LEONCILLO
VITA, OPERE e FORTUNA CRITICA
 







di Giuseppe Appella




Leoncillo
Natura morta con dominio
1943, ceramica cm. 32 x 47,5

Spoleto, 18 novembre. Nasce da Fernando Leonardi e Giuseppina Magri, terzo di tre figli (Clara e Lionello, la prima del 1900, il secondo del 1901).
Il padre è professore di disegno nella Regia Scuola Tecnica e Regio Istituto Tecnico "Giovanni Spagna", oltre che apprezzato poeta dialettale. La madre è figlia di un artigiano ebanista, combattente garibaldino a Mentana.
"Il senso, il sentimento del tempo è stato assai importante per la mia adolescenza vissuta in una piccola città di provincia. Sono nato in mezzo a vecchie pietre patinate dalla vicenda di tanti secoli, e poi gli stili diversi dei palazzi radunati in un piccolo spazio; in pochi metri di strada tanti secoli. Il tempo passato e quello presente da toccare con la mano come si tocca un muro screpolato e accanto lo stucco recente o nei boschi intorno al paese, i muschi e i ramoscelli giovani". (cfr. Leoncillo, Piccolo diario, 1960)
1918
Spoleto, 22 settembre. Muore il padre. "Ognuno ha un modello a cui paragonarsi, ed io ho avuto mio padre con il quale mi sono figurato di parlare. E proprio in quegli anni che la mia scultura era neocubista mi sentivo molto in difetto con lui, come se avessi tradito la mia nascita, quello che sono. Ora invece mi sento molto più d’accordo perché in ciò che faccio porto molte cose mie, nostre". (cfr. Leoncillo, Piccolo diario, 1960)
1921
Spoleto, settembre. Viene iscritto nella Regia Scuola Elementare che seguirà fino al 1924, per entrare nel collegio-con-vitto per orfani degli impiegati dello Stato. Qui conseguirà la licenza elementare
1926
Perugia, settembre. Si iscrive all’Istituto Tecnico "Giovanni Spagna", corso inferiore e superiore. Lo frequenterà fino al 1931.
1930
Spoleto, giugno. Inizia a modellare la creta.
Ricorda il fratello Lionello: "All’origine della scelta artistica di Leonculo oltre che a una vocazione familiare, c’è anche un grosso infortunio scolastico, una bocciatura per la condotta, oggi inconcepibile, in quei tempi caso non proprio raro. Non che egli fosse particolarmente indisciplinato, ma per il suo comportamento inusuale, ribelle e tuttavia silenzioso, come per una muta sofferenza interiore, si era attirato l’antipatia di una professoressa, e poiché la professoressa era una creatura del preside, anche l’antipatia del preside. Leoncillo aveva allora quindici anni. Mia madre che era molto severa e che oltre tutto aveva sulle spalle il carico della famiglia per la morte prematura di mio padre, in conseguenza di questa bocciatura, gli proibì l’uso della bicicletta, e lui per reazione si condannò all’immobilità e si relegò all’ultimo piano della casa che abitavamo, in una specie di soffitta, e lì coltivava il suo rancoroso silenzio.
Io che ero maggiore di lui di alcuni anni gli ero molto vicino, cercavo di confortarlo e gli davo dei libri da leggere per alleviare la sua solitudine. Un giorno mi presentai con un grosso blocco di creta, e questo fu un gran regalo per lui. Incominciò a modellare e la sua prima prova fu una piccola scimmia che desunse da un libro di storia naturale. Quella prova abbastanza riuscita, lo incoraggiò e seguirono altri ritratti di animali, un cane, un gatto, una gazzella, e poi la testina di un bambino, finché si cimentò nel primo autoritratto, un busto al naturale che gli dette molto da fare e che non fu mai compiuto.
Frattanto era arrivato a Spoleto uno scultore, Umberto Domenico Diano, artista di una certa notorietà in quegli anni, autore di alcuni monumenti ai caduti, che a una tempra di robusto statuario univa strani abbandoni floreali di ascendenza bistolfiana. Egli non tardò a visitare la soffitta di Leoncillo e a soccorrerlo con la sua esperienza. Da lui Leoncillo apprese i rudimenti del mestiere, come si tratta la creta prima di modellarla, come si fa una solida armatura. Ma quella scuola ebbe breve durata, anche perché Leoncillo aveva già le sue idee e non amava sottoporle a un ordine tradizionale. Tuttavia egli aveva fatto ormai già la sua scelta e non si limitava a modellare ma disegnava, studiava con passione storia dell’arte. I suoi maestri ideali di questi primi tempi erano Jacopo della Quercia e Donatello. Testimonianza di queste predilezioni rimane un bassorilievo (che ancora si può vedere nella sua casa d’origine in via Monterone) intitolato Georgica: una campagna aperta, un contadino all’aratro con i buoi, un altro che riposa all’ombra di un albero, due seminatori". (cfr. Lionello Leonardi, Gli esordi di Leoncillo, in Giorgio Cortenova, Enrico Mascelloni, a cura di, Cagli e Leoncillo alle ceramiche Rometti, catalogo della mostra, Rocca di Umbertide, Mazzotta, Milano, 1986, p. 29).
Domenico Umberto Diano era nato a Reggio Calabria il 18 ottobre 1887, aveva studiato all’Istituto Artistico di Bologna e all’Accademia di Belle Arti di Roma, allievo di Enrico Barbieri, Ettore Ferrari e Giulio Bargellini. Nel 1923, all’esposizione di Monza,
Leoncillo
Nel 1964
aveva eseguito la decorazione scultorea della sala 68. Nel 1925 si era aggiudicato un Pensionato Nazionale per la Decorazione.
La sua attività artistica andava dalla scultura decorativa alla pittura, alla ceramica, alla medaglistica, alla calcografia. Tra le sue opere i monumenti al Gen. Cantore a Cortina e a Tripoli, il Monumento ai Caduti della Guerra 1915-1918 a Spoleto. Negli anni in cui visita Leoncillo vive a Comiso dove dirige la locale Scuola d’Arte.
1931
Perugia. Si iscrive all’Istituto d’Arte, frequentandolo per quattro anni. "Alla vigilia dei suoi esami di ammissione all’Istituto d’arte di Perugia, aveva già una buona preparazione. Fu infatti ammesso a pieni voti e da allora seguì quei corsi sempre con successo. Del suo periodo perugino la mia testimonianza si fa lontana, ma posso ricordare una grande
Maternità ispirata a una formella della Fontana Maggiore di Perugia, il Ritratto di Marinangeli, che è tra le sue migliori prove giovanili e un ritratto di Pugilato re che riproduceva al naturale un campione assai popolare in quegli anni e che rimase esposto per oltre un mese in una vetrina di Corso Vannucci. Debbo ricordare di questo periodo un piccolo capolavoro in cera, Il ritratto di mia zia che egli fece a Spoleto dopo essere stato a una mostra romana di Medardo Rosso.
Questi i primi passi di Leoncillo nel cammino dell’arte dove fra acerbità e incertezze è dato tuttavia riscontrare la ricerca di un accento personale in un discorso inevitabilmente realistico, ma con scarti e impennate che preannunciano l’espressionismo del suo noviziato romano". (cfr. Lionello Leonardi, Gli esordi di Leoncillo, in Giorgio Cortenova, Enrico Mascelloni (a cura di), Cagli e Leoncillo alle ceramiche Rometti, catalogo della mostra, Rocca di Umbertide, Mazzotta, Milano, 1986, p. 30).
1935
Roma. Frequenta i corsi del prof. Zanelli all’Accademia di Belle Arti.
Roma, Scuola media "Santa Maria". Lavora in qualità di incaricato dell’insegnamento del disegno fino al 1939.
1936
Roma. Conosce Libero De Libero, collega d’università del fratello Lionello.
Inizia a frequentare la Galleria della Cometa. Nella Rubrica della Galleria, figura all’indirizzo di "via E. Filiberto, 138 Roma".
Ricorda Libero de Libero:
"Ogni volta che m’incontro con Leoncillo o con una sua opera mi ritorna naturale e immediato un momento, che mi pare sempre di ieri anche se un po’ remoto:
quando egli non era se non un nome di giovinetto sulle labbra affettuose del fratello, che di tanto in tanto lo ricordava, sfilandosi dal taschino una nuova fotografia di bassorilievo o di ritratto. Non che vi fosse prodigiosa la tecnica, ma da quelle acerbe figurazioni in gesso traspariva quasi il rossore di chi non riesca a contenere un ardente segreto e se ne vergogni come d’una confessione fin troppo spinta; si prevedeva un’indole corriva e crucciata, si coglieva qualche scontento significativo.
Non apparve diverso il giovane Leoncillo che entrò nella Galleria della Cometa un giorno del 1936, fulvo e imbronciato: come se avesse da sfuggire un interrogatorio o un esame, che pur sentiva necessario chi avrebbe voluto conoscerlo meno schivo di quanto invece egli si mostrò per qualche tempo. Solo più tardi l’accento puntiglioso dello spoletino venne fuori distintamente: con un’improvvisa e aggressiva loquacità, con un brusco modo di aprire subito una questione morale sulla vita e la politica di quegli anni. Parole così inconsuete non si attendevano da un giovane, che si sarebbe pensato alle prese con ben altri problemi. Ma i suoi motivi d’artista non tardarono a fare una causa sola con quella premessa morale, a stabilire un’esigenza unica tra lui e quei pochi che gli erano divenuti amici:
coetanei e meno giovani, artisti e scrittori, espositori e frequentatori della Cometa.
È vero che tanta loquacità non era frequente in Leoncillo, che la limitava piuttosto al dialogo con qualche amico, mentre era solito ascoltare le altrui discussioni in un silenzio che lo teneva chiuso e inafferrabile, ma attentissimo. Fu, dunque, a Roma tra il 1936 e il 1938 che Leonculo compì la prima giovinezza e insieme il vero noviziato dentro le esperienze della Scuola romana: che, nata e cresciuta dal sodalizio Mafai-Scipione-Antonietta Raphaèl, s’era a poco a poco arricchita con
la presenza anzitutto di Cagli, Capogrossi, Cavalli, Pirandello e subito poi di Fazzini, Gentilini, Guttuso, Guzzi, Mazzacurati, Mirko, Montanarini, Ziveri, Tamburi; erano già avanti coi primi passi Purificato, Scialoja, Stradone cui venne ad aggiungersi lui stesso, Leoncillo, prima di tutti gli altri arrivati dopo.
Con pregi e difetti, umiltà e tracotanze, profitti e perdite, esaltazioni e massacri, fauvismo, tonalismo, neoumanesimo, espressionismo, accettati, ripudiati e di nuovo ripresi, accesero più d’un tizzo sotto il calderozzo che Leoncillo continuava segretamente a riempire della sua acqua schiumosa. Tuttavia, in quegli anni, si cerco invano di farlo
Leoncillo
Bozzetto per il Monumento ai Caduti di Albisola
1955, terracotta policroma smaltata cm. 30 x 19 x 15
cantare sui proprio lavoro, e di spingerlo a dare almeno un’opera per una mostra di giovanissimi, che concluse la seconda annata della “Cometa" nel giugno del ’36.
Solamente nei 1938 egli invitò alcuni amici a vedere pochi oggetti modellati in creta: tazze, bicchieri, piattini a figura di lobi, semisfere, corolle, petali, vetri femminili; e le forme distorte e grumose di colore non erano che immagini esterrefatte e patite, uscenti ora da una sensuale fabulazione ora da una congerie animosa, e mettevano a punto il carattere di lui. Una serie di disegni, figuranti parti di violino isolate e a mano a mano ricomposte nell’armonico insieme, precisava ancor meglio la sua volontà di riapprendere le varie fasi della metamorfosi che ogni forma di oggetto percorre nei compiersi: la medesima della forma umana, che Leoncilio voleva ristudiarsi dalla genesi.
Per un esigente e ironico spettatore poteva sembrar poca e futile l’impresa d’uno scultore che, dopo tanti patemi, si faceva cogliere in una specie di romantica dilettazione. Invece era palese in Leoncillo la ricerca d’una sua norma plastica che gli permettesse di fissare proprio quei patemi dentro uno stile. Il suo era ancora uno specifico risultato di laboratorio, ma il fine non era in dispregio dell’arte o degli affetti". (cfr. Libero De Libero, Leoncillo scultore, in “Letteratura", a. III, n. 13-14, Roma, gennaio-aprile, 1955, p. 108-109). In un seminterrato nei pressi di Santa Croce in Gerusalemme aliestisce uno studio.
1937
Perugia, settembre-ottobre, Regia Galleria Vannucci, VI Mostra interprovinciale d’Arte del Sindacato fascista di BelleArti dell’Umbria.
Espone due ceramiche ispirate da Fedro:
Il cervo e il cane, Le colombe e il nibbio.
Tra gli altri artisti: Amerigo Bartoli, Aurelio De Felice, Gerardo Dottori, Felice Fatati, Orneore Metelli, Umberto Prencipe.
Roma. Insegna disegno in un Istituto Tecnico parificato di religiosi.
1939
Umbertide, 9 luglio. In località Romeggio, sposa Maria Zampa, figlia del notaio che tra i suoi clienti ha le "Ceramiche Rometti" di Umbertide, e sua compagna di corso all’Istituto d’Arte di Perugia.
Si stabilisce in Umbria, ad Umbertide. Da questo momento data la collaborazione delle "Ceramiche Rometti" rifondate, dopo il fallimento del 1933, e necessarie per compiere ogni opportuna esperienza tecnica oltre che per utilizzarne i forni.
"Fu proprio allora che Leoncillo abbandonò Roma: forse deluso d’un ambiente troppo sollecito a dare e a togliere speranze, forse saturo di discorsi e di attese, certamente spinto a dar corpo alle ombre in-seguite in quegli anni.
La scelta di Umbertide, antico centro di ceramisti, era anche il risultato delle indagini e delle prove tentate fino a quel punto; era infine la decisione di esprimere in ceramica forme contenute sino allora nei vagheggiamenti, e soprattutto significava per lui la conquista definitiva d’una tecnica che gli avrebbe reso più sincero il mestiere di scultore.
E...] Nel gruppo di opere compiute in Umbertide tra il ’39 e il ’40 - quali il San Sebastiano, le tre Arpie, i due basso rilievi figuranti lotte di persone e animali - quanto esplicito si dichiarava infatti il temperamento di Leoncillo: con l’irruenza stessa della materia, da cui grondavano le forme, gli aneliti e sciroccavano le luci dei colori, i balenamenti e s’iridavano i volumi,
sprizzavano angustie e spaventi; dentro gli involucri gorgogliava un impeto di sensi doloranti e dalla tensione la patina esuberava di calore". (cfr. Libero De Libero, Leoncillo scultore, in “Letteratura", a. Il, n. 13-14, gennaio-aprile, 1955, p. 108).
"All’arrivo a Umbertide Leonciilo è un artista dalla formazione già complessa e il suo rapporto con le ceramiche Rometti è sostanzialmente finalizzato all’utilizzazione dei forni, nonché, certamente, all’approfondimento di quel bagaglio di “cognizioni tecniche" che una manifattura di così consolidata tradizione era in grado di offrirgli.
Di fatto il tipo di ricerca perseguito da Leoncillo in quegli anni è agli antipodi della pur sempre dignitosa attività della Rometti, tanto dal bozzettismo in tardo stile Novecento, che del pur notevole rigore stilistico di alcuni lavori". (cfr. Enrico Mascelloni, Le Ceramiche Rometti tra sperimentazione e tradizione. Regesto critico e cronologico 1926-1942, in Giorgio Cortenova e Enrico Mascelloni, a cura di, Ca-gli e Leoncillo alle ceramiche Rometti, catalogo della mostra, Rocca, Umbertide, Mazzotta, Milano, 1986, p. 26).
"Da Umbertide Leoncillo passa a Gualdo Tadino, per impararvi ~ ((riflessi di fumo", meglio conosciuti come "i riflessi di Mastro Giorgio", un’antica e quasi misteriosa tecnica di cottura. Leoncilio intanto organizzava fra gli operai della ((Rometti" la prima cellula comunista di Umbertide." (cfr. Leoncillo ha offerto una margherita per ogni miss, in ((Vie nuove", a. n. 27, Roma, 5 luglio 1953, p. 22).
Umbertide, settembre. Tramite Settimio Rometti, Direttore Artistico, insieme a
Leoncillo
Tempo feritoII
1963, terracotta smaltata engobbiata cm. 180 x 80 x 45
Dante Baldelli, della "Società Anonima Ceramiche Rometti" di Umbertide, incontra Giò Ponti che rimane colpito del suo lavoro. La segnalazione di Sinisgalli, nei 1935, non era stata inutile.
Sarà Ponti a sollecitare la sua partecipazione alla VII Triennale di Milano.
"Ero stato tra i primi a conoscerlo fuori della cerchia dei suoi familiari. Per caso un mio grande amico era stato ospite a Spoleto dei parenti di Leoncillo Leonardi. E
me lo mandò a casa, a Milano, ventenne, raccomandandomi di presentarlo agli architetti Ponti e Pagano". (cfr. Leonardo Sinisgalli, Forme di creta per esprimere il dolore, in "Il Tempo", a. XXXI. n. 14, Milano, 5 aprile 1969, p. 107).
1940
Milano, aprile-giugno, Palazzo dell’Arte al Parco, VII Triennale di Milano.
Espone al Il Piano, Sala n. 37, nell’ambito della "Mostra della ceramica", rappresentativa di 37 artisti (Bucci, Melandri, Fantoni, Gatti, tra gli altri), allestita e ordinata dagli architetti Luigi Mattioni e Gian Luigi Reggio: Le quattro stagioni. Gli viene assegnata, da una Giuria composta da Carlo Turina, Giovanni Unghvary, Ercole Barrovier, Renato Camus, Giovanni Guerrini, Luigi Matteucci, Alessandro Pasquali, Rich. L. E Schuiz, Benjamin Jedlicka, Joan Alecs. Gherchel, confermata da una Giuria superiore (Giovanni Muzio, Giuseppe Bianchini, Benjamin Jediika, Marziano Bernardi, Francesco Messina, Rich. E L. Schuiz, Robert Poeverlein, Karl Kolb, Joan Alecs, Gregorian, Adalberto Langer, Giovanni Unghvary), la medaglia d’oro per il Il gruppo, classe V, ceramiche, cristalli, vetri e vetrate, apparecchi da illuminazione e accessori vari.
"Leonciiio e Fancelio veri ’enfants terribles’ della Triennale si sono guadagnata con le loro mani tenere e frenetiche la fiducia di Ponti e di Calzini, la simpatia delle matrone dell’industria locale, il sospetto di parecchi gentiiuomi dalla coda tradizionale e la irritata benevolenza di Gatto e di Broggini, la protezione di Nino Bertocchi e di Raffaele Carrieri. Dopo che l’irrequieto Fontana ha messo a cuocere tanta carne nei forni di Albissola, dopo le meraviglie che egli ha saputo suscitare da un rosso quasi alimentare, da un nero quasi sebaceo, da un oro da ’bréloques’, per via di un senso così pomposo e funebre della materia manipolata, dopo, dicevo, che il peloso scultore italo argentino ci aveva incantato a sufficienza con i suoi gesti di gaucho e le sue cucarachas (le sue cera-
miche vive e flessuose come dei polipi):
ecco i nostri due fanciulli ricondurci a una strada certamente più virtuosa. Dell’estatico Leoncillo nessuno potrà mettere in dubbio lo squisito sentimento plastico e l’amore per una Musa così raffinata, così capricciosa, così decadente. Le sue tazze senza dubbio sanno di versi parnassiani, di interno surrealista, sanno di tutta una scuola che ci sta dando squisiti frutti: Scialoja, D’Aroma, Mirco e la compagnia che fuma e ragiona, a mezzanotte, intorno ad un tavolo della birreria Dreher in Santi Apostoli a Roma" (cfr. Leonardo Sinisgalli, Leoncillo e Fancello, in ((Domus", n. 151, Milano, luglio, p. 70).
