astro DI THOMAS BROWNE
 







di Emanuele Trevi




THOMAS BROWNE

In pochi, ha scritto una volta Virginia Woolf, conoscono i libri di Thomas Browne, ma coloro che lo amano sono «il sale della terra». Qualche decennio dopo, nel corso di una delle lezioni sulla poesia tenute a Harvard nel 1967-68, Jorge Luis Borges confessò, forse con eccessiva modestia: «i miei tentativi di essere Sir Thomas Browne in spagnolo sono completamente falliti». La fortuna di Thomas Browne, medico e scrittore inglese vissuto dal 1605 al 1683, ha qualcosa di prodigioso, ed è un perfetto esempio di quella che, attraverso i secoli, è la vita di un autentico classico. Perché questa vita sia davvero piena e significativa, non basta il lavoro degli eruditi e degli studiosi: c’è in ogni tradizione un potenziale di futuro che solo nuovi scrittori sanno scovare, appropriandosi del lecito ma anche proiettando e volentieri fraintendendo. E sì che Thomas Browne, per tanti versi, e anche più di tante stelle delfirmamento barocco, era un uomo ben piantato nel suo tempo. La teoria copernicana non lo convinceva fino in fondo. Testimoniò a un processo per stregoneria.
L’intuizione di Sebald
In generale, fu un carattere timido e moderato: da anglicano, temeva molto più gli eccessi calvinisti dei puritani che le idolatrie e le furbizie della chiesa cattolica. Aveva fede nell’influsso degli astri sulle inclinazioni personali, e quanto a lui, la predisposizione fondamentale del carattere era senza dubbio la malinconia: «Alla mia natività, il mio ascendente era il segno acquoso dello Scorpione; sono nato nell’ora planetaria di Saturno, ed è come se avessi un pezzo di quel plumbeo pianeta in me».
Browne era figlio di un ricco mercante della seta, e prima di stabilirsi per gran parte della sua lunga vita a Norwich, esercitando sempre la professione del medico, si era formato nelle migliori università dei suoi tempi, partendo da Oxford per approdare prima a Padova, poi aLeida. Proprio il suo soggiorno olandese ha ispirato a un grande scrittore contemporaneo, W. G. Sebald, una intuizione affascinante ma inverificabile: ci sarebbe anche Browne tra gli studenti che assistono alla Lezione di anatomia di Rembrandt. Le date coinciderebbero, perché la dissezione immortalata nel famoso dipinto fu realmente eseguita dal celebre Nicolaas Tulp nell’inverno del 1632, quando in effetti Browne era ancora in Olanda. Un altro più che probabile partecipante alla lezione potrebbe essere stato nientemeno che Cartesio. L’aura di gloria che emana da questa lezione si è trasmessa addirittura al cadavere utilizzato per la dimostrazione, dotato di nome e cognome (era un certo Aris Kindt, un delinquente appena impiccato). Lo stupendo ritratto che Sebald dedica a Browne apre e conclude il suo capolavoro, Gli anelli di Saturno, «pellegrinaggio in Inghilterra» che proprio da Norwich prende le mosse.
Siamo all’inizio degli anni Novanta, e Sebald è ricoverato all’ospedale diNorwich nel cui museo, secondo qualche documento ufficiale, dovrebbe essere custodito il teschio di Browne, dopo che la primitiva sepoltura era stata danneggiata a metà Ottocento. Proprio Browne, in uno dei suoi saggi più famosi dedicato agli usi sepolcrali degli antichi, aveva lamentato come una grande disgrazia la rimozione dei resti del corpo, in attesa del giorno della resurrezione.
Stabilitosi a Norwich, Browne godette di un’esistenza tranquilla, dedicandosi alla sua professione, allo studio, alla scrittura dei suoi libri. La sua biblioteca, di cui si è conservato il catalogo, era una delle più notevoli del tempo. Vi si fondevano in una sintesi inimitabile libri di anatomia e di alchimia, di botanica e di astrologia, e ancora filosofia, storia, teologia, geologia, teologia.
Il suo primo libro è la Religio Medici, stampata nel 1643 dopo che un’edizione pirata (caso non raro a quei tempi) ne aveva diffuso, l’anno precedente, un testo scorretto e lacunoso. Ma la composizionerisale a qualche anno prima, quando l’autore aveva circa trent’anni. Seguirono due trattatelli di strabiliante erudizione, quello sui sepolcri antichi e Il giardino di Ciro, mirabolante divagazione sull’importanza del numero cinque e sulle arcane proprietà della figura geometrica detta quincunx. L’opera più importante della vecchiaia, poi, è una specie di enciclopedia sulle credenze e le superstizioni popolari degli antichi e dei moderni. Nel frattempo, la Religio Medici veniva tradotta in varie lingue, commentata, confutata.
Tutto è artificiale in questa vita
All’inizio dell’età romantica, furono gli scrittori più avanzati a riscoprire il capolavoro di Browne - da Coleridge, che annota con sottili osservazioni la sua copia a chi, come De Quincey, trova in quelle pagine un modello impareggiabile di prosa saggistica e autobiografica. Eppure il probo, precocemente saggio Browne, sarebbe di certo inorridito di fronte alle Confessioni di un mangiatore di oppio! Lostesso argomento della Religio Medici non ha, a prima vista, nulla di tanto interessante per un lettore moderno. Si tratta, come promette il titolo, della professione di fede di un medico. Tutto ciò che l’autore ha da dire di sé, ruota attorno a questo perno di carattere prettamente religioso e morale.
