Un alfabeto per rompere la matrice del controllo
 







di Benedetto Vecchi




William Gilbson

Una affascinante serie di tematiche inanellate con eleganza, senza mai cedere alla tentazione della citazione dei successi passati. C’è sempre il rapporto con le sostanze stupefacenti e con le religioni caraibiche, ma senza nessuna alterazione nella percezione della realtà, come invece accadeva nei suoi romanzi precedenti. Anche il cyberspazio è sempre lì, ma è diventato parte integrante della realtà, al punto da considerare pretestuosa ogni distinzione tra vita dentro e fuori lo schermo. Inoltre, questa volta la realtà virtuale è propedeutica a performance artistiche definite «geo-locative». Dunque, nessuna tentazione cyberpunk. Semmai la convinzione sull’onnipresenza delle tecnologie digitali.
William Gibson è tornato in libreria con un romanzo il cui titolo inglese, Spook Country (il paese degli spettri), è stato esotizzato in Guerreros (Mondadori, pp. 381, euro 17,50). È un romanzo difficile, che si dipanain vicende con pochi punti di contatto. C’è una giornalista free-lance con un passato di musicista in una band molto amata dalla cultura underground. È stata assoldata da un magnate della pubblicità che vuol pubblicare una rivista che scalzi Wired dal trono dei magazine di tendenza. Deve scrivere un articolo su una nuova forma d’arte definita «geo-locativa» che ha un guru tecnologico in un virtuoso della navigazione satellitare. In una successione «randomica» compaiono anche i componenti di una famiglia cubana fuoriuscita dal proprio paese. Sono loro i guerreros che devono fuggire da uomini di un’intelligence forse privata forse statale. Ma poi c’è un container avvolto nel mistero che deve essere rintracciato. La trama diventa matassa, in cui il rischio di perdersi è costante. Con un colpo di mouse, Gibson riesce però a sbrogliarla solo nelle ultime pagine.
Un romanzo la cui uscita è stata salutata con poco entusiasmo dalla critica statunitense. E tuttavia Guerreros è un cupoaffresco degli Stati Uniti dopo l’11 settembre, dove la raccolta, elaborazione di informazioni serve a esercitare un controllo capillare sulla società americana, ma anche per garantire che il flusso di capitali, saperi, conoscenze prosegua senza resistenza. Che si manifesta, invece, attraverso l’uso di un linguaggio inventato, il volapük, un russo depauperato dell’alfabeto cirillico che solo gli iniziati riescono a comprendere.
William Gibson non si sottrae alle domande, ma mostra insofferenza quando gli vengono ricordati i romanzi cyberpunk, «sono passati venticinque anni e il mondo è nuovamente cambiato. Quelle storie appartengono al passato e non al presente». Mostra invece curiosità verso il Festival Internazionale di Roma Letterature, la manifestazione promossa dal Comune di Roma che lo ha invitato a questa edizione. E dove parlerà questa sera assieme allo scrittore Joe R. Lansdale (appuntamento alle 21, nella Basilica di Massenzio al Foro Romano).
La chiave diaccesso a «Guerreros» sembra essere il volapük. Poi improvvisamente scompare dalle pagine, risucchiato nel vortice che colpisce tutti. Da alcuni libri a questa parte lei dedica molta attenzione a ciò che rimane dell’influenza sovietica nel mondo. E se nel precedente «L’accademia dei sogni» la regia che tira le fila dei cacciatori di tendenze è in Russia, in questo romanzo l’ex-Unione sovietica è presentata come un mistero irrisolvibile. È proprio così?
La fiction è per me un’esplorazione del mondo e la scrittura serve a definire la sua mappa. Mi piace scrivere pagina per pagina e far emergere, dalle parole che scelgo, ciò che ho scoperto. È un modus explorandi al termine del quale scopro con meraviglia che ho maturato una convinzione attorno alla realtà che voglio raccontare. Non ho nessuna attitudine didattica. Né credo di avere nessuna vocazione profetica. Semmai sono interessato a intessere una rete di prospettive diverse da cui guardare al mondo contemporaneo.
Neiprimi romanzi l’Unione sovietica era un monolite destinato a durare secoli. In Neuromante, ad esempio, ho a lungo giocato con l’ipotesi sulla fine degli Stati Uniti, che da nazione diventava un conglomerato di «città-imprese». In molti hanno letto quel romanzo come un’anticipazione del futuro. Un quarto di secolo dopo posso invece dire che il suo limite maggiore è di non essere riuscito a prefigurare l’implosione dell’Unione Sovietica. Potevo forse immaginare un suo lento disgregarsi, ma era una possibilità che si sarebbe manifestata nei secoli a venire. Invece, dopo sette anni l’Unione sovietica non esisteva più.