"Poco più che adolescente venne a Milano per esporre alla Triennale le sue prime ceramiche cotte nei forni umbri. Aveva lavorato diversi anni a Umbertide, in provincia di Spoleto, e arrivava in città coi suoi tesori ravvolti nella carta di vecchi giornali e aggiustati in una grossa valigia a mantice. Quando tirò fuori i suoi pezzi, noi che ci aspettavamo, non dico delle figurine di Presepe ma qualcosa di simile, ci trovammo allibiti nelle mani degli oggetti di una grazia mostruosa. Avevano parentele coi tuberi, coi torsi di cavolo, avevano i colori delle carote, i ferrigni umori dei frutti del carciofo; e il loro sviluppo si capiva che non era una crescita verso la luce, quelle forme non si aprivano nell’aria, ma si insinuavano in qualcosa di duro, a somiglianza delle radici; quei corpi sembravano cresciuti tra gli spacchi della roccia, più vicini di noi al cuore dell’inferno. Leoncillo espose a Milano un Ermafrodito fusolare, giallo, in cui si ritrovavano mille esperienze, mille suggestioni da Lautréamont a Kokoschka, e i quattro busti delle Quattro Stagioni, modellati invece con una lindura neoclassica, inacidita da colorazioni umide che ricordavano le miniature, e da un gusto nei segno che svelava una consuetudine coi romanzi illustrati di Sonzogno e gli atlanti geografici. C’erano ancora alcune famiglie di aggeggi per servire il caffè e il tè, nei quali era manifesto lo sforzo del ragazzo a non farsi carcerare dalla severità delle sublimi geometrie. Tazze e cuccume negavano la ’pignatta’ e il ’piatto’ e si apparentavano alle mani, alle foglie, ai gusci, alle forme viventi insomma. Leoncillo aveva lavorato dietro le lusinghe di una tradizione che includeva il disegno di Cagli e la plastica di Mirko. La sua poetica aveva trovato un nocciolo che non era l’uomo o il sasso, ma l’ermafrodito, un mito ambiguo, bilaterale, organico, un complesso, una ’coppia’, non un ’intero’. Un mito
Leoncillo
carico di letteratura ma che dal punto di vista della genetica delle forme, gli dava la possibilità di sposare la natura con l’assurdo. E dirò che la ceramica dovette sembrargli la materia più adatta a rendere manifesto il suo segreto fondo idolatra. Il corpo lucido, si sa, non si scopre ma si nasconde" (cfr. Leonardo Sinisgalli, Le ceramiche di Leoncillo, in "Il Mondo", a. Il, n. 25, Firenze, 6 aprile 1946, p. 8).
1941
Settembre. È chiamato alle armi. Evita di frequentare il corso allievi ufficiali, e viene destinato ai servizi sedentari.
Affresca delle carte geografiche e topo-grafiche sulle pareti di una delle caserme di via di Castro Pretorio.Milano, 15 dicembre. Esce, nelle Edizioni della Chimera, per le cure di Fabrizio Clerici e di Piero Fornasetti, Bestiario, con 20 litografie originali di Fabrizio Clerici e una introduzione di Raffaele Carrieri. L’edizione consta di 200 esemplari numerati in cifre arabe da 1 a 200, di XX esemplari con un disegno originale numerati in cifre romane da I a XX, di 15 esemplari fuori commercio. A tiratura ultimata le pietre litografiche vengono distrutte.
1942
Terni, aprile, Palazzo dei Carrara, Collettiva Regionale selezione degli artisti umbri.Roma, maggio-giugno, Galleria di Roma, LVII Mostra della Galleria di Roma con opere degli Artisti dei Sindacati Belle Arti dell’Umbria.
Espone, come da elenco in catalogo:
Sezione Scultura: 89. Il Cervo e i Cani (dalle favole di Fedro), ceramica; 90. Le Colombe e il Nibbio, ceramica.
Sono inoltre presenti nella sezione scultura: Bruno Arzilli, Carlo Castellani, Benedetto D’Amore, Aurelio De Felice, Zena Fettucciari, Bruno Giugliarelli, Gracco Mosci, Tommaso Peccini.
Tra gli altri espositori: Bartoli, Bruschetti, Ciaurro, De Felice, Dottori, Fatati, Metelli, Prencipe.
La prefazione in catalogo è di Achille Bertini Caiosso.
"Fra gli scultori scopriamo invece Leoncillo che pone accanto ai singolari e estrosi disegni due ceramiche preziosissime nella materia e fortemente caratterizzate nella composizione; Il cervo e i cani (dalle favole di Fedro) è una manifestazione senza indugi, premuta da una necessità di serrar l’episodio traendone intensità di sentimento e vivacità di rappresentazione:
lo spunto si traduce in un ben legato racconto condotto con stile e ritmo che diremmo non comune" (cfr. Attilio Crespi, Mostre d’arte romane, in "Meridiano di Roma", a. VII, n. 24, Roma, 14 giugno 1942, p. 3).
Giugno. A Umbertide le Ceramiche Rometti hanno chiuso la loro attività. Si stabilisce definitivamente a Roma.
Roma, settembre. Assume l’incarico di insegnante di Plastica e decorazione ceramica presso l’Istituto Statale d’Arte. Manterrà l’incarico fino al 1952. Suo direttore sarà Alberto Gerardi, tra i colleghi Afro, Colla, Conte, Fazzini, Guerrini.Roma, 15 ottobre. Sui n. 20 di "Primato" appare un suo Ritratto di donna.
Esegue due Trofei per l’E 42.
1943
Roma, dal 5 luglio, Galleria dello Zodiaco, Donnini Leoncillo Purificato Scialoja Turcato Valenti Vedova.
Espone: Sirena, Arpia. Virgilio Guzzi scrive:
"Con una mostra di giovanissimi si chiude quest’anno alla Galleria dello Zodiaco l’importante stagione artistica. Alcuni, come Scialoja, Purificato, Vedova, Valenti, erano già noti, altri come Leoncillo, Donnini e Turcato ci si scoprono oggi invece per la prima volta. Dei quali tre inediti occorre dire subito che il Leoncillo è quello che si rivela ai nostri occhi come un artista già fatto e originale. Queste sue ceramiche bisogna anzi senz’altro definirle magnifiche: e non certo solo per lo splendore raro degli smalti, ma per l’originalità della invenzione, la vitalità della deformazione espressionistica e barocca. E una mitologia che nelle mani di questo plasticatore e pittore umbro funziona benissimo; e fa pensare a un sentimento poetico che potrebb’essere l’equivalente di certi stati d’animo e fantasie di Scipione. La Sirena, e specialmente l’Arpia, dove quei rossi attingono una intensità sensuale fortissima, e quindi un valore lirico dei più rari, sono opere da non potersi
certo giudicare come prodotti di arte decorativa. Fatto è che noi ci troviamo di fronte a un artista nuovo. Lo spiritoso (e patetico) ceramista è soprattutto un poeta che potrà riserbarci le più belle sorprese". (cfr. Virgilio Guzzi, Mostra allo "Zodiaco’ in ((Italia", Roma, 8 luglio 1943).
Ercole Maselli:
"Il "ragazzo terribile" della Mostra è l’umbro-romano Leoncillo Leonardi. Poeta, disegnatore e ceramista, espone, da ceramista, tre fantasiosi capricci splendidamente cotti, policromati e invetriati. Dei tre preferiamo Arpia. L’infelice natura del mostro, l’angoscioso sentimento della visione si contamina con più saporita e decadente perfidia nei preziosissimi aspetti formali. Ma qualcosa nelle altre opere, e forse anche in questa, ci avverte che Leoncillo ancora confida in gustose contaminazioni di genere raffinatissimo (il gusto della materia - davvero stupenda in Arpia
- e del colore non
Leoncillo
potrebbe essere più raffinato ed esperto) e di genere popolare. [...] Conosciamo certe formelle e vediamo qui tanti segni di vita e vigore, e indubitabili qualità di artista, e facoltà di visione, che non possiamo sbagliarci prevedendo, per Leoncillo, una fase di più coerente e genuina pienezza". (cfr. Ercole Maselli, Mostre d’arte, in "Il Lavoro Fascista", Roma, 9 luglio 1943).
Roma, 31 luglio. Nasce il figlio Leonetto.
23 settembre. Già attivo nell’organizzazione clandestina di sinistra, decide di passare nelle formazioni partigiane. Entra nella Brigata Innamorati, attiva nei monti dell’Umbria, partecipando attivamente, fino al 25 aprile 1945, alla Resistenza.
Settembre. Riceve un Premio d’incoraggiamento dal Ministero dell’Educazione Nazionale.
1944
Roma, 23 agosto-5 settembre, Galleria di Roma, L’arte contro la Barbarie.
Espone: Madre uccisa dai tedeschi 1, Madre uccisa dai tedeschi 2.
Gli altri artisti: Cagli, Guttuso (Gott mit uns, edito da La Margherita), Mafai (Fantasie), Mazzacurati, Mirko, Omiccioli, Purificato.
Vince il I Premio ex-aequo per la scultura.
La mostra, sotto gli auspici de "l’Unità", è organizzata da Felice Platone, Antonino Santangelo, Amerigo Terenzi e Antonello Trombadori subito dopo la liberazione di Roma e vuole denunciare le atrocità del Fascismo e del Nazismo.
Il foglietto-catalogo è introdotto da Velio Spano.
Una I Mostra dei pittori antifascisti era stata organizzata poche settimane prima.
"La realtà di Leoncillo è in quel giacere sconvolto dell’uccisa, in quel rilievo pietoso e crudele del ventre, delle scarpe slabbrate, delle grosse calze, come se l’artista non vedesse che questo, quanto la morte è brutta, miserabile, sul lastrico della città, improvvisa. Ma nell’onda cupa dei capelli e nel viso, quella pietà aspra sembra trovare una sua commozione più aperta e l’orrore si scioglie in compianto". (cfr. 1. 1. IL. Lombardo Radice], Donna assassinata a viale Giulio Cesare. Due ceramiche di "Leoncillo’ un “Noi donne", a. I, n. 3, Roma, settembre, p.l 5).
Roma, dal 2 dicembre, Circolo "Il Ritrovo"- Palazzo del Drago, Mosaici di Galassi-argenti e bronzi di Mirko-ceramiche di Leoncillo.
La sede del circolo, dove i membri dell’esercito alleato incontrano intellettuali e politici italiani, è stata sistemata da Margherita Caetani con la collaborazione di Enrico Galassi.
Roma, 10 dicembre 1944-15 settembre 1945, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Esposizione d’arte contemporanea. Exhibition of contemporary art.
Espone, come da elenco in catalogo:
Sala XI: Hermaphrodius, 1943 ca.
Partecipano all’esposizione, tra gli altri:
Luigi Bartolini, Renato Guttuso, Amengo Bartoli, Franco Gentilini, Giovanni Stradone, Toti Scialoja, Mirco Basaldella, Pericle Fazzini, Aurelio de Felice.
L’introduzione in catalogo è di Palma Bucarelli:
"Leoncillo Leonardi, che con la ceramica non fa arte "applicata", o cosiddetta "minore", ma vera e bella scultura, è riuscito a dare efficacia di rappresentazione al fantasma di un’ossessione mostruosa".
Roma, 28 dicembre. Con il n. 2, inizia la collaborazione a "La Settimana" nella rubrica Biglietto di favore che ospiterà, fino al 26 aprile 1945 (n. 16), disegni per testi letterari (Carlo Bernari, Guido Piovene) e ritratti (Ruggero Ruggeri, Aldo Fabrizi, Gino Cervi, Andreina Pagnani, Elsa De Giorgi, Carlo Ninchi, i fratelli De Filippo, Dina Galli, Elsa Merlini, Paolo Stoppa, Evi Maltagliati, Umberto Melnati, Rina Morelli).
Roma, dicembre. Collabora con un disegno, Tumulto, al n. 4 di "Mercurio" sul quale Toti Scialoja, a proposito del trascorso settembre, pubblica I pittori difendono la città e ricorda, tra gli altri: "Leoncillo Leonardi, anche lui dell’organizzazione militare, tenne un comizio a San Lorenzo, su un mucchio di sassi, il giorno del fallito sciopero" operaio, pochi giorni prima della fine dell’occupazione tedesca. Leoncillo, infatti, era entrato a far parte dell’organizzazione militare clandestina del Partito Comunista Italiano.
1945
Roma, 20 gennaio-4 febbraio, Galleria
San Marco, I Mostra Libera Associazione
Arti Figurative.
Partecipa alla mostra in qualità di Socio della Associazione, di cui è presidente Gino Sevenini che precisa gli intendimenti dell’esposizione: essere "spiritualmente vicina alle sofferenze di tutti gli artisti dell’Italia ancora oppressa dal nazi-fascismo [...] contro quel provincialismo culturale che ha per tanto tempo pesato sulla vita artistica italiana".
Roma, 14-30 aprile. Galleria dello Zodiaco, Mostra di opere ispirate alla musica.
Vi partecipa con Campigli, Gentilini, Guttuso, Levi, Maccani, Monachesi, Morandi, Omiccioli, Pirandello, Savinio, Scialoja. Per l’occasione, il piccolo coro dei madnigalisti, diretti dal maestro Tosato, esegue un programma musicale comprendente opere di Pier Luigi da Palestrina, Luca Marenzio, Claudio Monteverdi, Orlando di Lasso, Adriano Banchieri.
Roma, 2 giugno. Marcello Venturoli annota nelle
Leoncillo
pagine del suo diario che poi raccoglierà in Interviste di frodo pubblicato in dicembre: "Mi diceva Leoncillo che molti oggi non comprendono il significato della parola ’realismo’, fanno prima di tutto una questione formale, di pittura cioè oggettiva, riagitando ancona la vecchia questione del mestiere. Courbet ha mestiere, Matisse no. A questo modo, il realismo bene inteso, il ritorno cioè ad una emozione della realtà, è buttato in un canto. Il problema dell’arte, secondo Leoncillo, è sempre quello della invenzione.
- L’arte è astrazione, - disse oggi, guardando una sua testa di vecchia, dagli occhi chiusi, coi capelli raggrumati sulle labbra. Forse nelle definizioni Leoncillo non è molto brillante come nelle esemplificazioni, ma egli non è un filosofo dell’arte, è uno scultore. Sicché, dopo avermi mostrato alcune sue statue policrome in ceramica, a complemento del suo discorso, io non ebbi più nulla da eccepire. Ne descriverò due, perché anche chi legge sia del mio medesimo parere.
Una statuetta di grandezza media rappresentava un ragazzo sui dieci anni, seduto. Mi colpì il singolare contrappunto degli stracci che ricopnivano quel corpo esile, con la carne che sbocciava dagli strappi. Credo che, se lo scultore non avesse dipinto la statua, l’effetto sarebbe stato raggiunto ugualmente. Infatti quel modulare tra pelle e tessuto, ora epidermico
come per un tutto tondo luministico, ora scavato, a solchi, a incavi, danno la misura di un talento maggiore, non limitato e incaponito nella delizia di cotture e dipinture (pericolo della ceramica colorata) ma proprio di scultore. L’altra scultura rappresentava una donna, di dimensione maggiore della incinta mitragliata, esposta alla mostra de "L’Unità", però di analogo argomento, se non di accento. La donna teneva incrociate sul grembo le mani insanguinate. Questa seconda scultura mi è piaciuta assai meno. Non escludo che il mondo di Leoncillo - di accorata elegia, di amori frenetici e disincantati - possa sposarsi con un sentimento della realtà umana, direi sociale, più doloroso ed alto. Ma si guardi dalla voce in falsetto che gli vien fuori ogni volta in questi casi: il suo registro è di tenore, non di baritono o di basso; la sua natura solitaria, irrequieta, - direbbero i marxisti suoi amici ’atomistica’, sfugge principalmente dall’oratoria. Continui Leoncillo ad essere come è stato fino ad ora, il più spregiudicato degli artisti comunisti; andrà lontano" (cfr. Marcello Venturoli, Interviste di frodo, Editrice Sandron, Roma, pp.263-264).
Roma, agosto. Sul n. 12 di "Mercurio" appaiono, ad apertura dei relativi articoli, i ritratti di Aldo Capitini, Massimo Mila, Gino Tomajuoli, Aldo Garosci.
Roma, settembre. Sul n. 13 di "Mercurio appaiono, ad apertura dei relativi articoli, i ritratti di Gabriele Pepe, Nicola Ciarletta, Paolo Alatni, Michele La Torre.
Roma, ottobre. Prepara un Autoritratto per La raccolta 8x10 di Cesare Zavattmni.
1946
Roma, 9-21 gennaio, San Marco-Galleria dell’Art Club, Mostra d’arte decorativa.
Promossa e coordinata dall’ E.N.A.P.I. (Ente Nazionale Artigianato e Piccole Industrie), accoglie anche opere di Avena-li, Bartolini, Lorenzo Guernini, Guzzi Prampolini e Sevenini, in una grande varietà di tecniche e materiali: ceramiche, tessuti, coralli, ricami, intarsi, lacche, mosaici, mobili, rilegature, vetri, metalli, paglie, buccheni, cuoi, figure di stoffe, bambole. Espone: San Sebastiano.
Giulio Carlo Argan commenta:
"[...] la mostra dell’E.N.A.PI. all’Art Club è un buon sintomo, anche se documenta l’incertezza e la confusione delle idee in tema di arte decorativa. Il 5. Sebastiano di Leoncillo è un’opera di scultura, realizzata nella ceramica per la necessità espressiva di fondere allo stesso fuoco, non soltanto in senso fisico, la forma e il colore; e dare così una piena giustificazione formale all’elemento cromatico che vena di un intenso accento popolaresco il modellato ricco e sensibile, allo stesso modo di un tema di canzone popolare che s’intrecci e ricorra nel tessuto musicale di una sinfonia". (cfr. Giulio Carlo Argan, Una mostra d’artigianato, in “La Nuova Europa", Roma, 10 febbraio 1946).
"[...] alla prima mostra dell’ENAPI abbiamo potuto ammirare due statue in ceramica: colorato il San Sebastiano, bianca di stoviglia la Fontana. Mi pare che in questo tempo egli ha fatto anche maschere e ritratti.
Nel San Sebastiano che è una figura alta un metro, i residui del suo espressionismo e quella tumefazione delle superfici e dei colori, quelle distorsioni della massa compositiva che nei primi lavori rivelavano un’attitudine acrobatica della sua immaginazione oltre che del suo linguaggio, hanno perduto l’eccesso di mordente. Non che Leoncillo sogni il guscio d’uovo (sarebbe una mortificazione perfino pericolosa), ma i tuberi di una volta non sembrano più accidentali, si sviluppano lungo alcune direttrici bene evidenti, come le grosse venature accrescono la resistenza di un guscio di noce. Le sue forme
Leoncillo
’riempite’ non ’scavate’, ancora sottoposte a una prestigiosa manipolazione, sembrano veramente cotte nel colore, in successivi bagni di colore a pezzi, come corpi umani calati nel fango o nelle sabbie radioattive.
[...] Ho visto anche nella Bottega d’Arte di Enrico Galassi i modelli di una fasto-sa balaustra [...]. Qui mi sembra che Leoncillo voglia gareggiare con gli esemplari di una tradizione veramente remota ... .1. Diciamo che c’è una molteplicità di connubi occulti e un singolare innesto gotico-barocco. Forse è questa la chiave per leggere tutta la sua opera?" (cfr. Leonardo Sinisgalli, Le ceramiche di Leoncillo, in "Il Mondo", a. LI, n. 25, Firenze, 6 aprile 1946, p. 8).
Roma, dal 9 marzo, Studio d’arte Palma, Mostra dei capidopera dello Studio di Villa Giulia di Enrico Calassi.
Espone: Elementi per balaustra, 1945.
Partecipano all’esposizione, che vede presenti, all’inaugurazione, Maria José e Umberto di Savoia: Afro Basaldella, Mirko Basaldella, Giuseppe Capogrossi, Carlo Carrà, Fabrizio Clenici, Pietro Consagra, Giorgio de Chinico, Franco Gentilini, Renato Guttuso, Mino Maccari, Giacomo Manzù, Marino Mazzacurati, Angelo Sa-velli, Alberto Savinio, Antonio Scordia, Gino Sevenini, Orfeo Tamburi, oltre agli esecutori come Alessandrini, D’Arnigo, Giovannetti, Pinto e Renzi. La mostra mette in luce l’evoluzione delle arti decorative nell’immediato dopoguerra, nel tentativo di restituire vita e dignità a una tradizione italiana.
I materiali provengono tutti dal laboratorio di via di Villa Giulia, dove Galassi ha affittato un’ala di villa Poniatowsky. Per la ceramica, è operativa la sede della vicina via Romagnosi.
Antonello Trombadori scrive:
"Cito per tutti la balaustra di Leoncillo che è veramente un capolavoro. Più bello, secondo me, di un Della Robbia perché meno aulico, più bello e originale di un pezzo popolaresco perché più organizzato secondo un criterio di stile e di costruzione". (cfr. Antonello Trombadori, Varietà. I mostra di artisti-artigiani, in ((1 Unità", Roma, 6 aprile 1946).