Maestro supremo nell’identificazione e nell’anatomia dei più sottili moti dello spirito, Browne tralascia del tutto gli eventi esteriori della vita, ridotti a scarse allusioni, concentrandosi su una specie di autobiografia spirituale rivolta alle cose supreme. Nella sua biblioteca, è Dante a compensare l’assenza di Shakespeare. E questa preferenza si comprende bene solo tenendo presente il fatto che il nord magnetico e l’orizzonte ultimo di ogni meditazione sulla vita cristiana è la morte, o meglio il destino dell’anima dopo la morte. Rimane il fatto, indiscutibile per lo scienziato Browne, che questa storia della salvezza individuale, quale che ne sia l’esito, si svolge tra le cosedel mondo, i fenomeni e i prodigi di macrocosmo di cui l’uomo è una perfetta miniatura. Esiste davvero una differenza tra ciò che è artificiale e ciò che è naturale? Browne ne dubita: «le cose sono tutte artificiali, poiché la natura è l’arte di Dio». E la natura essenziale di questo complesso, inesauribile artificio divino delle apparenze, sembrerebbe essere di carattere linguistico, perché ogni cosa, a saperla decifrare, non è che la scrittura, la «stenografia», il geroglifico della volontà divina. Ora, questo alfabeto dalle manifestazioni così varie non fa che comporre il poema della caducità universale. Ed è un sapere ai suoi tempi considerato del tutto positivo e sperimentale come l’alchimia a fornire a Browne i suoi argomenti più efficaci. «Quel poco ch’io so circa la scienza della pietra filosofale mi ha insegnato molta teologia», dichiara il medico iniziato alla più occulta delle scienze.
Il punto di vista alchemico corrisponde perfettamente al contenuto più alto dellasperanza cristiana, perché in entrambi i casi la morte è trasmutazione, liberazione dalle scorie materiali, ripristino della purezza originaria. Questa convinzione innalza il tono della prosa di Browne suggerendogli alcune delle sue formidabili sintesi: «a me, che considero le cose secondo natura e in via sperimentale, l’uomo par nulla più che un processo dissolutivo, o una fase preparatoria per giungere a quella gloriosa quintessenza che sta imprigionata nelle pastoie della carne».
Il processo alchemico modifica e apparentemente mortifica le sue materie prime per liberarne dalle scorie la «quintessenza», e nello stesso modo agiscono il tempo, le malattie, la morte con i singoli individui. Stando al catalogo della sua biblioteca e a certi episodi documentati della sua vita, vaste e profonde furono le conoscenze di Browne nel campo dell’alchimia. Ma bisognerà aspettare gli studi di Carl Gustav Jung per comprendere pienamente il senso di questa identificazione, nel segno dellametamorfosi, tra la materia e l’anima.
Browne non ha dubbi, tutto quanto è materiale è segretamente, internamente abitato dallo spirituale, che attende di essere liberato al termine di un necessario processo di dissoluzione: «semplicemente estraete la parte materiale dai corpi, o disintegrate le cose oltre la loro materia prima, e scoprirete la dimora degli Angeli». Bastano poche frasi per far comprendere la qualità eccelsa della prosa di Browne, lenta e avvolgente come un grande adagio, ma capace di cambiare all’improvviso il passo (spesso alla fine dei brevi capitoli) sul filo di vertiginose invenzioni metaforiche. Ancora oggi, dopo secoli di scavi psicologici raffinatissimi, non si può non rimanere impressionati e incantati, leggendo la Religio Medici, di fronte al singolare miscuglio di erudizione, sottigliezza, conoscenza dell’animo umano che caratterizza questa prosa. Tutte qualità che, col senno del poi, riconosciamo talmente ricche di futuro che quasi ci è impossibileleggere Browne prescindendo dalla lente - per quanto deformante - dei suoi epigoni. Che scrittori come Borges e Sebald, inventori di una prosa sempre al confine tra i generi consolidati, abbiano tanto amato Browne è tutto meno che una curiosità archeologica. In un saggio del 1929, Mario Praz chiariva perfettamente la questione definendo lo scrittore inglese «uno dei Santi Padri del saggio moderno». Vale a dire, del più malleabile, amorfo, polimorfo genere di scrittura che la modernità ha scelto come specchio. E non solo al saggio preso in sé bisogna pensare, ma anche alla sua straordinaria forza di ibridazione e contagio, la cui prima vittima è stata il romanzo ottocentesco. Ma molto di quello che leggiamo ogni giorno su giornali e riviste, per non parlare di Internet, non è che la forma estrema (e molto spesso degradata) di una specie di saggismo di massa che, confrontato ai suoi nobili archetipi, appare quasi come una contraddizione in termini.
Uno specchio per noi
Straordinaria nella capacità di sintesi, quasi volesse imitare anche nella lunghezza materiale l’idea-guida del microcosmo e dell’individuo come geroglifico del tutto, la Religio Medici non supera di molto le cento pagine. In questo Browne scelse la strada opposta a quella del suo più illustre predecessore, Montaigne, che un secolo prima, con i suoi Saggi, aveva composto un poema dell’identità potenzialmente infinito, dissolvendo il pensiero nell’innumerevole pulviscolo delle sue occasioni. Raggiunto il più stabile punto di equilibrio tra la scienza del mondo e la conoscenza di sé, Browne mira solo all’essenziale, al caso individuale tanto più solitario e irripetibile quanto più capace, paradossalmente, di farsi esempio per gli altri. Tanto è vero che quell’auroritratto di un gentiluomo barocco lo possiamo ancora utilizzare, stupiti e affascinati, come fosse uno specchio.de Il manifesto






2008-07-03


   
 

 

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