Le ultime poesie di Michele Ranchetti
 







di Marco Pacioni




Michele Ranchetti

L’itinerario di Michele Ranchetti, che ci ha lasciato all’inizio di febbraio, si configura come un percorso intellettuale in cui le deviazioni e le interruzioni sono più importanti delle continuità. Così egli scriveva in uno dei saggi raccolto nel primo volume dei suoi Scritti diversi (Edizioni di Storia e Letteratura, 1999): «... la vita si interromp(e) più volte nel corso della vita, ed è a questa «forma» di interruzione che si deve attribuire una rilevanza non prevista o almeno trascurata nelle «biografie» e di rado presente nelle scritture autobiografiche. La vita di qualsiasi uomo, sano o malato, non è per nulla un percorso lineare in cui la presenza della vita costituisca un elemento costante». E tutta fuorché «lineare» era la gamma dei suoi interessi: Pascal, Wittgenstein, Freud, Benjamin, Celan, Rilke, gli eretici, la storia della chiesa, la traduzione e, naturalmente, la scrittura poetica.
Nonostantel’avesse praticata in forma privata sin da adolescente, Ranchetti si era convinto soltanto di recente, alla fine degli anni ’80, che la poesia potesse essere la «forma» attraverso la quale esprimere le cesure, le interruzioni e le discontinuità: ciò che per definizione è più difficile, se non impossibile, rappresentare. A tale compito è chiamata anche la sua terza raccolta, uscita postume con il titolo Poesie ultime e prime per la collana Verbarium della Quodlibet (pp. 89, euro 15).
La sequenza del titolo, descrittiva della reale cronologia dei componimenti, e l’esergo «vi sono più testamenti che eredi» evidenziano come l’itinerario di Ranchetti non possa e non voglia disegnarsi come una narrazione in cui l’inizio e la fine hanno il loro posto stabilito.
Come nelle scritture che inclinano alla mistica o si situano in atmosfere estreme - per esempio in Giovanni Della Croce, in Angelo Silesio, in Carlo Michelstaedter o nel Giorgio Caproni di Res Amissa, per fare alcuni nomivicini a Ranchetti - origine e termine, vita e morte e, più in generale, tutte le antitesi non vengono semplicemente espresse come opposizioni, ma come simbiosi.
Fluttuando continuamente le une nelle altre queste antitesi ci consegnano sempre l’impressione del movimento e contemporaneamente dell’immobilità, dell’apertura e della chiusura perentoria: «Di contro al tuo silenzio non ha voce / il grido del neonato che si accerta / d’esser vivo piangendo perché teme / l’atterrito silenzio in cui tu muori viva. // Un altro vento muove le tue membra / e percorre il tuo corpo. Verso dove? / Dov’è la morte e perché il suo grembo / ti vuole nascere, madre del suo vivere, / del tuo morire?».
Benché a prima vista potrebbe sembrare il contrario, quello di Ranchetti non è il tipico stile della coincidentia oppositorum: la formula più identificativa e abusata della tradizione mistica. La logica dei contrasti, la loro ossessiva ripetizione non sono il rovescio della linearità. Le antitesi, gliossimori e i chiasmi non chiudono completamente gli snodi del cursus della scrittura. C’è sempre una tensione asimmetrica che salva un resto - spesso per isolarlo tragicamente - uno spunto imprevisto, un tertium non pienamente dicibile, ma che proprio per questo si può «mostrare», come voleva Wittgenstein. È questa forse la punta più estrema e originale della vena mistica della poesia di Ranchetti, che vuole contemporaneamente demistificare l’incantamento affabulatorio e spiazzare tanto se stesso nell’atto dello scrivere che il lettore. Nelle poesie latine - le «Prime», poste nella seconda sezione del libro, ma risalenti agli anni 1940-1945 - le iterazioni perdono la loro ossessività, il ritmo è meno spezzato e sembra placarsi: si riflette in questi versi l’influenza del latino liturgico e della sua ritualità cristallizzata nella quale la specificità della voce del poeta sfuma in coralità. Al contrario, nelle due poesie in tedesco presenti nella prima sezione titolata «Ultime», lapronuncia è più secca, le asimmetrie si stemperano. A differenza del latino (e solo in parte dell’italiano), lingua della preghiera, il tedesco sembra assumere di più il ruolo di lingua del giudizio assertorio. L’influenza di Celan (ma anche quella di Wittgenstein) è qui molto forte.
Il fatto stesso che è difficile accostare senza forzature Ranchetti alle principali tendenze della poesia italiana contemporanea ne sottolinea la «inattualità», che è tale non soltanto nella poesia, ma anche nella sua affezione alla psicoanalisi, alla religione, nei progetti editoriali e, in generale, nei modi della sua presenza intellettuale. E tutto ciò si converte in un segno ancora più vivido e in un patrimonio di cui si può disporre a patto di trasformarlo in monumento. Quella di Ranchetti è anche una via alternativa verso la poesia religiosa che non raggela nella mera presenza il mistero dell’Incarnazione e che anzi contesta l’arresto al visibile operato con sempre più forza dall’istituzionecattolica. In queste sue ultime poesie la morte viene convocata per riuscire ad appropriarsi della vita, a comprenderla mentre tuttavia sfugge e dunque risulta «assente» nel momento in cui chi scrive cerca di rintracciarne avvertirla come una presenza attiva nel proprio sé.
Convocare la morte, chiamarla a rendersi presente inevitabilmente dal lato della vita, significa riaprire continuamente il tempo al perdurare della rivelazione cristiana, sottraendo il divenire a ciò che è considerato come dato una volte per tutte, come «già-rivelato». Nella religiosità che si ripara nel «rivelato» l’esistenza può specchiarsi e riconoscere - o credere di scoprire per la prima volta - di avere una identità da trasferire, eventualmente, all’esterno. Il corpo e la mente, la vita e la morte, il bene e il male diventano etichette con le quali non si interroga più l’esistenza nella quale si è manifestato l’evento religioso, ma la proiezione del riflesso di sé sugli altri.
La religiosità diventa un«valore» da monetizzare - il «rivelato» diventa (capitalisticamente) un «ricavato». E il sentimento religioso mentre svanisce nel singolo si va a ricomporre nella moltitudine, nel fragore dell’applauso. Proprio nel momento in cui sta per rendersi udibile il battito delle mani Ranchetti trova spazio con la sua poesia che introduce un tempo di mezzo fra «battere e levare».de Il Manifesto






2008-05-27


   
 

 

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