Milano, 25 maggio-13 giugno, Galleria della Spiga, Premio di Scultura della Spiga.
Partecipa con Donna uccisa, 1944, terracotta policroma, ill.
Tra gli altri partecipanti: Edoardo Alfieri, Francesco Barbieri, Angelo Biancini, Luigi Broggini, Bruno Calvani, Carmelo Cappello, Sandro Cherchi, Alfredo Chighine, Virginio Ciminaghi, Oscar Gallo, Berto Lardera, Antonietta Raphaél Mafai, Angelo Camillo Maine, Quinto Martini, Marcello Mascherini, Umberto Milani, Luciano Minguzzi, Genni Mucchi, Giovanni Paganin, Gastone Panciera, Lorenzo Pepe, Neri Pozza, Romano Rui, Filippo Tallone, Vittorio Tavernari, Alberto Viani, Annibale Zucchini.
La Giuria, composta da Luigi Agliardi, Luciano Anceschi, Valentino Bompiani, Nino Bertocchi, Leonardo Borgese, Pompeo Borra, Arturo Cadario, Carlo De Cugis, Raffaellino De Grada, Giuseppe Marchiori, Marino Marini, Arturo Martini, Giacomo Manzù, Attilio Podestà, Aligi Sassu, Marco Valsecchi, Giancarlo Vigorelli, Sandro Volta, Carlo Zocchi, gli assegna il primo premio.
Nel catalogo, scritti di Stefano Cairola, Aligi Sassu, Anita Pensotti.
Roma, 7 settembre. Scrive a Toti Scialoja:
"Carissimo Tori eccomi ancora a Roma dopo il secondo viaggio in Umbria [...] questo mese di vacanza mi ha fatto instabile e emotivo, carico di inquiete passioni; ho perso un solo mattino, in treno, che ha aperto quel discorso che facemmo scendendo dal ’Telegrafo’ di notte, sul senso che aveva per noi l’alba. Avevo anche in mente quando dicesti che ognuno di noi ha un luogo di nascita. La notte se ne è andata portando via il peso scuro del mio corpo e nel momento in cui non era né giorno né notte e la luce palpitava come se fosse per nascere o per morire mi sono sentito scorporato con tutte le cose, un vetro pieno di colorata luce, una gioiosa sensualità di annichilimento. Ho capito tante cose della mia vita; quella spiritualità estrema, ma non astratta, che nei più tesi istinti fa battere le ossa del mio scheletro come un vento di cui odo il rumore. È nei volti della gente, dei manovali fermi davanti al binario, negli alberi che erano come ombre un’assenza di peso concreto, di colore forma fisici, di violenza. E il bisogno di essere un idiota, specchio del mondo, che preferisca insensate parole che ridicano labilmente e per sempre tutta la vita [...].
Del lavoro che posso dirti? Sento solo urgentemente che dobbiamo cambiare strada, perché è innegabile che assieme ai dati umani e positivi di ciò che abbiamo fatto permangono impostazioni stilistiche da mutare radicalmente, non da sperare di poter superare solo ’lavorando meglio’. Mi pare anche istintivamente il solo modo di combattere il neo-accademismo pseudo cubista che va schierando il suo fronte da Milano a Roma, e il profilarsi quindi di un altro ’novecento’, che sarebbe il solito sovrapporsi della reazione italiana a un linguaggio umano e libero".
Venezia, 1 ottobre. Con Renato Birolli, Bruno Cassinari, Renato
Leoncillo
Guttuso, Carlo Levi, Ennio Morlotti, Armando Pizzi-nato, Giuseppe Santomaso, Giulio Turcato, Emilio Vedova e Alberto Viani firma, in una sala di Palazzo Volpi, il manifesto della Nuova Secessione Artistica Italiana.
La prima proposta era venuta da Birolli e, raccolta da Marchiori, Santomaso, Pizzinato e Vedova, era stata discussa a Roma e a Milano.
Nello studio di Villa Massimo, 1947
Nel Manifesto di fondazione è scritto:
"Undici artisti italiani, sostituendo all’estetica delle forme una dialettica delle forme, intendono far convergere le loro tendenze, solo apparentemente contrastanti, verso una sintesi riconoscibile soltanto nel futuro delle loro opere, e ciò in netto contrasto con tutte le precedenti sintesi verificatesi per decisione teorica e aprioristica; intendono avvicinare a una prima base di necessità morale le loro singolari affermazioni nel mondo delle immagini, le loro osservazioni, assommandole come atti di vita. Pittura e scultura, divenute così strumento di dichiarazione e di libera esplorazione del mondo, aumenteranno sempre più la frequenza con la realtà. L’Arte non è il volto convenzionale della storia, ma la storia stessa, che degli uomini non può fare a meno".
Levi ritira la sua adesione a pubblicazione avvenuta del Manifesto.
Milano. Esegue una balaustra di 30 Cariatidi per il Conte Borletti.
1947
Lucerna, 29 marzo-i giugno, Kunstmuseum, 40 Jahre italienischer Kunst.
Espone, come da elenco in catalogo: 175. Portrait, terre cuite, collection de l’auteur. Il saggio in catalogo è di Giuseppe Marchiori.
Partecipano all’esposizione, tra gli altri:
Scipione, Mario Mafai, Renato Birolli, Renato Guttuso, Giuseppe Santomaso, Orfeo Tamburi, Luciano Minguzzi, Mirko Basaldella.
Milano, primavera-estate, Palazzo dell’Arte, Ottava Triennale di Milano.
Espone, per 1’APEM (Artigianato Produzione Esportazione Milano), nell’ambito del gruppo I, classe IV (ceramiche, cristalli, vetri, apparecchi illuminazione) della sezione "Oggetti per la casa", Trofeo, per il quale la Giuria Superiore (Felice Casorati, Anselmo Bucci, Leonardo Sinisgalli) gli conferisce il Diploma d’onore.
L’allestimento della sezione è di Luigi Fratino, Lida Levi, Ettore Sottsass jr.
Il bilancio dell’ottava Triennale viene steso in catalogo da Leonardo Sinisgalli.
Milano, 12 giugno-12 luglio, Galleria della Spiga, Prima Mostra del Fronte Nuovo delle Arti.
Espone: Natura morta colla bottiglia, 1947, ceramica policroma, cm 46x36; Natura morta col domino, 1947, ceramica policroma, cm 45x33; Il tavolino da lavoro, 1947, ceramica policroma, cm 40x34.
È presentato in catalogo da Alberto Moravia che scrive: "Nei nomi c’è un destino; talvolta si tratta soltanto di un destino estetico, ossia di un colore e di un tono che serviranno in seguito a rafforzare e confermare il carattere delle persone che li portano. Leoncillo Leonardi ha due leoni nel suo nome; e lui stesso, con la chioma chiara tagliata a criniera, la forma del viso leggermente proteso in avanti e il disegno degli occhi, ricorda vagamente la facies leonina. Ma un leone molto moderno, non araldico né naturalistico, un leone bizzarro e stilizzato, un Leoncillo, insomma. Dove quei due ll da diminuitivo latino aggiungono al termine di leone qualche cosa di affettuoso e di strambo. Fuori di metafora, Leoncillo, all’occhio dell’osservatore, si rivela artista su1 serio appunto perché rassomiglia tanto alla sua opera. Che, pur attraverso un’evoluzione incessante, dimostra un carattere costante, una fedeltà genuina a dati iniziali e profondi. La scelta stessa della materia, questa scultura che oltrepassa la scultura per diventare maiolica colorata, starebbe ad attestare un’esigenza di resa totale, analoga a quella della scultura policroma dei primitivi greci. La scultura è l’arte per eccellenza dell’uomo; lo scultore, uomo, crea un altro uomo di cui si può fare il giro, che è fatto a stretta somiglianza dell’uomo. Ma Leoncillo ha prestissimo superato le prime posizioni naturalistiche, obbligatorie per ogni artista serio, poiché l’artista è, prima di tutto, un imitatore della natura. Da un iniziale verismo, sforzando i dati veristici, egli giunge ad un espressionismo vivace e capriccioso che talvolta sembra innamorarsi di partiti batocchi e rococò.
È un cammino logico, basterebbe pensare all’evoluzione dell’arte tedesca dal realismo gotico al barocco e da questo all’espressionismo. In questa prima fase Leon cillo inclina sia ad una decorazione fastosa e bizzarra come, per esempio, in certi trionfi e vasi, sia ad un’espressività patetica come in certe figure di sinistrati e fucilati.
Ma oggi Leoncillo, sempre più scavando nel fondo della sua ispirazione, pare tendere ad un raccoglimento e ad una semplificazione che lui, nei suoi discorsi sull’arte, chiama astrazione. Sono le cose sue migliori, comunque; e si veda la natura morta della bottiglia di latte e delle uova, così sobria e così completa; si veda soprattutto il ritratto
Leoncillo
ammirevole di Titina Scialoja. Leoncillo, in un’arte difficile e singolare, ha già in gran parte vinto la sua battaglia. Leoncillo: un leoncello che diventerà presto leone".
La mostra, a cura di Giuseppe Marchiori (che in una lettera del 29 novembre 1946, indirizzata a Stefano Cairola circa la mostra e la distribuzione dei saggi critici, indica per Leoncillo Antonello Trombadori), comprende anche Birolli, Guttuso, Morlotti, Pizzinato, Santomaso, Turcato, Vedova, Viani, Corpora, Fazzini e Franchina (invitati su proposta di Guttuso). Cassinari, al contrario, ritira la sua adesione.
Scrive Marchiori nell’introduzione al catalogo: "Altra non può essere l’insegna che lega gli artisti del ’Fronte Nuovo’; un’esigenza assolutamente giusta e che non si traduce nelle solite formule di ’gruppo’, poiché ogni artista risponde con la propria opera della propria individualità estetica.
~...] Un’intesa tra uomini liberi e che pensano con legittimo orgoglio di rappresentare l’arte italiana d’oggi nei suoi più contrastanti indirizzi, è una prova di alto significato morale; è già un primo passo verso l’affermazione di un nuovo costume[...]
A taluno una presa di posizione tanto netta potrà sembrare poco generosa, ma il fatto è giustificato dall’urgenza ovunque avvertita, di riprendere un discorso interrotto con la parentesi metafisica e con la reazione neoclassica. Bisognava cioè tornare alla cultura europea per esaurirne ogni motivo nell’esperienza diretta (di cui ogni artista è responsabile), tanto grande era il desiderio di ’conoscere’ e di sperimentare poi l’adattabilità d’un linguaggio".
Roma, settembre. Gli viene assegnato uno studio a Villa Massimo. Lo manterrà fino al 1956.
Marcello Venturoli lo descrive così:
"Non sono molti gli artisti di Villa Massimo; ma quei pochi hanno caratteristiche proprie, come una strana tribù, chiusa nel verde di un immenso parco, nel quale si entra dopo aver declinato nome e cognome a un autoritario portiere. A Villa Strobl Fern, altro grande giardino dove sorgono gli studi dei pittori romani, le casette sono disperse; o il panorama appare come un villaggio svizzero senza montagne. A Villa Massimo c’è una diversa urbanistica. Un’unica via battuta di terra, ai margini del parco, sul lato destro; una diecina di baracconi a un piano e mezzo, grigi, dalle ampie finestre. Oche e gatti, gli animali sacri della via, traversano indisturbati i panni stesi che segnano il confine tra casa e casa. Puoi scorgere dietro le case, pittori immersi nella cicoria a dipingere marine, giovani mogli in vestaglia alle prese con bimbi terribili muniti di cerbottane.
Io mi ebbi un cartoccetto con lo spillo sul borsalino primaverile, prima di varcare la
soglia dello scultore Leoncillo. Il quale, insieme al pittore Renato Guttuso, agli scultori Marino Mazzacurati ed Emilio Greco è il quarto lavoratore delle arti figurative che alberga Villa Massimo.
Leoncillo è un uomo dal viso paglierino, gremito di lentiggini; ha la fronte bombè, un ciuffo di capelli fulvi che lo fanno somigliare a un fiore di campo. Leoncillo è (<l’uomo del forno", colui il quale cuoce le sue sculture a fuoco lento.
Dentro il suo vasto studio il personaggio i è dunque il forno, una sorta di sedia
elettrica in mattoni, dallo sportellone blindato, con attacchi elettrici, amperometri, pirometri e voltometri, tanto che il visitatore ripensa ai vecchi film: un dottor Mabuse strapaesano, alle prese coi cocci e gli smalti. Per mettere su il forno Leoncillo ha mobilitato mezza Roma. Ha mobilitato metà del capitale dello scultore suo collega Marino Mazzacurati; poi, opuscoli di una fabbrica di forni alla mano, ha steso il progetto. Ha ordinato in fabbrica le piastre colle resistenze in nichel cromo, e i mattoni refrattari da una industria romana; il capo d’Arte dell’Istituto Industriale coi suoi allievi ha creato l’armatura di ferro che pesa diverse tonnellate.
Bisogna stare a sentire come descrive lo scultore la nascita del suo forno! È una storia tragicomica, di tenacia, speranze e sconforti; prima mancava la corrente industriale; e ci fu bisogno di raggranellare un capitale suppletivo per i cento metri di filo che occorrevano all’innesto; poi il forno pesava talmente che non si riusciva a trasportarlo in loco; poi una agenzia di trasporti fece fronte alla bisogna, in cambio di una statua; da principio, il forno, messo insieme di tanti pezzi assortiti, (qualcuno acquistato, qualche altro fatto in casa), andava "di sua iniziativa"; sviluppava il massimo del suo calore nello spazio di sei ore, arrostendo con zelo crematorio le statue che erano messe a cuocere; in seguito impiegò quarantotto ore a raggiungere un calore sufficiente per la cottura di uova alla coque. Leoncillo mi ha detto che ora il forno funziona: con successivi attacchi, l’artista riscalda parete per parete; in ventiquattr’ore escono dal forno le ceramiche sfolgoranti.
Ritratto di EIsa, 1948
Ho visto Leoncillo all’opera. Ve lo descrivo in
Leoncillo
breve: dopo avere modellato in creta la scultura nella maniera usuale, egli la fa cuocere nel forno, adoperando una misteriosa argilla, corretta da altre sostanze, per evitare che "calando" eccessivamente, "crepi" l’opera. Indi, estratta dal forno la terracotta, Leoncillo comincia il suo lavoro di ceramista. Riveste la scultura di uno smalto, frutto di pazienti ricerche, "il quale - mi dice orgoglioso di parlare in termini tecnici - è composto di un pigmento colorato fatto di ossidi metallici..". Insomma, dar lo smalto, a quanto ho capito, è operazione medianica, perché si deve tener conto del come apparirà cotto il colore, quando cioè "gli ossidi ritorneranno metalli mediante il calore". Provare e riprovare è il motto dello scultore. In ogni modo "fino a che non si apre il forno, a cottura avvenuta, non si sa mai come è venuto il pezzo".
Io giunsi appunto nello studio, mentre l’artista apriva il forno. Un gatto, il collega Mazzacurati, e una modella, assistevano al rito. È incredibile il grado di vivezza folgorante che hanno le ceramiche appena cotte; la parete del forno riprende il suo grigio colore qua e là striato ancora di arrossature; nel mezzo, sui graticci di materia rarefatta, si scorge appollaiato come un miracoloso gallo, l’oggetto colorato di Leoncillo.
Non si creda però che l’artista passi il suo tempo a lavorare fuori dal mondo, tra forni e crete; il concetto dell’artista pago di se stesso è ancora assai lontano dalla figura di Leoncillo. Il quale non si dispiace di essere considerato come uno dei più laboriosi artigiani romani. Egli, dopo essere uscito dall’Accademia entrò come direttore tecnico in una fabbrica di ceramiche ad Umbertide; e là imparò il mestiere insieme agli operai ceramisti. La sua impostazione artigiana va a tutto vantaggio, mi sembra, della sua arte. La quale non vuole mai apparire fine a se stessa. "Io tendo a portare su un piano di arte applicata tutte le esperienze dell’arte astratta nel campo pittorico e del tutto tondo" mi ha detto tranquillamente. <t’epoca delle opere da cavalletto e da basamento è finita; oggi bisogna pensare la pittura e la
scultura in funzione architettonica: le arti figurative debbono essere funzionali. Io ho esposto alla Biennale di Venezia alcune opere di scultura che pochi hanno mostrato di apprezzare. Le medesime opere, che erano state concepite come elementi decorativi di ambienti, furono poi applicate in diversi interni di negozi, bar, circoli, cinematografi. Il pubblico ne è rimasto entusiasta: ciò vuol dire che le opere sono belle o brutte a seconda di dove si mettono e a seconda della loro utilità. Nessuno dice male della mia statua del San Michele, protettore di Capri, nell’omonimo ristorante a Roma".
Leoncillo non è ricco, naturalmente, come non è ricco nessun artista italiano, eccetto qualche "trombone" tipo De Chirico. Però "si arrangia". Insieme con Mazzacurati ha messo su una piccola bottega, dove si compra anche a rate. Ogni tanto, molto di rado in verità, si fermano davanti al suo studio automobili lunghe. Ne esce una signora in odore di spregiudicatezza, e commissiona una statua. Molto più spesso sono persone del ceto medio, operai addirittura, che vengono da Leoncillo a comprare roba. Tempo addietro si ebbe nello studio un capomastro, sua vecchia conoscenza di Umbertide, che voleva "espresso" un servizio da tè per dodici persone:
Leoncillo glielo fece in una settimana; l’esterno delle tazze ripeteva il viso di un noto monopolista delle costruzioni". (cfr. Marcello Venturoli, Leoncilo Leonardi è"l’uomo del forno", in "La Repubblica d’Italia", Roma, 21 maggio 1943).
Giorgio Bassani aggiunge:
"Il vecchio parco della Villa, folto di quercie, di cipressi e di buie siepi di mortella (un profondo silenzio fascia la bassa, lunga, ugualmente divisa costruzione dove alloggiano e lavorano una ventina di persone) non sembra poter consentire nessuna specie di smanceria borghese. "Avoir une maison commode, propre e belle - un jardin tapissé d’èspaliers odorants...": tutto qui, per cospirare all’oblio di questo secolo meschino e feroce. Dall’interno degli studi il silenzio silvestre è incrinato soltanto dal sibilo di una piccola fontana settecentesca. Molta vace, molta nobiltà e "grandeur". [...]
In un angolo dello studio di questo arti-sta geniale e bizzarro si vede una statua -al solito di terracotta policroma - che ram presenta un San Sebastiano spirante.
Quest’opera crudele e dolcissima (sull’orlo del corpo del santo, le ferite rosseggiano come bocche procaci e dolorose) parla delle origini del nostro scultore, e delle affinità congeniali e dei contatti che la sua scultura ebbe agli inizi con la pittura scatenata e decadente di Scipione. Un ritratto abbastanza recente di Titina Scialoja - i toni violacei e rosati della guaina di colore, quasi maculazioni di pelle intirizzita, sottolineano con aspra dolcezza le curve e gli spigoli del piccolo corpo sofisticato - indicano in che senso si è spinta fino a poco fa
Leoncillo
la ricerca di Leoncillo [...]. Il passaggio da una posizione di fauvismo decadentistico a una norma di virtù e rigore intellettuale rappresenta forse per un artista così intensamente istintivo come Leoncillo un’impresa disperata. Ma chi non sa che la via dell’arte va talvolta in senso contrario a quella della vocazione?". (cfr. Giorgio Bassani, Arte a Roma. Visita agli studi di Guttuso, Mazzacurati e Leoncillo, in "Il Mondo Europeo", Firenze, i ottobre).
Mila Contini nelle sue Passeggiate romane:
"Leoncillo lavora in uno degli enormi studi di Villa Massimo. Il giovane scultore anche le poche volte che sorride sembra sempre angustiato. Umbro di nascita, è di poche parole: la sua vita non fu rosea e lui stesso ammette di lasciare involontariamente qualcosa della sua sofferenza in tutto ciò che crea. Neppure da bambino amava la compagnia dei suoi coetanei: cercava in solitudine ’un maggior contatto con la vita’, scrutando i misteri della natura. Lo interessa in modo particolare la maiolica colorata, con la quale gli sembra di poter meglio esprimere la sua ansia di avvicinarsi a tutti gli aspetti della vita.
[...] Nei momenti liberi Leoncillo legge molto: Faulkner (di cui ricorda il libro illustrato da Guttuso), Garcia Lorca, Block, i poeti russi. [...] Dopo l’8 settembre andò con i partigiani E...]
