E’ universalmente noto che la politica e le istituzioni in genere riservano scarso interesse al settore della cultura. Il che è molto probabilmente dovuto al fatto che i rappresentanti che pure ci governano ignorano il valore della cultura e soprattutto non sanno che attraverso le opere che i grandi autori ci hanno lasciato sarebbe possibile capire il nostro tempo e di conseguenza agire adeguatamente. Capire significa ovviamente poter intervenire per risolvere. Non a caso è stato detto – e non è solo una provocazione – che sarebbe meglio lasciare che fossero i poeti a spiegare la crisi economica in atto. Nell’anno in cui si celebra il sommo poeta per i 700 anni della morte risulta quanto mai utile rileggere alcuni versi danteschi per capire meglio la condizione in cui si trova il nostro paese che viene diremmo profeticamenteanticipata e descritta già da Dante in uno dei suoi canti più belli e famosi, il VI del Purgatorio che è talmente pregnante che conviene analizzarlo più dettagliatamente per valutare le straordinarie analogie con gli anni che abbiamo vissuto e stiamo vivendo. Vediamo allora. Il canto si apre con la presenza di un personaggio che ha vinto al gioco d’azzardo, forse solo per fortuna, forse perché ha barato ma sta di fatto che viene acclamato da una ciurma di lecchini postulanti che a vario titolo sperano di ottenere qualcosa da lui, denaro od altro, ed è proprio quello che il personaggio fa allontanandosi tra gli entusiasmi: “Quando si parte il gioco della zara,/colui che perde si riman dolente,/repetendo le volte ,etristo impara:/con l’altro se ne va tutta la gente;/qual va dinanzi,e qual di dietro il prende,/e qual da lato gli si reca a mente:/el non s’arresta, e questo e quello intende;/ a cui porge la man più non fa pressa;/ e così dallacalca si difende./. Come si vede il protagonista della scena è attorniato da una calca subalterna mentre colui che ha perso resta inchiodato nella sua solitudine ripensando allo sconfitta, incapace di agire.E’ il quadro di una certa Italia recente e non a caso incontriamo fra le altre figure un personaggio come Ghino di Tacco che come sappiamo è stato usato come pseudonimo per gli sfoghi giornalistici di Bettino Craxi negli anni tristi del caf (Craxi/Andreotti/Forlani) che fanno da vestibolo allo squallore nel quale il nostro paese è crollato. Nel canto c’è, prima della parte più drammatica e per noi cogente, un episodio ancora che fa -2- riflettere: il valore dell’amicizia e della riconoscenza che la nostra epoca ha smarrito. E’ qui che Virgilio incontra Sordello (“O Mantovano, io son Sordello della tua terra, e l’un l’altro abbracciava”.L’appartenenza, il comune destino territoriale viene vissuto come un legame forte che dura nel tempoe perfino oltre la morte. Ma il canto diventa straordinariamente profetico a partire dal verso 76, allorquando comincia la famosa invettiva che ora ci appare non uno sfogo limitato del tempo ma l’espressione di una condanna imperitura che arriva ai nostri giorni: “Ahi serva Italia, di dolore ostello,/nave senza nocchiere in gran tempesta,/non donna di provincie, ma bordello!/”. E’ un destino che il nostro paese sembra portarsi appresso senza sosta, l’incapacità di una guida sicura e poi , come ancora dice nei versi seguenti la constatazione di tante beghe locali che non riescono a farne un destino condiviso.Il paese che pure ha conosciuto il codice di Giustiniano, (ed ancora oggi siamo soliti dire che viviamo nella patria del diritto), è incapace di governarsi, allora come oggi. Ed il paese, rappresentato come un cavallo, è ingestibile, mancano gli sproni, ed il cavallo di cui sopra viene condotto a mano, con la briglia lenta, la“predella” dice Dante e qui l’assonanza fonetica col predellino di berlusconiana memoria è addirittura stupefacente e ancora una volta sta a ricordarci l’incapacità strutturale di chi è chiamato a governare e si affida all’improvvisazione più becera e dilettantesca. Vista l’incapacità nazionale, di darsi una guida, il poeta invoca l’intevento straniero, in questo caso la richiesta è fatta esplicita ad “Alberto tedesco”, ovvero alla casa asburgica individuata come la sola capace di intervenire con successo. La domanda è rivolta guarda caso alla Germania, così come si è sperato e si spera ancora oggi che i tedeschi possano e vogliano far qualcosa per aiutare l’Italia ad uscire dalla crisi. Dante si duole della insensibilità dei governanti germanici nei confronti dell’Italia che pure si spegne fra liti e contumelie varie: “Vieni a veder la tua Roma che piagne/vedova e sola, e dì e notte chiama:/…….Vieni a vederla gente quanto s’ama!” Uno società allo sbando governata malissimo e non in grado di fare leggi appena durevoli tanto è vero che quello che vien costruito un giorno è poi puntualmente distrutto all’indomani : “che fai tanto sottili/provvedimenti ch’a mezzo novembre/non giugne quel che tu a ottobre fili”. In una situazione del genere la malattia sembra senza speranza e vive solo d’illusioni. E qui il paragone finale è con l’immagine della donna inferma che pensa di trovar sollievo rigirandosi e -3- cambiando posizione sul letto delle sofferenze: “che non può trovar posa in su le piume,/ ma con dar volta suo dolore scherma”. Che dire? Si resta meravigliati nel constatare la staordinaria lungimiranza dantesca che ci fornisce un quadro del nostro paese , dei suoi problemi e delle sue inefficienze da farci inorridire e vergognare nel pensare a come si comporta ancora oggi la classe politica e dirigente. Unapoesia come questa andrebbe almenio inserita di diritto nei programmi scolastici con l’obbligo di studiarla e approfondirla in tutte le classi della scuola superiore. E sarebbe anche un modo giusto per celebrare i 700 anni della morte del grande poeta Antonio Filippetti |