Negli Stati Uniti, l’Urss era il nemico pubblico numero uno; potevi anche non incontrarlo mai, ma la televisione lo mandava continuamente in onda. Ricordo ancora nitidamente la sorpresa e lo stupore che provai in un bar di San Francisco quando vidi per la prima volta un passaporto sovietico appartenente a un dirigente del Kazakhstan in visita negli Stati Uniti. Wow,pensai, ecco un sovietico.
L’Unione sovietica era l’altro da noi che mai sarebbe scomparso. Sappiamo cosa poi è accaduto. Tra i tanti nemici attuali degli Stati Uniti c’è Cuba, verso la quale abbiamo lo stesso atteggiamento di alterità. In Canada, dove vivo, l’Avana è invece diventata la meta del turismo di massa. In Guerreros molti personaggi vengono da Cuba e ho scelto di mettere dei cubani proprio perché penso che gli americani dovrebbero cambiare le loro idee, spesso ostili verso quel paese.
L’aspetto interessante del volapük è invece un altro. È una lingua russa che non usa però il cirillico. Ma da questa parte dell’Oceano, il russo è la lingua di un paese sinonimo di uno stato che esercitava un controllo meticoloso sulla vita dei propri sudditi. Nel suo romanzo, invece, il russo è la lingua per sottrarsi al controllo, per mimetizzarsi, per far perdere le proprie tracce.....
Sono rimasto molto affascinato e divertito quando ho appreso la storia delvolapük russo. Da un certo punto di vista è la storia di un fallimento. Il volapük, in Russia, è stato presentato come una sorta di esperanto. Dall’altra parte, doveva rispondere a problemi più legati alla contingenza. Quando i russi hanno clonato il personal computer si sono trovati di fronte alla difficoltà di dover utilizzare una macchina che non usava il cirillico. Quindi dovevano avere un alfabeto che traducesse facendo a meno del cirillico. Il volapük era questo goffo tentativo di traduzione dal cirillico all’alfabeto romano. Allo stesso tempo, però, è la storia di come uomini e donne si sono appropriati e hanno adattato alle loro necessità una cultura «altra». Possiamo considerarlo un esempio moderno di epitome: non si rinuncia al russo, ma lo si sfronda degli elementi non necessari rispetto all’obiettivo che ti sei dato. Certo, l’Unione sovietica era sinonimo di controllo sociale pervasivo. Nel mio romanzo, il «russo volapük» è sì usato dai cubani fuoriusciti per sfuggire alcontrollo, ma possiamo però giocare a fare una previsione: tra venti, trenta anni il russo potrebbe diventare la langue della pubblicità chic destinata a un pubblico facoltoso.
Uno dei sentimenti dominanti dei personaggi dei suoi romanzi è l’angoscia. In Guerreros l’angoscia esplode quando ogni personaggio «ricorda» che ogni aspetto della sua vita è sottoposto a controllo di potenze oscure, sia statali che private. Una delle protagoniste si rifugia sotto le lenzuola e considera quello spazio come un grembo materno che la protegge da quel senso di vulnerabilità e fragilità che il controllo alimenta. La privacy è un residuo del passato?
Spesso amo considerare il mio lavoro come una delle possibili traduzioni letterarie di quel sublime che il filosofo Frederic Jameson ha considerato, in uno dei suoi ultimi scritti, uno dei tratti distintivi della postmodernità. È noto che Jameson consideri il sublime come manifestazione di sentimenti tra loro eterogenei. Senso diangoscia, meraviglia, paura, piacere rispetto a un «evento terrificante». Insomma, un misto di orrore e estasi rispetto a quel terrore. Nei miei romanzi provo a catturare lo zeitgeist, cioè quel sublime così descritto da Jameson come spirito del tempo dominante nelle società postmoderne. Le tecnologie del controllo e il controllo sociale alimentano questo sentimento ambivalente di terrore e estasi. Tutti i miei personaggi possono essere raffigurati come i personaggi di film horror: sanno che ci sono dei mostri in giro, ma continuano la loro vita come se niente fosse, fino a quando girano la testa e si trovano vis-à-vis con essi. A quel punto, il loro volto è deformato dall’orrore.