Quando era molto giovane, Leoncillo, che di cognome si chiama Leonardi, si
mise anche a tirare di ’boxe’; ma un giorno, a Genova, ’ce le prese’ e smise". (cfr. Mila Contini, Passeggiate romane, in "Stile", n. 9-10-i 1-12, Milano, settembre-ottobre-novembre-dicembre 1947, pp. 42-43).
Cesare Vivaldi conferma:
"Villa Massimo è uno dei luoghi privilegiati dell’arte italiana negli anni successivi alla seconda guerra mondiale. A Villa Massimo infatti - già sede dell’Accademia Germanica in Roma, espropriata dopo la guerra e concessa agli artisti italiani - dal 1948 al 1956 ebbero lo studio alcuni pittori e scultori che furono tra i protagonisti delle vicende artistiche dell’epoca; molti dei quali maturarono proprio lì personalità destinate a grandeggiare sulla ribalta nazionale e internazionale e a in-scriversi con molto rilievo nella storia dell’arte italiana del 900. Tra il 1948 e il 1956 (anno nel quale la Villa tornò all’Accademia Germanica) a Villa Massimo risiedettero o lavorarono Leoncillo, Mazzacurati, Guttuso, Emilio Greco, Enzo Rossi, Enzo Brunori, Vittoria Lippi, Romeo Mancini, Ugo Rambaldi, Salvatore Meli, Aldo Caron, Ugo Marinangeli, Aldo Turchiaro, Raffaele Leomporri, Guido La Regina e altri. Tutti artisti giovani o giovanissimi, poiché si andava dall’età imberbe dei due ’aiuti’ di Guttuso, Leomporri e Turchiaro, ai quarant’anni di Mazzacurati, il più anziano del gruppo, e quasi tutti impegnati, almeno all’inizio, in quel linguaggio neocubista che fu il ponte di passaggio dell’arte allora d’avanguardia dalla timidezza della ’provincia fascista alla cultura internazionale. Linguaggio neocubista che da una parte virerà risolutamente nell’astrazione e dall’altra tenterà, con maggiore o minor convinzione a seconda dei casi, l’ipotesi del ’realismo’. Così anche il gruppo di Villa Massimo finirà per spaccarsi in due, con Guttuso, Mazzacurati e Mancini realisti e Brunori, Rossi, la Lippi astratti; mentre Leoncillo continua nel suo neocubismo espressionista fino a! 1956 per poi, dopo un breve periodo ’naturalista’, trovare nell’ ’informale’ la soluzione delle proprie crisi, e mentre altri (Greco, per esempio) perseguono una ricerca indivi
duale estranea alla contingente attualità. Come si è visto, tra gli artisti di Villa Massimo figura un bel gruppo di pittori e scultori umbri, tutti approdati lì per impulso di Leoncillo. E...]
Leoncillo nel 1948, quando entra a Villa Massimo, è già un artista molto noto. Ha avuto, tra il 1938 e il 1946, quello splendido periodo estrosamente espressionista che Longhi definì ’barocchetto’, collegato da una parte all’ultima fase della ’Scuola romana’ di Stradone, Scialoja eccetera e dall’altra ai testi espressionisti storici (si veda la giustamente famosa Madre uccisa dai tedeschi del 1944) rivissuti al lume della tragedia bellica. Dal 1946 ha cominciato anche lui prima a semplificare e poi a scomporre i piani secondo la sintassi neocubista, sintassi che approfondisce appunto nel soggiorno a Villa Massimo, parallelamente a Guttuso ma più ancora parallelamente a Rossi e Brunori, come dimostra l’episodio già citato di Sedia cappotto cappello. Tra tutti i neocubisti Leoncillo arriva a soluzioni assai originali in virtù del suo mezzo specifico, la ceramica colorata, che lo porta ad accentuare col colore vuoti e pieni e magari a contraddire, con una cromia a volte delicata a volte vivacissima ma sempre grumosa e
di gusto ancora espressionista, il taglio sommario dei piani.
Il neocubismo fu per Leoncillo come per altri un’esperienza anche politica, nel senso che coincise con la sua appartenenza al Partito Comunista e alle conseguenti istanze di ’impegno’.
Leoncillo
Di qui la sua tematica populista (opere sui minatori, sulla Resistenza, le telefoniste, le dattilografe eccetera), e di qui la sua crisi che si inizierà al momento della scissione del neocubismo tra astrattismo e realismo, vale a dire tra il 1948 e il 1950, e si acutizzerà a mano a mano sino a che, nel 1956, l’artista non lascerà il Partito. Il periodo di Villa Massimo, tra il 1948 e il 1956, è per Leoncillo tutto sommato amaro, perché contrassegnato da questa crisi progressiva; dalla quale uscirà, come è noto, con un breve impasse ’naturalistico’ tra il 1956 e il 1957 influenzato da Francesco Arcangeli e dai giovani spoletini, e finalmente, a partire dal 1958, approdando all’ ’informale’, con il conforto sempre di Arcangeli ma anche di Toti Scialoja, appena tornato dagli USA e entusiasta delle eccitanti novità dell’action painting. Periodo amaro, dicevo, tanto che lo stesso artista, più tardi, parlerà del decennio 1946-1956 come ’di dieci anni e dei migliori buttati dalla finestra’. Eppure un periodo tutt’altro che improduttivo e tutt’altro che
avaro di buone opere" (cfr. Cesare Vivaldi, Gli umbri a Villa Massimo: Roma 1948-1956, catalogo della mostra, Palazzo Cesi, Acquasparta, 1984).
La testimonianza di Vivaldi sull’impegno neocubista di Leoncillo richiama una poesia e due epigrammi inediti di Scialoja, proprio di quegli anni:
"BRINDISI: Oh forma astratta a te alzo il bicchiere / se ci sveli il tuo cubo e le tue sfere! a noi che dipingiamo con la frusta / e con le spine, a star con te ci gusta / ma in tale approccio, sospetto ci invade/ ci sarà un po’ di pepe e un po’ De Sade.
Chi vuol successi / oggi secessi: / l’applauso rubo / mostrando il cubo.
Per lo scultor che si chiama Leon/ non neo-cubismo ma cubismo al neon.
L’autoritratto per la raccolta 8x10 di Cesare Zavattini, Roma 1945
"Il mio neocubismo è stato più legato a uno sviluppo impressionistico che alle ’idee’ del movimento cubista. Certo, c’è stato il grande ’errore’: invece del sentimento della realtà, la realtà costretta entro una visibilità concettuale, quella che credevo ’moderna’, che credevo fosse dovere storico adottare. Dieci anni, e dei migliori buttati dalla finestra; e non sono stato capace di oltrepassare questa crisi, di subirla soltanto, né legato al giogo di tutti i giorni ho potuto vedere come al-tn nel mondo risolvevano lo stesso problema...
Più tardi l’apertura che ho avuto con l’informel mi è stata offerta dall’esigenza che ho sempre intesa di restare legato a un mondo di sentimenti, di emozioni senza cui non ho interesse di dir nulla, senza cui non ho proprio da dire nulla" (cfr. Leoncillo, Piccolo diario, 1957).
Roma, 20 novembre-20 dicembre, Palazzo Venezia, Prima mostra del sindacato provinciale delle arti figu rati ve.
Espone, come da elenco in catalogo:
74. Ritratto, 1944, ceramica.
Scrive Enrico Galluppi: "Segnaliamo il ritratto in ceramica dell’amico Leoncillo, che ci appare vivissimo di carattere e saldamente unitario nell’impostazione, pur nettamente impressionistica" (cfr. Enrico Galluppi, La Sindacale, in "La Fiera Letteraria", a. Il, n. 49, Roma, 4 dicembre, p. 5).
1948
New York, gennaio-febbraio, House of Italian Handicraft, Handicraft as a fine art in Italy.
Espone, come da illustrazione in catalogo: Madre romana assassinata dai tedeschi, 1944.
Nel catalogo, curato da Bruno Munari, una introduzione di Carlo Ludovico Ragghianti e le presenze di Afro, Mirko, Enrico Bordoni, Broggini, Campigli, Pietro Cascella, Casorati, Cherchi, Clerici, Consagra, De Pisis, Fabbri, Fontana, Fornasetti, Renato Gregorini, Guerrini, Guttuso, Levi, Paola Levi Montalcini, Marino, Melotti, Giovanni Michelucci, Morandi, Adriana Pincherle, Anita Pittoni, Pizzinato, Emanuele Rambaldi, Santomaso, Sassu, Carlo Sbisà, Maria Signorelli, Ettore Sottsas jr., Enrico Steiner, Nino Ernesto Strada, Turcato, Gianni Vagnetti.
La mostra è presentata dalla CADMO, creata a Firenze dall’italo-americano Mar Ascoli, come organizzazione italiana della Fondazione americana "Handicraft Development Inc." con sede nella Casa dell’Artigianato Italiano dovuta all’architetto triestino Gustavo Pulitzer Finali, già noto per varie realizzazioni di arredamento navale.
Roma, febbraio-marzo, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, III Mostra Nazionale dArte Ispirata allo Sport.
Espone, come da elenco in catalogo, nella Sezione bassorilievo: 1. Lottatori, con il quale vince il I Premio Nazionale.
Roma, marzo-maggio, Galleria d’Arte Moderna-Valle Giulia, Rassegna Nazionale dArti figurative.
La mostra è promossa dall’Ente Autonomo Esposizione Nazionale Quadriennale d’arte di Roma.
Espone, come da elenco in catalogo:
Sala IX: 38. Ritratto; 39. Ritratto.
Sala XXXIV: 12. Natura morta; 13. Natura morta; 14. Natura morta.
L’illustrazione in catalogo, la n. XXX, si riferisce alla scultura Ritratto di Titina.
"E non bisogna dimenticare Leoncillo, con i suoi ritratti in ceramica in cui la tecnica spavalda ela piacevolezza non escludono un’attenzione sottile" (cfr. Orio Vergani, La scultura alla Quadriennale di Roma, in "L’Illustrazione Italiana", a. 75, n. 22, Milano, 30 maggio, p. 767).
Roma, 7-15 aprile, Fronte Democratico Popolare (via Sebino 43 a), Mostra dArte Contemporanea.
Partecipa insieme a, tra gli altri, Accardi, Capogrossi, Ciarrocchi, Colao, Consagra, Dorazio, Fazzini, Franchina, Gentilini, L. Guerrini, Kassak, Mannucci, Melli, Paolozzi, Perilli, Pirandello, Rotella, Sanfilippo, Savelli, Scarpitta, Scialoja, Stradone, Turcato.
In catalogo un testo di Roberto Melli.
Edimburgo, aprile, Royal Scottish Academy, Contemporary Italian Sculpture.
Londra, aprile, Victoria and Albert Museum, Sport in ArtExhibition, XJVth O/impiad in Art.
Milano, aprile, Angelicum dei Frati Minori, IV Mostra italiana di arte sacra per la casa cristiana.
Tra gli altri artisti: Bartolini, Carrà, Tomea, Messina, Fabbri e Negri.
Roma, [maggio]. Scrive a Giuseppe Marchiori:
"Gent.mo Marchiori, ho saputo oggi che uno dei miei lavori è
a Venezia, rotto. Poiché si tratta di un ritratto, uno dei pezzi ai quali tengo di più, sono molto preoccupato; senza di esso non potrei esporre i due bassorilievi. Mi raccomando vivamente a Lei, che è l’unico amico che abbia a Venezia e che so che ha a cuore la nostra riuscita di aiutarmi in questo.
Ho già scritto al dott. Pallucchini di far accomodare la scultura ad un abile restauratore a mie spese; nel caso che non si trovi di lasciarmi il posto per la scultura; io stesso verrò prima dell’inaugurazione ad accomodare il lavoro. La prego di interessarsi personalmente di questo presso il dott. Pallucchini affinché tutto venga fatto nel modo migliore. La ringrazio della sollecitudine che sono sicuro avrà per la mia cosa e la saluto molto cordialmente. Leoncillo".
Roma, 26 maggio. Torna a scrivere a Marchiori:
"Gent.mo Marchiori, La ringrazio molto della cartolina e della
Sua premura. Non so se, malgrado il mio desiderio, potrò venire a Venezia prima del 6 giugno, poiché ho una ghiandola del collo molto gonfia e occorre che sia guarita prima della mia partenza.
La prego così in ogni caso di farmi restaurare la testa, può bastare uno dei comuni mastici se dato da persona pratica. È questo un pensiero preoccupante per me e Lei mi farebbe cosa molto gradita se se ne potesse occupare. Sono sicuro che la
collocazione dei lavori sia stata fatta molto bene dal momento che Lei ci ha messo il suo impegno e credo che le voci che già corrono contro la Biennale, specialmente per quello che ci riguarda, saranno smentite dai fatti poiché il coraggio e la fiducia che abbiamo avuto darà bene qualche frutto. A presto il piacere di rivederla.
Suo Leoncillo".
Venezia, 29 maggio-30 settembre, Palazzo Centrale ai Giardini, XXIV Biennale di Venezia.
Espone, nella Sala XL, insieme a Birolli, Morlotti e Franchina, nell’ambito della mostra dedicata al "Fronte nuovo delle Arti" e ordinata da Giuseppe Marchiori (Turcato, Corpora, le due nuove adesioni del movimento, Santomaso, Pizzinato, Guttuso, Vedova e Viani sono nella Sala XXXIX): 16.Ritratto di attrice, 1948, ceramica smaltata policroma; 17. Ballerine, 1948, ceramica smaltata policroma; 18. Donna al mare, 1948, ceramica smaltata policroma; 19. Lottatori, 1948, ceramica smaltata policroma; 20. Ritratto, 1948, ceramica smaltata policroma;
Scrive in catalogo Marchiori: "Non si trattava di uno dei soliti ’gruppi’, definiti da un comune denominatore estetico, bensì di una unione tra i più rappresentativi artisti italiani delle generazioni venute dopo il ’Novecento’, solidali nella richiesta di una fiducia da accordare alloro lavoro e nella volontà di opporsi con un atto di fede al pessimismo e allo smarrimento spirituale del tempo".
Bologna, ottobre, Palazzo del Re Enzo, Salone del Podestà, I Mostra Nazionale dArte Contemporanea.
La mostra è organizzata dall’Alleanza della Cultura.
Espone insieme agli aderenti al "Fronte nuovo delle Arti", tranne Franchina, e ad Afro, Cagli, Chighine, Francese, Greco, Mandelli, Minguzzi, Mirko, Peverelli, Tavernari e Tettamanti.
In questa occasione, sul n. 11 di "Rinascita" esce l’articolo di Roderigo di Castiglia (pseudonimo di Togliatti): "È una raccolta di cose mostruose: riproduzioni
di cosiddetti quadri, disegni e sculture che a cura dell"’Alleanza della Cultura" di Bologna sono stati esposti in quella città in una ’Prima (sic!) Mostra Nazionale d’Arte (resic!) Contemporanea’. Come si fa a chiamar ’arte’ e persino ’arte nuova questa roba, e come mai hanno potuto trovarsi a Bologna, che pure è città di così spiccate tradizioni culturali e artistiche, tante brave persone disposte ad avallare con la loro autorità, davanti al pubblico, questa esposizione di orrori e di scemenze come un avvenimento artistico? Diciamo la verità: queste brave persone la pensano come noi tutti; nessuno di loro ritiene o sente che sia opera d’arte uno qualsiasi degli scarabocchi quiriprodotti, ma forse credono che per apparire ’uomini di cultura’ sia necessario, davanti a queste cose, darsi l’aria di superintenditore e superuomo e biascicare frasi senza senso.
Trofei (2 bronzetti) - 1940
terracotta policroma invetriata, cm 46x14x17
Suvvia! Abbiate coraggio! Fate come il ragazzino della novella di Andersen: dite ch’è nudo, il re; e che uno scarabocchio è uno scarabocchio. Ci guadagnerete voi perché sarete stati sinceri, e gli artisti, o pretesi tali, certo s’ arrabbieranno sulle prime, ma poi farà bene anche a loro".
Gli artisti (Pietro Consagra, Renato Guttuso, Aldo Natili, Paolo Ricci, Mario Ma-fai, Giulio Turcato, Nino Franchina, Leoncillo Leonardi, Mario Penelope, Saro Mirabella, G. Vittorio Parisi, Giuseppe Mazzullo, Concetto Maugeri, Paolo Bracaglia Morante), rispondono con una lettera, Per una nostra "Segnalazione", pubblicata sul n. 12 di "Rinascita" del 12 dicembre:
"Cara Rinascita, il corsivo redazionale apparso sul numero di novembre, viene improvvisamente ad acutizzare un problema che da molto tempo gli artisti italiani, con alla testa gli artisti comunisti, stanno dibattendo e che in questi ultimi mesi è stato agitato in pubbliche discussioni e dibattiti svoltisi in molte città d’Italia. Tali dibattiti ci hanno permesso di uscire dalle solite discussioni tra noi (necessariamente specialistiche e di solito poco risolutive) rinsanguando i nostri problemi con un contatto di partito e popolare, il quale solo può rimontare la frattura che si era venuta approfondendo tra gli ’intellettuali’ e i ’semplici’. Tale frattura,
come è noto, non riguarda solo i giovani pittori e scultori italiani, ma tutta l’arte, tutta la cultura della società borghese contemporanea, e già da alcuni decenni.
[...] Compito degli intellettuali d’avanguardia italiani, sia durante il fascismo che immediatamente dopo, fu quello di prendere coscienza di questo dato di fatto storico, accelerando l’assorbimento delle principali esperienze figurative prodottesi in altri paesi. Anche se tale corsa al recupero ha impedito un approfondito giudizio critico su queste esperienze, tuttavia l’assorbimento non è avvenuto in modo meccanico e passivo.
Ci ha dunque sorpreso la rapida violenza della nota di Rinascita, nota che pur muovendo da una istanza giustificata e pressante, mostra di non tener conto del fatto che tale istanza è presente a tutti i giovani artisti italiani progressivi e a noi artisti membri del partito, e che da tale istanza muovono i nostri recenti dibattiti, e le nostre lotte per modificare il quadro dell’arte figurativa contemporanea. Inoltre la nota di Rinascita dà su una esposizione, che aveva un carattere dimostrativo delle varie correnti moderne esistenti in Italia, un giudizio indiscriminato in quanto coinvolge nei termini di ’scarabocchi’ o ’mostruosità’ opere e valori di diverso significato e differentemente indirizzate.
[...]Trattare i problemi attraverso semplicistiche tabulae rasae vuol dire buttar via il bambino insieme all’acqua sporca, cioè ’fare un salto all’indietro"’.
Roma. Esegue delle decorazioni per il ristorante - night club Rupe Tarpea.
1949
Roma, febbraio. Nicola Ciarletta, sul n. 3-4 della rivista "Apollo", gli dedica un articolo.
"Un tempo le sue sculture, in terracotta colorata, erano fiaccole sempre accese e lingueggianti. Dal San Sebastiano alle Furie, all’Autoritratto, è un incendio di immagini che risorgono ininterrottamente dalle proprie ceneri. L’incentivo è il colore, che con le sue zone lisce e lucide sembra consumare il volume e nello stesso tempo rifletterlo e ricrearlo nel suo riverbero. Questo periodo di Leoncillo è conosciuto sotto il nome di espressionismo. ... .1
Benché apparentemente illimitato, questo espressionismo è in realtà limitatissimo. In realtà è un getto di variazioni del medesimo tema. Il colore, la lucentezza e talora la porosità stessa della materia costituiscono l’artificioso inizio di questa favola plastica ove il caso, invocato con misurata malizia, porterà l’ultimo tocco, forse il decisivo. Di conseguenza l’immagine finale sarà sempre un poco incerta, quel tanto da parer perfetta e quasi infinita: se una faccia d’uomo potrà sembrare un detrito di mare e la Furia un vaso giapponese, tale esito sarà tanto più propizio quanto più labile e cangiante.
Leoncillo avvertì questa incertezza, questa limitazione nascosta in un abuso di felicità, e l’espressionismo gli parve, nonché un insufficiente messaggio estetico, una condotta etica troppo facile e flessuosa, esageratamente irrequieta e scarsamente inquieta, atta a far brillare un uomo come un diamante, ma addirittura incapace di farlo battere in sincronia con altri uomini. E cambiò strada, o per meglio dire frenò il suo corsiero alato.
Si diede a cercare l’errore tecnico e lo trovò. Era il colore. I colori erano sovrapposti, non connaturati al volume, erano una contaminazione della plastica, non un espressione plastica. Dunque era d’uopo fermarsi estudiare il colore, la ceramica innanzi tutto dal lato tecnico.
