioni stranieri, tranne quello spagnolo, francese, cecoslovacco, cinese, iracheno, argentino sono stati in grado di proporre prove in controtendenza. Più interessanti sono stati alcuni dei numerosi eventi collaterali proposti dalla Biennale, almeno quelli che ci è stato possibile osservare: l’installazione al Caffè Florian di Pietro Ruffo con le sue "dedizioni" su carta insieme leggere ed incisive; una significativa selezione di opere pittoriche di Cristiano Pintaldi (Ex cantiere navale di Castello); una raccolta di carte di Francis Bacon (San Marco) a cura di Raffaele Gavarro e, soprattutto, una splendida antologica dell’opera di Julian Shnabel al Museo Correr. Quest’ultima manifestazione, pur non collegata direttamente alla Biennale, in qualche modo di essa smentisce i paradigmi, dimostrando l’attualità e la potenza di una pittura che "se ne frega" delle consuetudini e delle tendenze. Lo fa con la semplicità con cui il suo autore, lievemente e con simpatia, è comparso nelle sale del sontuoso museo per commentare i suoi lavori. Al Museo Correr la pittura di Shnabel si impone. Anzi, diciamo meglio, la pittura di questo autore si incarica di dimostrare che la pittura in generale e nonostante tutto (r)esiste. Fino a quando questa cosa durerà, ci sarà speranza, ci sarà futuro. Ma ancora per quanto? Non vuole essere una conclusione pessimistica o, peggio, passatista la nostra. Il nuovo, infatti, quando è veramente tale, non ci suscita alcun disagio. Al contrario è del nuovo che vorremmo nutrirci e non della bulimia divoratrice di un contemporaneo che rumina sé stesso. Roberto Gramiccia |
2011-06-07
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