C’è però una differenza tra i «cowboy della consolle» di molti suoi romanzi precedenti e la giornalista freelance di Guerreros o la cacciatrice di tendenze de L’accademia dei sogni. Anche in passato c’erano le imprese o gli stati che volevano controllare tutto, ma sfuggire ad essi era una sfidache provocava sentimenti altrettanto forti, perché era una sfida che poteva essere vinta. Cosa è accaduto in questo intermezzo che va dalla sfida dei «cowboy della consolle» e l’angoscia del presente?
È accaduto che sono passati venticinque anni. Quando ho scritto Neuromante e gli altri romanzi definiti del genere cyberpunk avevo in mente, tra tante cose, anche i film di Sergio Leone. Meglio: mi affascinava moltissimo la stilizzazione minimale che Sergio Leone faceva dei personaggi delle sue storie. Ogni volta che vedevo un suo film rimanevo colpito dal minimalismo psicologico dei suoi eroi. Ho provato così a creare dei personaggi «minimali», senza una storia alle spalle. Ora invece sono interessato a parlare del passato dei personaggi che prendono forma nei miei romanzi. Così, c’è chi ha partecipato a una band musicale di tendenza, hanno amici, hanno amato. Quello che desidero è mostrare una maggiore complessità sentimentale, sperando però che questo non pregiudichi unaricezione autonoma delle storie che racconto.
Nei suoi romanzi, gli Stati Uniti emergono come un paese paralizzato, quasi ripiegato su se stesso. E se Luce virtuale era l’inizio di una trilogia sul conglomerato di «città imprese», in Guerreros il degrado metropolitano si è diffuso come un virus. La descrizione di Philadelphia è, ad esempio, un affresco sulla morte di questa città. Ma siamo proprio al declino americano?
Gli Stati Uniti come un paese ripiegato su se stesso? Non saprei davvero cosa dire. Nel romanzo parlo degli Stati Uniti dopo l’11 settembre e di come la «guerra al terrore» sia diventata effettivamente infinita. I personaggi del romanzo sono cresciuti a cavallo di due millenni. Erano giovani durante gli anni «verdi» della prima amministrazione Clinton, ma sono entrati nella maturità dopo l’11 settembre. È questo il loro mondo. Io guardo al mio paese da una prospettiva privilegiata. Vivo da molti anni in Canada e quando torno negli Stati Unitirimango sempre sorpreso dai cambiamenti che ci sono stati tra una visita e l’altra.
In Neuromante, ad esempio, la città di cui parlavo era New York. Avevo lasciato il mio paese molto giovane e ero tornato a visitarlo molti anni dopo. Rimasi terrorizzato da come erano cambiate la città. Per molti artisti, scrittori e opinion makers, la Grande Mela degli inizi anni Ottanta era una città meravigliosa, vitale. Io rimasi invece colpito dal degrado. Ora il degrado sembra essersi fermato, perché molti quartieri sono stati riqualificati. In altre metropoli la situazione è invece paragonabile alla Philadelphia raccontata nel libro. Quello che posso dire è che forse gli Stati Uniti non sono più l’unico centro del mondo. Molti paesi si sono presentati sulla scena mondiale. Il Giappone prima, la Cina adesso. Gli Stati Uniti eccellono in alcuni settori tecnologici, ma c’è un flusso di capitali, saperi, esperienze orientato da logiche che non sempre coincidono con quellestatunitensi.
Nel romanzo c’è però una digressione sulle metropoli canadesi, considerate l’esempio di come dovrebbero essere quelle statunitensi. Inoltre, scrivi che Vancouver è più vicina alla Cina che non gli Stati Uniti. Vuol dire che gli Stati Uniti debbano guardare al Canada come a un modello di società auspicabile?
Il regista canadese David Cronenberg dice sempre che guardare gli Stati Uniti dal Canada è guardare un paese dalla sua frontiera. E che quella posizione consente uno sguardo distaccato, ma al tempo stesso molto partecipe. Quando scrivo che la Cina è più vicina mi riferisco al fatto che il Canada non ha, per il momento, nulla da temere da Pechino. Non sono interessato a fare profezie sugli Stati Uniti, ma dubito che possa accadere quello che lei ricorda sulle affermazioni di uno dei personaggi del romanzo. Piuttosto credo che avvenga il contrario, cioè che il Canada percorrerà lo stesso sentiero intrapreso dagli Stati Uniti.de Il Manifesto






2008-06-03


   
 

 

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