Lo studio della ceramica trasse Leoncillo sul piano dell’artigianato. Prove su prove, il che voleva dire anche attese lunghissime tra una cottura e l’altra, e infine ecco la fusione perfetta tra colore e volume. Ecco il volume cromatico, ossia un corpo che appare come colore, un corpo pieno e vivo che respira e si fa evidente dal di dentro con tutto ciò che gli è proprio, con quel che di irreversibile che è il suo timbro, la sua voce.
Ma, avendo anche questa volta rifiutato i felici germi, Leoncillo è giunto finalmente al volume cromatico. Ora la scultura ha perduto i suoi limiti, che ha acquistati invece lo scultore, il quale deve pazientemente attendere, come un artigiano, alla sagace cottura dei suoi smalti. Frattanto la figura, avendo perduto i suoi limiti caratteristici, è divenuta meno nervosa e attraente ma ha guadagnato in quiete ed unità. Ecco, infatti, la Donna che si spoglia, autentico capolavoro, che dà proprio l’impressione d’una figura che nasca dall’ombra, tanto intrinseco le è il colore che sulle prime sembra quasi non esistere (proprio l’antitesi del policromo) e, a poco a poco, si schiude nei suoi toni (cfr. Nicola Ciarletta, Leoncillo o del volume cromatico, in "Apollo", a. Il, n. 3-4, Roma, 15-28 febbraio 1949
Roma, 5 marzo-5 aprile, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Il Mostra annuale dellArt Club.
Espone, come da elenco in catalogo: 6 bis. Scultura.
Tra gli altri espositori: Accardi, Burri, Consagra, Dorazio, Capogrossi, Franchina, Guerrini, Mannucci, Mirko, Perilli, Rotella, Savelli, Sanfilippo, Scialoja, Turcato.
Roma, marzo, Casa della Cultura, Ipittori e l’agro.
Torino, maggio-giugno, Palazzo Carignano, I Mostra Internazionale dell’ Art Club
Espone, nella Sala III: 55. Figura, ceramica.
In catalogo, un testo di Albino Galvano.
Firenze, 16-29 giugno, Galleria Il Fiore,
Leoncillo.
Espone, come da elenco in catalogo:
1. Donna al mare, 1948; 2. Donna che si
spoglia, 1949; 3. Donna che si spoglia (bozzetto), 1949; 4. Ritratto di Titina, 1946;
5. Ritratto di Marcella, 1949; 6. Ritratto
di attrice, 1949; 7. Natura morta, 1945;
8. Natura morta, 1945; 9. Natura morta,
1945; 10. Lottatori, 1948; 11. Ballerine,
1948; 12.Base per un tavolo, 1949; 13. Vaso, 1949; 14. Vaso, 1949; 15. Vaso, 1949;
16. Ciclista (bozzetto), 1949; 17. Maniglia,
1949; 18. Maniglia, 1949; 19. Dattilografa, 1949; 20. Dattilografa (bozzetto),
1949; 21. Base per lampada, 1949; 22.
Base per lampada, 1949.
Roberto Longhi, in una lettera del 10 giugno indirizzata a Del Conte, direttore della Galleria, pubblicata in catalogo, scrive:
[...]"Ma Leoncillo scultore o, meglio, quest’uomo che si serve di gesti tecnici e di materiali più comunemente addetti alla specialità "scultura", pensa a ridar le cose come gli appaiono in una particolare realtà che non se ne sta certo celata "ah aeterno" nel blocco di Carrara o dell’Imetto. Non puri i volumi ma investiti e grondanti di tono dall’interno e dall’esterno. Ed è qui che la strada, pur difficile, mi sembra aperta; la stessa di certi pittori di oggi.
Con Leoncillo ho cambiato in proposito qualche parola. La "terza dimensione" non ha mancato di affacciarsi, vecchia storia; così, mentre cercavo di provargli che la scultura (salvo che esistenzialmente, come sasso) non è (di necessità artistica) più tridimensionale di quanto la pittura, ho trovato da citargli una sentenza di Galileo che, palesemente, se ne intendeva: "il rilievo che la scultura dimostra, non lo dimostra come scultura ma come pittura"; cioè, in effige. Leoncillo ha detto che ci ripenserà, ma che gli pareva subito fondamentale. Lo credo bene, gli va a pennello (non dico a scalpello).
Qualche altra cosa (io ero avido di controllare sul vero la storia che le opere mi suggerivano) è venuta fuori anche dei suoi incontri. Anni di Scipione, di Mafai giovane e dell’espressionismo tonale romano. Qualche illusione al tempo della "Cometa" e del "neoumanesimo" che poi gli si rivelò per quel che era, un’altra comoda mascheratura intellettuale dell’eterno fascismo nostrano. Segregazione volontaria ed artigianato ad Umbertide, vecchio centro ceramistico: terre e invetriature. E, intanto, gli anni in cui fu più difficile comportarsi bene; cosa che gli riuscì. Poi la libertà, le polemiche sociali, il Fronte delle arti, l’astratto e il concreto intercambiabili, Guttuso, Turcato, l’ennesima svolta. In tutto, veniva fuori una persona umana, ben viva, punto umanistica. La parola più difficile colta dalla sua bocca è stata "sedimentazione". [...]
Ma la strada era già benissimo aperta fin dai "ritratti" (come chiamarli busti?) di
"Titina", di "Elsa", etc. Altro che "scultura policroma"! Questo patetico barocchetto spoletino, pronto persino all’astuto impegno della somiglianza, vi si esprime come un fauve o un espressionista della scuola romana di non discara memoria: che fu poi la verità dellasua prima cultura. Le inversioni, gli strappi tonali che improvvisano un incavo dove, nella "esistenzialità" oggettiva, avrebbe ad essere un pieno, o viceversa, a me sembrano tracce di buona poesia.
Lo stesso delle due "nature morte di oggetti" che sarebbe duro chiamar bassorilievi, tanto è scavalcato il canone particolare. Livelli diversi di aggetto non mancano nei due "quadretti", ma a veder che in quello di bottiglie la maggior quota altimetrica sul piano è proprio del particolare più piatto, senza corpo, dei fiori nella carta da parato, bisognerà dire che quell’emersione dal fondo non è provocazione "scultoria", ma levitazione ottica di un tono; da richiamare cioè piuttosto al misterioso ma illuminato motto di Cézanne che "quando il colore è più ricco la forma è più piena"".
Scrive Renzo Federici:
terracotta policroma invetriata, cm 33x18x20
"È strano il caso di uno scultore che nei suoi discorsi si rifà di continuo alla pittura o, se deve nominare con consentimento un suo collega scultore, ricorre al meno scultore dei nostri, Medardo Rosso: è la pittura il suo libro di paradigmi, il settore di storia che gli è accessibile e sollecita i suoi fondamentali interessi. Evidentemente non il geometrico ed oggettivo nitore delle forme e della costruzione gli preme, quanto invece la violenta e dinamica investitura cromatica che le forme possono assumere nell’atmosfera. E di queste mal cautelate frequentazioni pittoriche paga lo scotto in certe opere che sono in sostanza, pur con un pizzico di personale garbo, trascrizioni nella materia ceramica (malgrado tutto pur sempre tridimensionale) di modi e formule già propri ai pittori romani di circa l’anno 1940, modi misti di fluidi sviluppi fauves e di crudi interventi espressionisti, in cui si ammodernava il seicentesco pathos di Scipione: ad esempio in quel già antico Ritratto di Titina, dove ditate, lacerazioni, squarci cruenti di colore, disperdono e sminuiscono, anziché costruire e motivare, l’immagine. Riprova, ci pare, della propria e ineliminabile autonomia della scultura. Né altrimenti nel più recente Ritratto d’attrice o nella Donna al mare. Dove per altro subentrano fatti nuovi, di determinante valore, ci pare, per l’artista. È, quest’ultima opera, in definitiva, faticata e non esente da grossolanità, anche nel famoso colore, ma registra una decomposizione del telaio costruttivo, un impegno più diretto e più libero sulle aggregazioni delle forme scultoree, il tentativo di costrutti più liberamente inventati. C’entrano, sì, le segmentature e intavolazioni neo-cubiste, ma c’entrano anche, in materia determinante, le ricerche della più nuova plastica europea, di un Moore per esempio, con quella sua organica articolazione della materia costruttiva. Del resto quei suoi oggetti d’arte decorativa, pur nel loro minore assunto, testimoniano di sperimentali ricerche in questo senso. Ci pare che siano state queste influenze, questo clima, a far trovare allo scultore la sua via, la via cioè di quella costruzione aperta nello spazio, secondo una sintassi disarticolata e focosa. Si sa, l’impeto neoromantico (come è stato detto) in un Moore arriva a decantarsi in altissima, melodica purezza; qui invece, in una natura tanto minore e tanto più occupata dei suoi sensi, dal suo amore immediato e popolano per il reale, si travasa e si sostanzia di colore, di pittoresco e svariante estro inventivo. Comunque ci pare che le premesse siano lì, in quel clima, e che la sua strada sia in questa progressiva conquista di una sintassi plastica, libera, atmosferica, barocca, ma pur sempre plastica e realizzata nello spazio. Per questo più che Dattilografa, che è forse più conclusa, ma pur sempre sotto la insidiosa minaccia di un limite bozzettistico, preferiamo quella Donna che si spoglia, pur con le sue non raggiunte suturazioni: c’è, almeno in certi settori un fuoco e una aggregante fecondità di costrutti, per cui massa e colore raggiungono dinamica e pulsante intensità di scambi e si dispiega il coraggio e la baldanza di una libera signoria sintattica". (cfr. R. E. [R. Federici], Mostre d’arte a Firenze, "Il Nuovo Corriere", Firenze, 22 giugno 1949).
Roma, 28 agosto. Guglielmo Petroni gli dedica un articolo su " La Fiera Letteraria":
"Distaccarsi dalla pastoia artigianale della qualità del suo lavoro, per Leoncillo significò creare alcune figure, tra le quali il San Sebastiano ed alcuni ritratti oramai molto noti, in cui la scultura di per sé, anche per liberarsi dal pericolo decorativo che il colore gli avrebbe fatto correre, fu tutta tesa verso una concessione espressiva vissuta nervosamente e con particolare, anzi eccezionale intensità. A questo sorprendente risultato, l’aggiunta del colore realizzata tutta sul medesimo piano intento a rompere l’impostazione decorativa che pareva inevitabile, fu da lui studiata in modo da avvalorare il già tormentoso intento espressivo e psicologico, aumentò ancora il ritmo interiore del suo lavoro fino ad una acutaesasperazione piena di fascino e di trascendente suggestività". (cfr. G. Petr. [G. Petroni], Leoncillo Leonardi, in "La Fiera Letteraria", a. IV, n. 35, Roma, 28 agosto 1949, p. 4).
Varese, 10 settembre-30 ottobre, Villa Mirabello, Premio di scultura Città di Varese.
Espone: Donna di mare, 1947, ceramica, ill.
In catalogo un testo di Giulio Carlo Argan.
Saint Vincent, 15 ottobre-7 novembre,
Casino della Vallée, Gran Premio Saint
Vincent per le arti figurati ve.
Compare fra gli scultori invitati ma non
nell’elenco degli espositori.
Roma, dicembre, Galleria Italia, Concorso per le arti figu rati ve.
Partecipa insieme a, tra gli altri, Mafai, Fazzini, Gentilini, Guttuso, Mazzacurati, Omiccioli, Pirandello e Turcato.
Fano. Esegue una Pala d’Altare per la chiesa di San Pietro progettata dall’arch. E. Petrucci.
Roma. Esegue alcune decorazioni per il Ristorante Capri progettato dall’arch. La Padula.
1950
Natura morta con domino - 1943
ceramica, cm 32x47x5
marzo. Dopo le vicissitudini degli anni di guerra, riprende il mare, completamente rinnovato, il "Conte Grande". Le
innovazioni operate, sulle preesistenti strutture, da Gio Ponti e Nino Zoncada hanno portato ad un arricchimento degli ambienti più rappresentativi con l’inserimento di opere di Carrà, Campigli, Manzù, Marini, Martini e dei grandi maestri ceramisti italiani: Pietro Melandri di Faenza, Guido Gambone di Vietri, il veneto Luigi Zortea, Fausto Melotti, Lucio Fontana e, appunto, Leoncillo, presente nelle luminosissime vetrine delle pareti del bar con alcuni trofei.
Roma, 22 aprile-15 maggio, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, IV mostra annuale dellArt Club.
Espone, come da elenco in catalogo: 98. ceramica; 99. ceramica; 100. ceramica.
Partecipano all’esposizione, tra gli altri:
Carla Accardi, Ugo Attardi, Afro Basaldella, Mirko Basaldella, Alberto Burri, Corrado Cagli, Giuseppe Capogrossi, Pietro Consagra, Antonio Corpora, Piero Dorazio, Pericle Fazzini, Lorenzo Guerrini, Mino Guerrini, Renato Guttuso, Mi-no Maccari, Mario Mafai, Concetto Maugeri, Marino Mazzacurati, Giovanni Omiccioli, Achille Perilli, Enrico Prampolini, Mimmo Rotella, Antonio Sanfilippo, Salvatore Scarpitta, Toti Scialoja, Gino Severini, Orfeo Tamburi, Giulio Turcato.
Queste le linee programmatiche, pubblicate in catalogo: "L’Associazione Artisti-
ca Internazionale Indipendente, creata a Roma nel 1945 sotto il nome di Art Club, era un’idea - un’idea sorta dalla coscienza di artisti italiani e stranieri residenti a Roma, che sentivano il richiamo del tempo nuovo e l’appello all’universalità dell’arte, dunque l’urgenza di un più stretto contatto e l’utilità di una più efficace collaborazione fra tutti gli artisti del mondo, dovunque la parola arte evoca quella attività umana superiore ed autonoma che da quando l’uomo esiste lo accompagna e lo guida".
New York, aprile, Italy at work.
La mostra, dedicata all’artigianato italiano, è itinerante in America fino al 1953.
Venezia, 8 giugno-15 ottobre, Palazzo Centrale ai Giardini, XXVBiennale di Venezia
Espone, nella Sala XLIV, insieme a Franco Cannilla e a Carlo Sergio Signori: 22. Donna che si spoglia, 1949, ceramica; 23. Minatore, 1950, ceramica, ill.; 24. Sedia con cappotto e cappello, 1950, ceramica. Insieme a Nino Barbantini, Carlo Carrà, Felice Casorati, Giuseppe Fiocco, Roberto Longhi, Giacomo Manzù, Marino Marini, Giorgio Morandi, Rodolfo Pallucchini, Carlo Ludovico Ragghianti e Lionello Venturi, fa parte della Commissione per le Arti Figurative.
Monaco, dal 15 ottobre, Amerika Haus, Jtalienische Kunst der Gegenwart.
E presente, con un gruppo di disegni, nella sezione dedicata alla grafica, insieme a Afro, Bartolini, Ciarrocchi, Clerici, Consagra, Fazzini, Fontana, Gentilini, Manzù, Marini, Milani, Mirko, Ricci, Veronesi, Vespignani e Viviani.
Organizzata dallo Studio italiano di Storia dell’Arte di Palazzo Strozzi, diretto da Carlo Ludovico Ragghianti, su invito del governo germanico e della direzione generale delle Belle Arti di Baviera, la mostra, in seguito, e fino al 15 giugno 1951, viene trasferita a Mannheim, Amburgo, Brema, Berlino, Francoforte, Hannover, Norimberga, Dùsseldorf (gennaio 1951), Colonia.
Prima della partenza dall’Italia, le opere sono esposte a Palazzo Strozzi per una ’visita privata’.
Commissari per l’Italia sono: Giulio Carlo Argan, Costantino Baroni, Felice Casorati, Giovanni Pacchioni, Carlo Ludovico Ragghianti, Giuseppe Colacicchi, Carlo Levi, Giuseppe Marchiori, Giuseppe Raimondi, Ottone Rosai e Francesco Tacchini (presidente).
Roma, dicembre, Galleria Il Pincio, Picasso e gli amici dellArt Club.
Espone con Picasso, Assenza, Capogrossi, Corpora, Consagra, Dorazio, Fazzini, Franchina, Guerrini, Guttuso, Perilli, Prampolini, Savelli, Severini.
Roma. Esegue tre bassorilievi per il cinema Ariston progettato dall’arch. F. Dinelli.
1951
Madre romana uccisa dai tedeschi - 1944
terracotta policroma,cm 50x55x28
Roma, 18 gennaio-2 febbraio, Galleria di
Roma, Il Mostra lArte contro la barbarie.
Il saggio in catalogo è di Antonello Trombadori.
Roma, 17-28 febbraio, Il Pincio, Mostra del pittore Concetto Maugeri. Leoncillo esporrà alcune ceramiche di arte applicata.
Milano, febbraio, Palazzo della Permanente, Ceramiche italo-francesi. In catalogo una prefazione di Marco Valsecchi.
Gòteborg, aprile, Kunstallen, Italian artist oftoday, Art-Club.
Mostra itinerante a: Helsinki, Kunsthallen; Oslo, Kunsterness Hus; Copenaghen, Frie Udstilling.
Roma, ottobre, Istituto Statale d’Arte. Dal primo del mese ottiene di lavorare in qualità di titolare R. 5. T. della cattedra di plastica Ceramica.
Milano. Realizza, in collaborazione con Marino Mazzacurati, i modelli delle cornici e delle finestre del palazzo della Ri-nascente.
Roma. Esegue un camino per una casa d’abitazione progettata dall’architetto Mario Ridolfi.
1952
Roma, 22 marzo-22 aprile, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 6a mostra annuale dellArt Club.
Espone, come da elenco in catalogo:
173. Dattilografa; 174. Centralinista.
Partecipano all’esposizione, tra gli altri:
Carla Accardi, Afro Basaldella, George Biddle, Alberto Burri, Corrado Cagli, Giuseppe Capogrossi, Pietro Consagra, Antonio Corpora, Piero Dorazio, Pericle Fazzini, Nino Franchina, Emilio Greco, Lorenzo Guerrini, Mino Guerrini, Renato Guttuso, Mario Mafai, Edgardo Mannucci, Concetto Maugeri, Luigi Montanarini, Giovanni Omiccioli, Enrico Prampolini, Domenico Purificato, Antonio Sanfilippo, Salvatore Scarpitta, Angelo Savelli, Giovanni Stradone, Orfeo Tamburi, Giulio Turcato.
Roma, 7-15 giugno, Galleria Il Camino,
Mostra di arte figurativa di artisti contemporanei italiani e stranieri.
Espone insieme a, tra gli altri: Afro Basaldella, Pericle Fazzini, Emilio Greco, Renato Guttuso, Mino Maccari, Mario Mafai, Roberto Melli, Giorgio Morandi, Enrico Prampolini, Domenico Purificato, Antonio Sanfilippo, Angelo Savelli, Toti Scialoja, Giulio Turcato.
In catalogo un testo di Giorgio Prosperi.
Venezia, 14 giugno-19 ottobre, Palazzo Centrale ai Giardini, XXVI Biennale di Venezia.
Espone, nella Sala XVII, con Nino Franchina, Pietro Consagra, Michelangelo Conte, Alberto Burri, Achille Perilli, Mino Guerrini, Piero Dorazio, Gaetano Ro
Faenza, 29 giugno-13 luglio, Ex Convento di San Maglorio, X Concorso Nazionale della Ceramica.
Espone, come da illustrazione in catalogo: La dattilografa, plastica policroma.
L’opera è fuori concorso, ma la somma residua del Premio per la Funzionahrà, non attribuita, viene impegnata nell’acquisto della suddetta scultura e del Vaso verde e nero di Guido Gambone.
Compare nell’elenco degli espositori come residente in Largo di Villa Massimo 2, Roma.
Perugia, 12-30 ottobre, Palazzo dei Priori, Mostra Nazionale di Pittura "Per un’Umbria nuova’ Fa parte della giuria, insieme a Silvio Antonini, Raffaele De Grada, Mario Mafai, Corrado Maltese, Marino Mazzacurati, Francesco Santi, Giulio Turcato e Marcello Venturoli.
Pesaro, ottobre, Il Mostra Nazionale della ceramica.
Espone: Busto muliebre
I premio per il concorso Nazionale per una statua da Giardino a Pesaro
Roma. Esegue il fregio per il parapetto della galleria e il pannello d’ingresso del Teatro dei Satiri completamente ricostruito e notevolmente ampliato dall’architetto Claudio Longo.
Sabaudia. Realizza il camino dello Chalet Sabaudia disegnato dall’architetto Claudio Dall’Olio e una transenna per la casa del Giudice Monaco.
berto Crippa, Beniamimo Joppolo: 30 a. Minatori, 1950, bassorilievo policromo.
1953
Ritratto di Donata - 1944
maiolica policroma, cm 32x21x15
Stoccolma, 6 marzo-12 aprile, Liljevalchs Konsthall, Nutida italiensk Konst-Arte Italiana Contemporanea.
Espone: 276. Basreliefrr i héirdbrànd(Natura morta con strumenti musicali), keramic, ill.
La mostra è organizzata dalla Biennale di Venezia. In catalogo una introduzione di Umbro Apollonio.
Roma, 12-18 aprile, Vetrina della Galleria Colonna, Leoncillo.
Espone: Per una radiocronaca della Fiera di Milano, 1953, tempera su carta, cm 50x70, coll. Rai-Radiotelevisione Italiana, Torino. L’opera fa parte di una serie di illustrazioni di programmi radiofonici ai quali collaborano molti artisti italiani fra ill952eil 1954.
Nei mesi che seguono, illustra anche Katrina, dal romanzo sceneggiato di Sally Salminen, La scuola della maldicenza, dalla commedia di Richard Brinsley Sheridan, alcuni passi di un concerto corelliano, Cocktailparty, da una fantasia di Thomas Stearns Eliot, Pilato, dal radiodramma di Giuseppe De Martino e Antonio Santoni Rugiu, Maria dAlessandria, dall’opera di Giorgio Federico Ghedini.
Roma, 2-16 giugno, Associazione Artistica Internazionale, L Mostra Sindacale. Espone, come da elenco in catalogo: Ceramica.
Partecipano all’esposizione, tra gli altri:
Carla Accardi, Ugo Attardi, Corrado Cagli, Giuseppe Capogrossi, PietroConsagra, Gino Franchina, Lorenzo Guerrini, Renato Guttuso, Carlo Levi, Mario Ma-fai, Giovanni Omiccioli, Antonietta Raphaèl, Antonio Sanfilippo, Giulio Turcato.
Anversa, 20 giugno- 30 settembre, Parc Middelheim, Il Biennale de la Sculpture Espone, come da elenco in catalogo: Sezione Italie:
39. Chaise avec chapeau et manteau, céramique, cm 80x50x50; 40. Femme se déshabillant, 1950, céramique, cm 130x50;
41. Mineur, 1950, céramique, cm
160x60x50, ill.
Partecipano all’esposizione, tra gli altri:
Mirko Basaldella, Pietro Consagra, Agenore Fabbri, Pericle Fazzini, Lucio Fontana, Nino Franchina, Emilio Greco, Giacomo Manzù, Marino Marini, Arturo Martini, Umberto Mastroianni, Alberto Viani.
Luglio. Realizza in ceramica una spilla a forma di margherita, simbolo del concorso Alla ricerca di volti nuovi per il cinema italiano, alla seconda edizione.
Promotrice dell’evento è la rivista “Vie nuove", che gli dedica un articolo.
Spoleto, 6-26 settembre, Palazzo Collicola, I Mostra Nazionale di Arti Figurative. Espone, come da elenco in catalogo:
Sala H, mostra personale di Leoncillo Leonardi: 183. Ritratto di Titina, f.c.; 184. Natura morta, 1946, basso rilievo, f.c.; 185. Natura morta, 1946, basso rilievo, fic.;
186. Natura morta, 1946, basso rilievo, £c.;
187. La centralinista (bozzetto), 1950; 188. Natura morta con telefono; 189. Dattilografa (bozzetto), 1950; 190. Ritratto diattrice, 1950, f.c.; 191. Dattilografa (statuetta), 1951, f.c.; 192. Minatori, 1952; 193. 5. Sebastiano, 1940.
La Giuria di accettazione e di premiazione, composta da Francesco Arcangeli, Mario Mafai, Marino Mazzacurati, Roberto Melli, Gianni Toscano, Alceo Rambaldi, gli assegna il Premio Acquisto destinato alla scultura per l’opera in ceramica Natura morta con telefono.
La prefazione in catalogo è di Lionello Leonardi.
Torino, settembre, Salone delle Esposizioni, Mostra di Pittori italiani.
Figura tra gli organizzatori della mostra, insieme a Guido La Regina, Mary Jochens
e il Comitato Centrale della Croce Rossa Internazionale.
Sono presenti anche Mafai, Omiccioli, Sanfìlippo, Turcato, Guttuso, Scialoja, Maccari, Guzzi, Fazzini, Mazzacurati, Afro, Mannucci, Pirandello, Montanarini, Perilli, Mirko, Colla.
1954
Venezia, 19 giugno-17 ottobre, Palazzo Centrale ai Giardini, XXVII Biennale di Venezia.
Cariatide (Elemento per balaustra) - 1945
maiolica policroma a terzo fuoco, cm 99x25x25
Espone, nella Sala XIV, che ospita anche la personale di Lucio Fontana: 47. Arpia, 1939, ceramica colorata, coli. Cesare Brandi, Roma; 48. Il cervo e i cani: dalle Favole di Fedro, 1939, bassorilievo in ceramica, coll. Galleria Nazionale d’Arte Moderna; 49. Il nibbio e la colomba: dalle Favole di Fedro, 1939, bassorilievo in ceramica, Istituto d’Arte, Perugia; 50. Natura morta con poli]po, 1944, ceramica colorata; 51. Donna uccisa dai tedeschi, 1944, ceramica colorata, coll. Giuseppe Natale, Roma; 52. Donata, 1945, ceramica colorata, coll. Giuseppe Natale, Roma; 53. Natura morta, 1945, bassorilievo in ceramica; 54. Natura morta, 1945, bassorilievo in ceramica; 55. Natura morta, 1945, bassorilievo in ceramica; 56. Ritratto di Titina, 1946, ceramica colorata, coli. Luigi De Luca, Roma; 57. Donna che si spoglia, 1950, ceramica colorata; 58. Dattilografa, 1950, ceramica colorata; 59. Sedia con cappotto e cappello, 1952, ceramica colorata; 60. Minatori, 1952, bassorilievo in ceramica colorata, Giornale “l’Unità”, Roma; 61. La centralinista, 1952, plastica maiolicata policroma, Museo Internazionale delle Ceramiche, Faenza; 62. La dattilografa, 1952, plastica maiolicata policroma, Museo Internazionale delle Ceramiche, Faenza; 63. Natura morta con il telefono, 1953, ceramica colorata; 64. Mary, 1953, ceramica colorata, in.; 65. Ciclista, 1953, ceramica colorata; 66. Bombardamento notturno, 1954, ceramica colorata; 67. Colomba, 1954, ceramica colorata; 68. Rovine di Terni, 1954, bassorilievo colorato.
In catalogo una presentazione di Roberto Longhi che scrive: “Giunti all’enorme scompenso fra correnti tanto opposte, -astrattismo, neorealismo - che, se riesumate fra millenni, si daterebbero facilmente a decine di secoli di distanza l’una dall’altra, a me sembra che l’aspetto dell’ultimo Leoncillo ponga un problema rilevante; accanto a quelli dei pittori coetanei di più forte spicco individuale.
Alla Biennale di quest’anno, la Colomba e il Bombardamento notturno presentano infatti un Leoncillo che ritorna, ma con nuove forze, a soluzioni più spazialmente implicate, dove il colore della vecchia ceramica italiana (una tradizione, assunta per via di persistenza tecnica, che vale come parallelo alle ricerche di Guttuso sul ‘carretto siciliano’) è immesso nella sintassi moderna con un impulso patetico che mi sembra genuino e che dimostra la fedeltà dell’artista alle prime aperture del suo animo.
Leoncillo stesso mi scriveva recentemente sulla Colomba che in essa ‘i piani tornano ad essere rotondi elegati l’uno all’altro, non più squadrati o accostati per continua contrapposizione; e questo perché la immagine mi si era formata prima internamente (com’era già avvenuto anni prima con l’Arpia e con il San Sebastiano) e poi si era tradotta in un altro oggetto con un suo colore, una sua plastica.
Questa scultura mi aperse un campo nuovo dove mi sto muovendo ora. Mi sento ora più libero per una scultura di racconto patetico, ecc.’.
Certo o incerto che sia, in alcune parti, questo discorso (perché è stata la critica dei dulcamara a inventare i piani rotondi e i piani ondulati che sono una contraddizione in termini), a me pare sicuro che, quanto a racconto patetico il Bomba rda
mento notturno detto anche Guernichetta per il ricordo, ma puramente tematico, dei celebre dipinto picassiano - ce ne offra un bel tratto e di una pietà intera che sa accollarsi e trascinare con sé la sua pena di spazio, di esistenza e di sciagura.
Non so se codesto sia realismo come lo si vuole intendere oggi; ma è certo che la comunicazione dell’artista con ‘una’ realtà di aspetti e di sentimenti vi è così immediata da rassicurarci che, in ogni caso, Leoncillo non rischierà mai di affogare nelle due dita d’acqua di quelle risaie (senza mondine) che prendono oggi il nome di ‘astrattismo”’.
La Sottocommissione delle Arti Figurative della XXVII Biennale, formata da Felice Casorati, presidente, Giuseppe Marchiori, Piero Leonardi, Giovanni Consolazione, Franco Gentilini, Marino Mazzacurati, Rodolfo Pallucchini, gli assegna il Premio- acquisto Paolo Matarazzo di San Paolo del Brasile di L. 350.000.
Faenza, luglio-settembre, Ex Convento di San Maglorio, XII Concorso Nazionale della ceramica.
La giuria di premiazione composta da Scipione Zanelli, Piero Pizzigati, Silvio Mantellini e Tito Testoni gli assegna il Premio Faenza per il grande pannello in maiolica policroma, di cm 92x1 05, I minatori.
Venezia, 7 settembre. Alla vigilia del decennale della Liberazione, l’Istituto per la Storia della Resistenza nelle Tre Venezie, volendo ricordare il contributo delle donne alla Resistenza, decide di far erigere un monumento a Venezia e, tramite una commissione di esperti composta da Giulio Carlo Argan, Sergio Bettini, Giuseppe Mazzariol e Bruno Zevi, gliene affida la realizzazione.
Vienna, settembre-ottobre, Internationales Trefen und Festwoche der Widerstandsbewegung, Ausstellung, Kunst und Widerstand- Malerei-Graphik-Plastik.
Roma, ottobre. Toti Scialoja scrive nel suo Giornale di pittura: “Litigio forsennato, urla per ore, ecc., ieri sera, fino a notte alta, a studio del pittore P. [iero] S. [adun]. Sono pazzi a farneticare ancora di ‘terza forza’ pittorica come resistenza all’esperienza astratta, anzi come fulminea assimilazione-superamento di essa (d’un colpo solo, uscendone illesi, incontaminati
- acrobati attraverso il cerchio di fuoco). C’erano lo scultore E. Leoncillo, il pittore A. [ntonio] S. [cordia], la pittrice C. Assurda, provinciale, ottenebrata posizione di difesa, di resistenza di fronte alla realtà dello spirito. Grottesco porsi ‘al di sopra’, giudicare la storia alla Brandi, decretare la fine dell’avanguardia e altre castronerie. Piccoli fantocci ai margini di ogni cosa viva. Nell’esperienza cosi detta astratta, ci si immerge, ci si vive, non se ne può esser giudici - dall’alto di quale tribunale? Lo spazio nuovo è la nostra stessa vita, la nostra realtà morale. ... .1 Quando gridavo :‘Burri è il più gran pittore italiano’ li ho fatti letteralmente impazzire. Volevano cavarmi gli occhi” (cfr. Giuseppe Appella, Vita, opere, fortuna critica, in Fabrizio D’Amico, a cura di, Toti Scialoja opere 1955-1963, catalogo della mostra, Galleria dello Scudo, Verona, Skira, Milano, pp. 153-154).
Messina, 23 novembre-8 dicembre, Palazzo Municipale, Mostra dei premiati alla XKVH Biennale.
Espone, come da elenco in catalogo:
30. Ritratto di Mary, 1953, ceramica colorata; 31. Natura morta con telefono, 1953, ceramica colorata; 32. Colomba, 1954, ceramica colorata.
Roma, dall’il dicembre. Galleria La Tartaruga, Birolli Consagra Corpora Fazzini Franchina Gentilini Guttuso Leonciio Ma-fai Pirandello Raphaiil Turcato.
Roma. Esce la monografia di Roberto Longhi per le edizioni De Luca.
Roma. Esegue il bassorilievo Arca di Noè per la Clinica Augusto Mendel.
“Qui Leoncillo torna a quello che è stato tradizionalmente il compito della scultura, racconto e decorazione, che egli del resto non ha mai abbandonato, per quanto è in lui dell’antico artigiano”. (cfr. Arca di Noè, in ((Domus», n. 292, Milano, marzo, p. 54).
1955
Roma, 6-31 maggio, Galleria d’Arte del Palazzo delle Esposizioni, I Mostra degli artisti di Roma e Provincia.
Espone con, tra gli altri, Accattino, Bartolini, Mirko, Dorazio, Gentilini, Guccione, Mafai, Melli, Pirandello, Scarpitta, Turcato.
Madrid, maggio-giugno, Palacio del Re-tiro, Exposicion de Arte Italiano contemporaneo.
La mostra viene organizzata per la BienalHispanoamericana de Arte.
Espone, come da elenco in catalogo:
Sezione “Escultura”: 13. Silla con abrigo y sombrero, 1949, ceràmica, cm 76x48x42, Propriedad del autor, Roma, ill.; 14. Retrato, 1951, ceràmica, cm 47x41x30, Propriedad del autor, Roma.
Mostra itinerante a: San Sebastian, Salas Municipales de Arte; Marsiglia, Musée Cantini.
In catalogo, un saggio di Palma Bucarelli.
Alessandria d’Egitto, 26 luglio-15 settembre, Musée des Beaux-Arts, Première Biennale des Pays Riverains de la Méditerranée.
Espone, come da elenco in catalogo:
13. Femme au soleil, potterie.
Partecipano all’esposizione, tra gli altri:
Luigi Bartolini, Mirko Basaldella, Carlo Carrà, Pericle Fazzini, Nino Franchina, Emilio Greco, Mino Maccari, Giovanni Omiccioli, Fausto Pirandello, Enrico Prampolini, Giulio Turcato.
In catalogo, un testo di Giacomo Etna.
Fine luglio. Spedisce a Venezia la grande statua dedicata alla Partigiana veneta. AI-l’interno dell’Istituto per la Storia della Resistenza nelle Tre Venezie, committente dell’opera, non convince il rosso
miglione con il quale era colorato il fazzoletto della Partigiana. Nòn essendo stata accolta la richiesta di un colore meno
Piatto con uccello - 1946
ceramica invetriata 
politicamente connotato, l’opera, il 20 ottobre, viene rispedita a Roma. Da questo momento, comincerà una lunga tra-fila prima di arrivare a quel colore bruno che sostituirà il rosso.
Albissola Marina, settembre, I Concorso Nazionale per un monumento ai caduti. Partecipa e vince il concorso bandito dal Comune per una scultura dedicata Ai caduti di tutte le guerre.
La commissione esaminatrice è composta da: Giulio Carlo Argan, Raffaele De Grada, Oscar Gallo, Mario Mafai, Marino Mazzacurati, Tullio Mazzotti ed Antonello Trombadori.
Le decorazioni in ceramica verranno eseguite nel 1956.
Scrive nel 1957, nel Piccolo diario:
“Ai mutamenti di linguaggio sono stato costretto sia dalla rivoluzione artistica avvenuta da noi nel dopoguerra, sia dall’usura continua a cui erano e sono sottoposti al di fuori di noi certi vocaboli che mutavano e mutano di senso sotto le nostre mani. Per questo non sono mai diventato ‘astratto’. Ma a poco a poco sono cadute intorno a me tutte le ragioni di figurazione. Mi sono trovato solo con la mia creta e i miei smalti e ancora con molte cose da esprimere. Voglio dire che non mi sono dovuto convincere di nulla, ‘credere a nulla’, o assumere nulla a mio nuovo ideale, ma solo faticosamente accorgermi di essere ciò che sono.
Credo che il momento preciso di questo passaggio sia avvenuto nel bassorilievo al monumento di Albissola. Avevo pensato al fregio dei Caduti come a un ‘quadro vivente’, ogni corpo con la sua posa diversa ‘composta’ con le altre. A poco a poco i fondi mi vennero avanti, i morti mi si affondarono fra i detriti, le oscurità, le fratture del terreno. Mi spiegai allora questo fatto come un approfondimento della ‘visione’. Infatti, nelle tante fotografie che abbiamo visto della guerra i morti non si stagliano con precisione ma si confondono con la terra e le cose circostanti, diventano fango, stracci essi stessi. Oggi posso accorgermi di un’altra cosa: la stecca si affondava nella creta creando lacerazioni mie, le mani con la creta creavano grumi dove la superficie rabbrividiva come pelle mia. Occhi, bocca si scavavano come buche di putrefazione perché ogni fossa è una bara aperta, una cosa vuota, oscura che diventava mia nel momento in cui la facevo. Ora posso accorgermi che quella presenza di squallore, di morte che può esserci nel bassorilievo si era verificata attraverso una mia identificazione e che quelle forme la esprimevano semplicemente per il significato analogico, metaforico dei gesti, dei graffi e delle lacerazioni che creavo sull’argilla. Che la morte l’avevo accolta e ridata, che in questo passaggio non c era più bisogno dell’oggetto primitivo.
Ero io a produrre la morte che sentivo in me
“Nel bozzetto è solo lo schema, ma già intenso e suggestivo, del semplice e solenne «concetto» del monumento, che avrà uno sviluppo architettonico orizzontale, lungo dodici metri e alto due e cinquanta e sarà eseguito nelle famose <(fabbriche>) di Albissola. Su una piattaforma di cemento armato rivestita di terracotta, poggia una forma geometrica di cemento scalpellato attorno al quale si svolge il fregio in ceramica, in due gruppi: l’uno, un bassorilievo in ceramica opaca, che raccoglie come in un mosaico di compianto i caduti in guerra, pietoso ma non macabro; l’altro, in ceramica, lucida, chiaro e svettante verso il mare, mostra i superstiti: una moglie, una madre, due bambini, accanto a un volo di colombe che si spiccano come una fresca piramide di speranza e di pace”. (cfr. E D. [Fortunato D’Arrigo], Leonciio formato monumento, in «Vie nuove», a. X, n. 26, Roma, 26 giugno, p. 18).
Roma, novembre 1955-aprile 1956, Palazzo delle Esposizioni, VII Quadriennale Nazionale dArte di Roma.
Espone,come da elenco in catalogo:
Sala 1: 7. La Partigiana veneta (replica dall’originale), ceramica.
Sezione scultura, sala 42: 19. Cane, ceramica; 20. Albero, ceramica.
Maurizio Calvesi lo introduce in catalogo:
“Le opere che Leoncillo presenta dimostrano che egli ha risolto quei problemi sintattici che lo occupavano da tempo, ed ha trovato una sua nuova via molto promettente. Egli ha superato il momento della costruzione analitica, della geometria cubista dell’oggetto, e tende a concretare in una costruzione più libera e istintiva, immagini direttamente evocate dalla sua fantasia.
Credo che per comprendere questo momento di Leoncillo sia ancora utile rifarsi alle opere del suo primo periodo, che è poi il tempo di alcuni autentici, non dimenticati, capolavori. Egli allora sfaldava la massa sciogliendo le superfici in una pasta sfatta di colore. Chiaramente, in quel momento, la sua dimensione, il suo mezzo espressivo era la superficie. Se oggi le sue costruzioni si adeguano ad una sintassi più attuale, non c’è dubbio che il suo valido istinto gli ha permesso di conservare, anzi di ribadire, in questa nuova visione, i valori fondamentali del suo mondo poetico. Creando spesso dei vuoti nella figura, Leoncillo elude la chiusura del volume e dei contorni, e risolve la sua costruzione in un’articolazione serrata di zone di colore, che occupano anche l’interno della figura.
Mentre, nelle sue opere più antiche, allo sviluppo continuo della superficie faceva riscontro un tonalismo descrittivo, una tessitura pittorica da seguire e gustare punto per punto lungo tutta l’estensione della scultura, questa nuova costruzione dell’immagine apre un’altra possibilità: quella dell’effetto d’insieme, della fusione complessiva dei colori. Questi rimandi continui di piani diversamente esposti, queste associazioni e contrasti di zone chiare e di zone scure consentono di raggiungere un effetto sintetico di luci, ombre e mezze ombre colorate.
È narrativamente viva, fresca, e quasi ingenua, l’idea di questa «Partigiana» che
sbuca tra gli arbusti, investita dal giuoco della luce che filtra a chiazze nella macchia. Ma il contenuto descrittivo è risolto nella felice trasposizione fantastica dei colori; i gialli risaltando sui verdi e intrecciandosi ai bianchi avvolgono dal basso in su la figura e trovano nel rosso del fazzoletto (un rosso così figurativamente «necessario») la loro più alta accensione. L’unità coloristica, ed espressiva, dell’immagine è raggiunta, e con essa l’unità generale dell’opera, appunto perché l’articolazione plastica è sempre pensata come orchestrazione pittorica.
Chi volesse analizzare la formazione di questa cultura in Leoncillo, potrebbe fare diversi nomi: e certo c e un attacco piuttosto evidente, anche se del tutto superato, con la scultura italiana di discendenza rossìana intorno al 1913. Forse non a caso l’incedere travolgente della «Partigiana» (e certa «continuità spaziale» dei piani che fanno da scia a questo incedere) suggeriscono un vago ricordo dei cammina-tori boccioniani; mentre i vuoti aperti nella figura hanno un respiro atmosferico e un intensità di sottintesi pittorici che riporta a Melli. Ma un Melli completamente trasformato dalle letture di Moore, e un Boccioni riformato sotto l’impressione dell’immediatezza costruttiva di Picasso.
Moore e Picasso, anzi, sembrano una scorciatoia infilata alla brava per congiungere la tradizione di Rosso, Melli e Boccioni ad un fatto di cultura attuale; quel che conta è che questo cammino conduce Leoncillo a puntare diritto dove il suo istinto lo guida, e cioè ad una costruzione libera, immediata, strettamente connessa con la funzione espressiva del colore. Il frastagliarsi del volume, e questo zig-zagare di piani nello spazio acquista allora un valore del tutto particolare: grazie a questa libertà costruttiva, il colore può penetrare nell’interno della figura, avvolgerla, spiegare in molteplici direzioni la sua vita urgente ed esplosiva.
Gallo - 1945/46
ceramica invetriata, cm 35x28x28
Con un tale ritmo espanso, con un così largo partito di luci, il «monumentale» (che tanto intimidisce gli scultori moderni) è raggiunto senza fatica, anzi con naturalezza. Come sovvertita dall’energia
dell’effetto coloristico è l’equivalenza figura-ambiente, che era perseguita da Rosso attraverso un giuoco sottilmente allusivo di superfici pittoriche: la figura prevale sull’ambiente, si associa ad esso, vi si espande, ma sottomettendolo. Diventa una nota più squillante, o almeno più magica; più sonora e direi più viva e inquietante, della vita che la circonda”
Antonello Trombadori recensisce l’esposizione:
“La Partigiana veneta che Leoncillo espone alla VII Quadriennale è stata infatti concepita per figurare all’aria aperta, non senza un esplicito intento decorativo e celebrativo, in un giardino di Venezia. Si tratta di un grande blocco di ceramica policroma nel quale, dentro l’impostazione cubista del disegno e dellagiustapposizione ancora troppo meccanica dei volumi, lo scultore ha voluto tuttavia riaccendere una grande fiammata espressiva e tentare persino la sintesi realistica del movimento fisico con l’idealizzazione d’un simbolo eroico. Si deve dire però che alla ispirazione iniziale Leoncillo non ha saputo tenere fede con la dovuta libertà. Il volto stupefatto, l’andamento scompigliato delle vesti, la struttura ferrigna degli arbusti, attraverso i quali la figura in-cedente si apre un varco, ben si compongono creando una conclusa unità strutturale ma, al tempo stesso, troppo occultano, per amor di «deformazione» e di astratto schema plastico, la verità emotiva. Questa rimane così eccessivamente af
fidata al colore: soluzione insufficiente trattandosi d’un tutto tondo. È un fatto però che quest’opera, più d’ogni altra tra le recenti di Leoncillo, anziché esaurirsi in una problematica formale fine a se stessa esprime con chiarezza un sentimento e la volontà dell’artista di dominarlo e dargli forma mediante un giudizio d’alta portata ideale”. (cfr. Antonello Trombadori, Espressionisti, in «Il Contemporaneo», a. Il, n. 50, Roma, 17 dicembre, p. 89).
Roma. Esegue le decorazioni per la balconata e lo schermo del Cinema Paris progettato dall’arch. F. Dinelli.
1956
Taranto, 29 febbraio. La commissione giudicatrice del Concorso Nazionale per il monumento a Paisieio, composta da Cesare Brandi, Raffaele Carrieri, Pericle Farzini, Ignazio Gardella, Virgilio Guzzi, Marco Valsecchi e Bruno Zevi, oltre al Sindaco di Taranto e a due rappresentanti di enti locali, emette il suo verdetto, scegliendo tra 64 concorrenti: 1. Nino Franchina (e architetto Ugo Sissa), 2. Leoncillo (e architetto Carlo Chiarini), 3. Agenore Fabbri (e architetto Carlo De Carli); rimborsi spese a Amerigo Tot (e architetti Sergio Bonamico, Franco e Guido Gigli, Dante Jannicelli), Raffaello Salimbeni (e architetto Leonardo Savioli), Aldo Calò (e architetti Italo Insolera e Mario ManieriElia), Pietro Consagra.
Brandi, anche a nome degli altri commissari, si prepara a ricevere i vincitori e ad inaugurare la mostra dei bozzetti con una conferenza sulla scultura contemporanea. Ma, trapelato il nome dei vincitori, succede il putiferio. L’irritazione dei concorrenti bocciati, il provincialismo di alcuni membri del comitato promotore, l’ostilità verso l’astrattismo particolarmente viva da parte dell’amministrazione comunale, fanno lega: con la scusa di irregolarità nella consegna dei progetti, si annulla e si elimina la mostra. Brandi, indignato, rifiuta di tenere la conferenza e lascia Taranto.
Inutile dire delle polemiche sorte. Unica voce discorde, tra i tanti che prendono una posizione decisa a favore del risultato del concorso, quella di Antonello Trombadori su “Il Contemporaneo”.
“La scelta tra Franchina e Leoncillo non riguardava un confronto di valori poetici, del tutto impossibile. Molti membri della giuria apprezzavano più Leoncillo, ma il problema era anzitutto di soluzione urbanistica. L’area destinata al monumento è infelicissima: un’aiuola di Piazza Castello, tra il palazzo del Municipio e il ponte girevole, di fronte al Castello Aragonese. [...] L’aver compreso l’inutilità di entrare a colloquio con un ambiente che figurativamente non esisteva, e la necessità di inserirvi un oggetto autonomo e luminoso costituisce il merito principale di Nino Franchina”. (cfr. Bruno Zevi, Un fuso per Paisiello, in «LEspresso», a. Il, n. 11, Roma, 11 marzo 1956).
“Il progetto di Leoncillo è l’antitesi di quello di Franchina. Prevede una fontana con una fascia in ceramica smaltata raffigurante Paisiello seduto alla spinetta tra i personaggi delle sue opere; in primo piano, un trofeo anch’esso in ceramica che rappresenta i vari strumenti musicali. La maestria di Leoncillo è fuori discussione: egli è uno degli artisti italiani contemporanei più significativi sia che lo si interpreti nell’ambito di una inclinazione post-espressionistica, sia che si individui nella tecnica della sua brillante tavolozza cromatica un’ulteriore fase della ricerca cubistica” (cfr. Concorso nazionale
per il monumento a Paisiello a Taranto, in «l’Architettura», a. Il, n. 10, Roma, agosto 1956, p. 259).
Bologna, 6 maggio - 10 giugno. Salone del Podestà, Mostra delle Artifigurative sui temi della resistenza.
Espone, come da elenco in catalogo: 100. Bozzetto della Partigiana Veneta, fuori concorso; 117. Il caduto, fuori concorso.
Sono presenti, nella mostra, tra gli altri:
Renato Guttuso, Giovanni Omiccioli, Armando Pizzinato, Alberto Ziveri.
Donna che ride - 1946
terracotta policroma invetriata, cm 35x28x28
L’esposizione è realizzata dall’Associazione Nazionale tra i Comuni decorati al va-br militare.
Novembre. Scrive un articolo per il n. 13 de «Larchitettura», sul tema Uno scultore giudica l’architettura:
“Sull’architettura antica - Diversamente da molti altri che l’hanno scoperta più tardi, fin da ragazzo ho sentito la suggestionedell’architettura: un rapporto che è restato poetico, personale, non critico. Sono nato a Spoleto e ho vissuto a Perugia fino a 20 anni. La mia formazione intellettuale e emotiva è legata alla scena dell’architettura romantica e gotica come ai boschi che circondano la città. E come nei boschi alla suggestione delle strutture degli alberi si unisce quella della materia delle foglie e delle cortecce, così ho sulla mano il ricordo delle pietre tarlate e patinate dai secoli. Più tardi, a Roma, ho imparato a «vedere>) l’architettura; ma capire è stato come un approfondimento dei sentimenti. Tanto è vero che per anni Borromini ha costituito per me una specie di esaltazione e andavo a vedere le sue chiese di notte con le strade deserte. Un amore unito a una profonda ignoranza di nomi e date, studiati ma dimenticati in modo perfetto.
Sull’architettura moderna - Mi apparve come una liberazione dalla grettezza, dalla meschinità delle costruzioni piccolo-borghesi e dalla presunzione di quelle monumentali. Più tardi ho scoperto i suoi materiali, quando la battaglia, vinti i nemici esterni, si spostò all’interno stesso del movimento moderno. Di questa architettura mi dispiace spesso il senso di irrealtà determinato dalla sua origine sul foglio disegnato, il formalismo delle soluzioni volgarizzate, la tristezza delle rifiniture che sanno d’orpello. Come dire: le sue origini intellettualistiche e il commercialismo che spesso l’inquina.
Scultura e architettura - Il discorso può avere senso solo se collocato sul terreno storico. Teoricamente, non c’è nulla di più naturale della collaborazione tra artisti e architetti che respirano la stessa cultura. Ma, sul piano concreto, quale distanza tra un’architettura cresciuta su un’estetica funzionale e un’arte figurativa la cui linea di sviluppo si è maturata su esigenze del tutto particolari! Il problema c e e non va sottovalutato. Ma, a voler essere ottimisti, quale momento è più favorevole di questo per tentare un incontro tra le arti figurative e un’architettura che si articola oggi su una dimensione di realtà più ampia di quella funzionale?”. (cfr. Leoncillo Leonardi, Uno scultore giudica l’architettura, in «Larchitettura», a. IL, n. 13, Milano, novembre 1956, p. 532).
Roma, 23 dicembre 1956-13 gennaio 1957, Vigna Clara, Il mostra d’arte contemporanea nell’abitazione e nell’architettura moderna.
Espone nell’edificio D, piano terra, sala XV, nella sezione “mostra d’arte”.
Partecipano all’esposizione, tra gli altri:
Mirko Basaldella, Alberto Burri, Corrado Cagli, Massimo Campigli, Giuseppe Capogrossi, Roberto Crippa, Nino Franchina, Emilio Greco, Virgilio Guzzi, Bice Lazzari, Mino Maccari, Mario Mafai, Luigi Montanarini, Giovanni Omiccioli, Achille Perilli, Domenico Purificato, Mimmo Rotella, Giuseppe Santomaso, Salvatore Scarpitta, Giulio Turcato.
1957
Roma, 1 gennaio. Insieme al professor Natalino Sapegno, al professor Vezio Crisafulli, al critico letterario Gaetano Trombatore, all’architetto Claudio Longo ed al pittore Domenico Purificato, invia una lettera di dimissione al Comitato centrale del P.C.I. a causa dell’espulsione dal partito del senatore Eugenio Reale, avvenuta con il beneplacito di Palmiro gliatti e Mauro Scoccimarro. “<(Le nostre dimissioni - ha dichiarato prof. Crisafulli - debbono essere attribuite alla continua politica di acquiescenza al regime sovietico seguita negli ultimi tempi dal comunismo italiano»”. (cfr. Marco Guidi, Sei intellettuali comunisti si sono dimessi dal 2CL, in «La Provincia», Cremona, 2 gennaio 1957).
Annota nel Piccolo diario:
“Sono stato tutta la notte senza poter entrare nel sonno per mille pene confuse; con la luce la coscienza s’è fatta più desta e con essa preciso il pensiero che presto sarei dovuto scendere giù a studio a lavorare. Ma quale lavoro? Ogni mia idea si scoloriva per l’indecisione, ogni soggetto che già avevo in mente o qualunque nuovo ne pensassi, non si identificava con quella dolorosa presenza di me stesso che mi aveva accompagnato tutta la notte.
Insieme all’incerto avvenire tutto il passato mi era stato presente, ma non come memoria dei fatti, ma come formazione, stratificazione del mio presente, l’anima come pelle, una corteccia dolorosa segnata da lacerazioni, cicatrici. L’unica cosa per liberarmi di questa coscienza opprimente era ‘fare’. Ma che fare? E nella profonda delusione di ogni soggetto preordinato che potesse esprimermi, questo peso mi gravava addosso e sempre mi urgeva questa necessità di fare, di fare, di fare qualche cosa, di alzarmi dal letto, di fare. All’improvviso io mi sentii come un vecchio ragno la necessità di fare una tela, traendo dal di dentro di me stesso questa saliva mia, fatta del mio corpo presente, esaurendomi in questo atto sicuro, sicuro come gli atti elementari della vita.
Sì, fare la propria tela con la saliva dolce e amara di ogni giorno, senza voler niente che essere in essa, senza idee giuste o ingiuste, senza ricordi, cultura,prospettive. Segnare in essa l’amore e lo sdegno, l’angoscia e la speranza come esse li segnano ogni giorno nelle rughe della nostra carne
Roma, 23 febbraio-21 marzo, La Salita, Venti Nomi.
Per l’inaugurazione della Galleria di Gian Tommaso Liverani, partecipa alla mostra insieme ad Ajmone, Birolli, Breddo, Carmassi, Cassinari, Chighine, Consagra, Corpora, Dova, Franchina, Maselli, Mirko, Morlotti, Raspi, Romiti, Sadun, Saroni, Scordia, Vacchi, presentati in catalogo da Valentino Martinelli.
La mostra viene realizzata da un’idea di Lionello Venturi.
Roma, dal 4 marzo, La Tartaruga, Leoncillo.
Espone, come da elenco in catalogo:
1. Rovine, 1954; 2. Albero, 1955; 3. Arbusti, 1956; 4. Alberello, 1957; 5. Sempreverde, 1956; 6. Fiori, 1956; 7. Rose, 1956; 8. Cardi controluce, 1956; 9. Case aProcida, 1956; 10.Foglie, 1956; 11. Cespuglio, 1957; 12. Ct~ressi all’alba, 1957; 13. Tralcio, 1957; 14. Piatto, 1957; 15. Piatto ovale, 1957; 16. Piatto,1957.
Scrive nell’autopresentazione:
“È difficile scriversi una presentazione, che se non diventa una bravura dove dimostrarsi tanto bravi come i critici, che èse non una confessione? E una confessione penso si possa farla a tutti, meno che ai colleghi e a chi viene a vedere le mostre, gente che notoriamente non si lascia agitare troppo, e io poi in fondo non voglio agitare nessuno.
Però bisogna che dica qualche cosa perché c’è proprio da dire quanto a questo. E per prima cosa vorrei parlar male delle «idee». Sono in un momento di rancore sordo per le «idee»; sì, per queste cose che ci appiccichiamo addosso per sentirci più bravi, per vivere meglio.
Una gran frase di Turcato una sera da Menghi fu questa: «Abbiamo finito ormai di fare i masochisti, con l’età abbiamo imparato a diventare sadici». E se a tanto ancora non ce l’ho fatta, la frase mi piace assai per via delle idee che mi ero messo addosso per soffrirci dentro.
E oggi sono ridotto a mettere e a togliere creta perché così «mi piace di più» e ad aggiungere ossidi di cobalto e di zinco solo perché così i colori «mi piacciono di più». Per le «idee» ho dipinto le terrecotte con gli smalti del colorificio Romer tutti belli lucidi come cellulosa per usare
un mezzo standard, per le «idee» volevo avere un linguaggio plastico buono per tutti e affidare alla scultura la funzione dell’antico.
E invece siamo tutti qui, dopo le tempeste che abbiamo corso, a rialmanaccare un discorso ancora dal principio in mezzo ad un mondo che come noi ha molti
problemi, ma che non gliene importa niente dei nostri, dove non c’è niente di fisso per costruirci su, e la cosa migliore è sillabare qualche poca cosa sicura e trovare qualcuno che gli avanzano i soldi e te la compra; quando questo si trova.
A dir la verità, non è che, tolte le idee, mi trovo un gran che addosso, non vorrei darla a bere a nessuno quanto a questo, e inspecie a me stesso; ma certo, pagati i debiti e vista partirsene quasi tutta la casa, un certo conforto si trova in questa terribile povertà, quello delle poche cose certe sulle quali ti accorgi che puoi ancora lavorare: la realtà del mondo visibile, la sua capacità di diventare immagine dentro di noi, la forma che debbo inventare per renderla più uguale possibile a quella immagine.
Ho detto di realtà visibile e di forma inventata. Che da anni io abbia tentato una terza via l’hanno detto, ma casomai potevo trovarla quando mi fossi disperato di essa e convinto che non c’è terza via, ma cento vie, mille vie. Perché se si pensa ad una terza via si tengono troppo d’occhio le altre due, e invece per trovarsi un’altra strada gli occhi bisogna chiuderli del tutto, o aprirli troppo, che per me è veramente troppo difficile.
E allora chiudere gli occhi sulle strade già cominciate e sulle mille altre possibili per cercare quella vera, senza la quale «tutto è inutile», sento che non potrei mai modellare una musica, o un concetto per straordinario che fosse, e specialmente una pura forma stilistica per ottenere una perfezione. Quanto bisogna essere tranquilli per accontentarsi di una perfezione! Ma è solo dopo aver visto qualche cosa, magari tanti anni fa, che sento il bisogno di parlare: la pelle lucida e umida di un albero giovane dove poi ci sono tutti buchi scuri, o il nero che sta dietro la casa e che viene invece davanti dopo aver girato dappertutto, o una figura che la luce gli distrugge tutto il volto ed ha delle ombre sottili che gli scorrono addosso come rigagnoli. Tutte queste cose le capisco bene.
E quando ho visto questo, l’immagine viene dentro e prende la faccia di tutti quei sentimenti esaltati che ci agitano sempre, e prendono il senso della gioia esultante che vorremmo, o della nostra tenerezza ferita o dello scuro e fermo riposo ove vorremmo avere pace. E ora si tratta di trovare una forma uguale a questa immagine, una forma, un colore, una materia.
La materia oggi è per me molto importante, perché bene o male un volume cromatico io avevo trovato per la miascultura ed ora questa identità la voglio anche per la materia. Questo problema della materia urgeva già da qualche anno, ma non potevo risolverlo finchè non avessi rovesciato una delle ((idee» di cui ho parlato prima; che ci dovesse essere per tutti un linguaggio convenzionale per dire delle cose, colore e volume estranei ad una qualsiasi naturalità, astratti come un alfabeto, ad analizzare il vero per trasferirlo con il suo spazio nell’opera.
Invece ora è quasi il rovescio; non una realtà descritta e ricondotta a stile, ma forma colore materia a dare direttamente l’emozione, il sentimento della natura, a ((volerla imitare» per essere un’altra natura come essa: foglie giovani, lucide che luccicano come un albero di Natale, un tronco opaco bianco che prende la luce e se la ferma addosso, scuri che non sono neri, ma colorati, così profondi che non si vede dove finiscono.
Per questo ora ho fatto foglie, cespugli e fiori, perché così mi è parso più facile ((vedere» di nuovo le cose. Dopo ne farò altre meno naturali, quelle che mi premono di più: perché noi non siamo naturali”.
La mostra viene recensita da Cesare Brandi:
“Non più il colore come colore locale, intensificazione locale di un volume, descrittivo e rappresentativo insieme, sempre alcun poco soprammesso alla plastica, ma un colore prelevato in uno con l’oggetto nella sua situazione spaziale e luminosa, con le sue ombre cromatiche, le variazioni d’incidenza della luce. Da quel momento si disfaceva la elementarità di certe soluzioni cubistiche, si disfaceva perdendo il peso specifico della materia, lo spigolo del volume, e acquistando l’aspetto sfuggente e istantaneo dell’oggetto visto con la coda dell’occhio,
eppure fermato in un’immagine indimenticabile. Da essere scultura in colori la scultura di Leoncillo si avvia a divenire colore in scultura, e dunque ad appropriarsi del colore in una materia altrettanto autoritaria e inscindibile della pittura.
In tale direzione assumono un significato ancor più preciso queste sculture di alberi, fiori, piante: appunto la strada secondaria, il viottolo di campagna della scultura.
È chiaro, ora, come la natura a cui volge Leoncillo, non sia quella degli erbari: né gli spettacoli naturali edonisticamente intesi, anche se un piatto - bello come una porcellana cinese - si intitola Rosso di sera, e nulla vi si legge se non gli smalti stupendi. È, in uno con la natura, l’attimo vitale dell’artista, il congiungimento segreto del mondo esterno con l’ansia, la speranza, l’angoscia: non l’esterno che si interiorizza ma l’interiorità che si investe e trasforma: è ancor più calzante dire che tutto allora diviene plastico come creta. Così l’emozione arriva a comporsi su cime molto diverse da quelle da cui partiva, e io dubito che qualcuno riconosca dei cipressi nelle sculture che portano quel nome. Ma non potrà non riconoscere lo splendore che assumono, di materia preziosa in cui si congiunge colore e luce. Questa materia non diviene allora lo sbocco quasi artigiano e quasi naturale di una scultura che era nata con ben altre intenzioni: ma proprio nel coagularsi di luce e d’ombra, di colore e d’aria, come si coagula la goccia d’ambra in un solo vetrino e trasparente, c’è il transito stesso della natura alla forma. La materia che ne risulta, non è quello che appare, e si mostra in quel che non è.
Le forme degli oggetti stentano a definirsi come si ricomponessero sorgendo dal caos: e come la natura a cui accennano vagamente vuole essere un modo nuovo e autentico di ritrovarsi nella propria intima natura, così l’emozione che rivelano, è un modo nuovo e autentico di riconoscersi nella riconquistata libertà umana”. (cfr. Cesare Brandi, Guttuso e Leoncullo, in «Il Punto», a. Il, n. 10, Roma, 9 marzo 1957, p. 20).
Virgilio Guzzi:
“Un ceramista d’eccezione. Di rado biam veduto smalti, lucentezze, profi dità di timbri come in queste opere Leoncillo. I colori sono oggi così splei denti che si pensa a una specie di nuo’ plein-air. Il cielo azzurro si precipita. na dentro queste forme (le quali peralt rimangono sbozzate; qualcosa che sta mezzo tra l’impressionismo, Ìnismo e i ricordi dell’avventura cubista). E vediamo perfino dei Cardi in controluce: dove la scura in nervatura è la forma, il bianco attorno è la luce. Che si vuole di più? Dobbiamo dire che l’artista è in ottima fase; egli arriva - avendo inteso la necessità di controllare la scala cromatica
- alla squisitezza delle Rose; alla eleganza suprema di quel Piatto rosso, dove il colore del sangue si fa lucida gemma. E se vogliamo esser sinceri fino in fondo, diremo che nelle piccole misure meglio si realizza la virtù dell’artista. Il quale ha pure in passato seguito la musa monumentale: ma non ci ha così persuasi e commossi”. (cfr. Virgilio Guzzi, Le mostre, in «Il Tempo», Roma, 12 marzo 1957).
Dario Micacchi:
“Se avessimo voluto dire noi tutto il male possibile di Leoncillo, non ci saremmo mai riusciti così bene come lo scultore stessoha fatto scrivendo la presentazione per la sua mostra di ceramiche alla romana Tartaruga. Questa autopresentazione, mentre getta una luce equivoca e deformante sul suo attuale lavoro, è allo stesso tempo un documento umano che deve invitare alla riflessione sulla condizione di solitudine dell’artista moderno nella società nostra. Che la scultura dalle piazze, dalle strade e dagli edifici pubblici sia finita nei salotti può solo rendere ottimisti quegli ((scultori» la cui suprema ambizione ideale è di sistemare il loro attaccapanni o il loro portacenere in qualche salotto importante. Leoncillo non è scultore da portacenere e deve attraversare una crisi gravissima, se, proprio lui che ha fatto una scultura di idee, denuncia tanto accoratamente di essere in ..... un momento di rancore sordo per le “idee”..
[...] Eccoci così davanti a frammenti di natura: un Albero, un Alberello, dei Car
di, delle Foglie, un Tralcio, degli Arbusti, dei Cipressi all ~ilba, frammenti d’una natura domestica, appena fuori dalla porta dello studio. Ma, siamo felici di dover contraddire Leoncillo, egli non si è liberato delle idee ma più semplicemente ha idee diverse. Questa natura di Leoncillo non è solo bellezza e novità di smalti o scienza di cottura; perché gli alberi si torcono con un tormento che è solo dell’uomo, cardi e arbusti si levano stecchiti nel sole con una disperazione che è solo dell’uomo, e fra i rami dei cipressi la notte trapassa in una livida alba solo come può sentirla e vederla un uomo tormentato.
Se lo scultore vuol buttare a mare questi lunghi anni di lavoro, anni di idee, dovrà non solo riproporsi il problema del linguaggio, del come dire, ma anche di cosa dire. La prospettiva attuale di Leoncillo sembra quella di un naturalismo impressionista che ha tutta la malinconia di quel mondo crepuscolare che in questi tempi sta dando tanta immeritata fama al pittore Morlotti. Ciò che per Morlotti pittore rappresentano i quadri delle Nimphéas di Monet, per Leoncillo scultore rappresentano le cere più consunte nell’atmosfera e nella luce di Medardo Rosso: nell’uno e nell’altro c’è l’illusione di poter guardare alla natura con il solo occhio, come se questo non fosse strumento della mente. Non vogliamo porre ipoteche sulla fantasia di nessun artista, ma ci preme dire, per restare al discorso di Leoncillo, che nessuna preziosità di materia o bellezza di smalti fine a se stessa potrà mai sostituire un’idea. Le croste, le patine, le preziosità di materia sono quanto di più caduco c’è in un’opera”. (cfr. D. M. [Dario Micacchi], Le mostre d’arte. Leoncillo alla Tartaruga, in «l’Unità», Roma, 15 marzo 1957).
Attilio Bertolucci:
“Nei Cardi contro luce e nelle Rose egli ha raggiunto una tale perfezione da richiamare i nomi dei più certi maestri del nostro secolo, da Braque a Morandi. Ci accorgiamo di citare troppo spesso il pittore bolognese, in queste nostre cronache, ma che ci possiamo fare se tutti gli artisti italiani (vedete, anche gli scultori) a
lui arcana mente si riconducono via via che superano la fase sperimentale e toccano la compiutezza? Come fosse un Petrarca del linguaggio figurativo del nostro tempo, rifiorente sempre con freschezza e novità in chi meno lo ha seguito da vi-
cino, come appunto il nostro caro Leoncillo, che ringraziamo d’averci fatto sentire a via del Babuino, quando meno ce l’aspettavamo, carichi e inebrianti, tutti i profumi della terra”. (cfr. Attilio Bertolucci, Mostre romane. Sculture di Leoncillo, in ((La Fiera Letteraria», a. XII, n. 11, Roma, 17 marzo, p. 7).
Antonio Del Guercio:
“Assai sintomatica, l’ultima vicenda dello scultore. Essa non è priva di agganci con quella poetica ultimo-naturalistica che caratterizza un cospicuo settore di artisti operanti, per dirla con Arcangeli, nella provincia del nord: questi Cardi controluce, queste Rose, questi Cz~ressi all’alba sono in qualche modo degli equivalenti, in terra romana, della disperata intenzione di ritrovare un’emozione autentica attraverso un indistinto abbraccio con Madre Terra, dopo il naufragio - appunto - delle idee, della cultura, della ragione. Ma vi fu questo naufragio? È veramente, la condizione dell’uomo moderno, dominata da questa tragedia? O non piuttosto da altre tragedie, alla cui origine stanno mistificazioni della ragione umanistica, cedimenti di questa di fronte a tutto ciò che è primordio, non-ragione, mito? Oggi Leoncillo oppone mito a mito: perché èmitico questo viscerale viaggio di ritorno verso la confusione con la natura, abolendo con un atto che è anacronistico e velleitario (e quindi impossibile, contraddetto dalla stessa erudizione di cui sono cariche le forme di queste opere), abolendo, credendo di abolire, il ricordo dell’umano percorso dalla dipendenza dalla natura alla partecipazione e al dominio. E poi, mentre ancora non ha svolto la sua parabola il mito di questo momento, già s’affaccia il mito di domani: l’annuncio, nelle parole e nelle opere, di voler essere, domani, menonaturale. E poiché meno naturale non sembra voler dire più ideale, resta, pronta ad uscir dall’ombra, l’alternativa di domani: quale sarà? Anno zero della ragione e anno 1957 della moda formalistica, stanno ben lontano l’uno dall’altro nella patria segreta dei buoni sentimenti e delle buone volontà. Ma nella realtà, nelle possibilità effettive, temiamo sia diverso. Certo, restano le risorse, imprevedibili, dell’artista, del suo talento: su quelle bisogna contare; e, dandogli atto dell’autenticità umana del suo travaglio, confidare nella sua ragione nel suo bisogno - egli che ha oggi tutti i doveri della maturità - di costruire durevolmente (cfr. Antonio Del Guercio, L’anno zero, in ((Il Contemporaneo», Roma, 31 marzo 1957).
Monaco di Baviera, 7 giugno-15 settembre, Haus der Kunst, Esposizione dArte Italiana dal 1910 al 1957.
Espone: 105. Ritratto di Titina, ceramica. Coll. Luigi De Luca, ill.; 106. Donna che si spoglia, ceramica, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma; 107. Sedia, cappotto e cappello, ceramica.
Luglio. Annota nel Piccolo diario:
“Se è vero che la figurazione non serve più né a noi né agli altri allora buttiamolo via questo surrogato della ‘forma’. Non ho proprio nessuna voglia di inchinarmi a questo dio. Se debbo essere solo non sostituirò la calda immagine con questa presenza ostile. Questo colloquio con me stesso con leggi estranee.
E allora quello che voglio, che debbo fare nascerà come un nuovo oggetto naturale, come una pianta che fa le foglie. Foglie che se non le ‘sapessimo già’ sarebbero di forma imprevista. Un nuovo oggetto naturale profondamente vero della nostra naturalezza, come una pietra che è della terra, come la foglia dell’albero, come questa mano che è la mia.
Un nuovo oggetto naturale che divenga con stratificazioni, solchi, strappi che sono quelli del nostro essere, che esca come il nostro respiro. Non più colore quindi; il colore è astratto artificiale, mentale, ma materia che ha un colore che diciamo dopo: la materia è fatta da una storia, il colore è ‘sempre’.
Non più volume; ma materia che ha un volume. Il volume di un albero è fatto delle sue foglie cresciute, lo riconosciamo dopo.
E la creta diviene materia ‘nostra’ per gli atti che compiamo su essa e con essa, atti che nascono da una reazione del nostro essere, che crescono dalla furia, dalla dol
cezza, dalla disperazione motivati dal nostro essere vivi, da quello che sentiamo e vediamo.
Se prendo un pezzo di una mia vecchia ceramica e ne guardo la frattura, vedo una zona di terracotta e poi il velo dello
La copertina del catalogo Handicraft as a fine art in Italy
smalto colorato.
È qui il segno dei ‘due’ momenti in cui esso è diviso. Due momenti distinti inconciliabili che non coincidono con la storia reale dei miei sentimenti, delle mie emozioni. Debbo ancora spingermi avanti nel profondo mutamento tecnico già iniziato. Aumentare la pratica delle crete colorate e degli engobes in modo da aver ‘sempre’ davanti agli occhi un impianto plastico-cromatico, ossia una realtà senza riferimento, abolire così ogni modo intellettuale di modellare pensando a un colore, di dipingere integrando il volume del ‘suo’ colore. In questo caso la frattura della terracotta darà con le sue visibili stratificazioni la storia vera della creazione della scultura come nella frattura di una conchiglia è visibile il modo vero della sua creazione, o nel taglio di un albero o per esempio in una frana che rivela la costituzione del terreno. È per stratificazioni che noi siamo ed è per successive intuizioni, pentimenti, nuove decisioni che si giunge a compiere un lavoro. Che non è l’esecuzione di un’idea, ma che è un’idea.
Che cosa può essere uno smalto per me ora? Non un colore a fingere quello della creta sotto per una realtà, faccia o forma, ‘estranea’, ma solo una materia da sovrapporsi alla prima, un sottile strato di materia sopra un’altra; la sottile corteccia lucida di un arbusto, l’ultimo strato di una conchiglia, il tappeto verde dell’erba sopra la terra bruna.
Aggiungere, togliere, quindi lacerazioni nella creta ed escrescenze, soltanto questo m’è restato della scultura di un tempo. Ma allora queste forme venivano indirettamente mentre perseguivo un’altra cosa, modi per fare un’altra cosa; ora sono soli ad esprimermi.
Più chiarezza ora, affidata ad essi ogni cosa da dire. E che ho infatti da dire se non
questo? Il tempo che passa, che consuma e che distrugge e le nuove cose che si aggiungono alle vecchie. Nuovi sentimenti, nuove idee e questa presenza inafferrabile se non in un attimo, fatta di nuovo e di vecchio?
E tutto questo con una certa violenza, come le emozioni che ho, che mai sento normale ogni cosa che accade. Ogni cosa che perdo è per me molto dolorosa e ogni cosa nuova si impone sempre mio malgrado dopo una lunga lotta una lunga difesa. Aspra e cattiva vita.
Mi accorgo che il mio modo elementare di fare la scultura è quello di togliere e aggiungere. In questomodo faccio la scultura, così il suo iniziare, divenire e finire si svolge, e con questi atti crea ‘il suo proprio tempo’. Ma questo modo non è certo nato da un tema intellettuale, da una ricerca del ‘come si deve fare la scultura’ da un ‘giusto’ al di fuori di me, ma da una necessità espressiva che in me ha radici profonde.
È simile al mio dubbio continuo, cancellare e proferire nuove frasi nel dibattito continuo che rimugino, fino a mettere a fuoco ciò che penso giusto, il ‘momento di questa mia pena acuta. Inoltre risponde a come vedo le cose intorno e la loro storia, questo eterno togliere e aggiungere, alienare e creare, scoprire ciò che era sepolto e nascere nuovo; questo senso della sedimentazione, questo attualissimo modo di vedere il presente.
Una scultura non la penso già finita, farla non diventa una esecuzione. C’è all’inizio soltanto il senso di ciò che dovrà essere, quello che dovrà esprimere. È nella agitazione della creta che si aggiunge, che cresce nell’aria, nella sua interna dinamica che essa cerca di definirsi, di ritrovarsi.
A volte la scultura riesce ad essere, qualche volta no o delle parti soltanto. Resta allora informe, sconvolta, una emozione che non si è conclusa in una idea (immagine).
L’impulso di prendere uno stecco e con esso di tagliare violentemente la creta, quello di agitare dolcemente col palmo della mano la sua superficie per farla palpitare alla luce o, con esso, di spianarla in una scabra ed arida distesa. Questi impulsi nascono da sentimenti profondi, mi accompagnano sotto la mia coscienza d’ogni giorno, riaffiorano a tratti nitidi. Steso sul letto una nuova immagine prende corpo; ma essa è una successione di atti come quando presi fortemente da un avvenimento immaginiamo con la fantasia ciò che faremo. Una successione di atti che crea una forma ‘la migliore possibile’ per esprimere il senso di quel sentimento che ci possiede, ma una forma che si organizza su quegli stessi atti, sulla loro successione.
È il sentimento che prende immagine, solo che nasce da se stesso non da un ‘oggetto rispecchiato’ né da una struttura mentale, ma da una matrice organica dove è segnata la nostra storia, quello che abbiamo visto, quello che sappiamo che siamo. Niente di casuale, di improvviso, anzi le cose più vere più mie. Tagliare la creta col filo è realizzare un atto decisivo crudele e liberatore. La creta è come carne mia, un processo di identificazione assoluto (le cui premesse espressive le so ad una ad una, come la scelta di una superficie screpolata accanto ad una lucida sono le mie coesistenze di ogni giorno).
Perché parlare di automatismo, di arte senza forma? In fondo la forma può essere anche prevista, l’importante è che nasca da un fare, che non sia autonoma da esso. Perché non c’è realtà al di fuori di noi, al di fuori dell’impulso che nato da essa ci spinge via via a crearla a distruggerla a ricrearla di nuovo, e quindi non può essere vera la proposizione di una forma disincarnata ed ideale ad indicarci una verità esterna a noi, ma il segno del nostro cammino alla verità, la sua ricerca, la verità stessa appena percepita, inscindibile tra quei segni stessi da cui non può essere divisa.
Che cosa voglio dire? O meglio, quale il mio modo di parlare e come spontaneamente si sviluppa il mio discorso interiore? Una organicità di materia che risponda ai miei sentimenti più veri, quelli che provo ‘continuamente’, ‘sempre’, che mi sono radicati dentro. L’organicità di ciò che cresce ed è vivo, che palpita crescendo, di ciò che è spento e si accumula come scoria morta e su questo abrasioni, ferite inferte da ciò che taglia, che ferisce, che solca.
Creta, creta mia, materia mia artificiale ma carica per metafora di tutto ciò che ho visto, amato, di ciò a cui sono stato vicino, creta carica per metafora delle cose che ho dentro, con cui in fondo mi sono, volta per volta, identificato.
Organicità che nasce dalla materia che tratto con le mie mani, morbida, dura, aspra, sensibile, dai gesti che con essa e su essa compio, lungo il filo di un ricordo presente, di una identificazione lontana sepolta e tuttavia vicina.
Perché si parla di materia? Un volume è una cosa che si può pensare di eseguire, anzi che può esistere nella mente indipendentemente dal suo costituirsi. Così è un colore. ‘Un colore rosso’ è un’idea: ma lo zolfo è giallo e un tronco d’albero è cilindrico. Prima una cosa è, poi può essere concettualizzata.
Così in parte una espressione che nasca da una necessità interna e per questo medita e per questo inconscia porta a un ‘fare’ che solo ‘dopo’ può dar luogo a una definizione di volume di spazio di colore. Quindi prima di tutto esiste la materia. Una ricerca di totale verità si esprime in una identificazione espressiva con il fare, nel suo immediato risultato che è la materia che porta in sé i risultati i significati, la storia dell’espressione. Che significa quindi dire: è solo materia? Per dire la parzialità, il limite di unaespressione? Non so in seguito ciò che avverrà, ma adesso la cosa più urgente è recuperare questa verità prima.
Le opere non dovrebbero fra loro distinguersi per immagine (dando a l’immagine il vecchio senso di cosa che viene rispecchiata’) ma appartenere alla stessa matrice chiaramente. (Se l’opera nasce come prodotto interiore).
Una per esempio è piena e l’altra è bucara, ma quella piena ha solchi che an
approfonditi condurrebbero a dei buchi. Perché un artista ha un modo di fare e le opere sono espressione di questo operare, varianti di questo, e in ognuna si riscontra la matrice anche nelle infinite varietà e possibilità. Come in un albero ogni foglia è diversa dall’altra, ma sono tutte uguali; come un frammento di roccia è diverso da un altro, varia di disegno di volume o di grandezza, ma è/atto organicamente allo stesso modo.
Il continuum è un’idea, è una proposizione astratta. Che si risolve in un uguale artigianesco. Siamo uomini, ogni giorno è disuguale da un altro, lascia una memoria diversa e un significato diverso. Ma come ogni giorno diverso da un altro è uguale all’altro così le sculture debbono avere la stessa uguaglianza organica.
Voglio l’immagine, cerco l’immagine. Questa parola mi ricorre sempre in mente, come un nome amato. Eppure tante mie idee di oggi sembrano contraddirla, il metodo stesso del mio lavoro, questo mio voler escludere nell’opera da realizzare una cosa già ideata il voler registrare il percorso del sentimento. Ma che cosa è immagine? Un uomo un paesaggio uno strumento? Un sasso può essere immagine? Un frammento può diventare immagine? Si dà per immagine qualche cosa di compiuto, di definito in sé, un discorso talmente concluso che escluda ogni accento che non partecipi in modo assoluto al suo significato. Ecco: i ‘santini’ per esempio sono immagini tipiche in assoluto. L’idea in assoluto della immagine dentro di me si lega a questo.
Ora io cerco l’immagine, ma nello stesso tempo sono contrario a ciò che si definisce all’infuori della pura espressione dell’esistente. Sono contrario all’immagine ‘antica’ che descrive-mito-, come sono contrario all’immagine astratta che descrive - idea formale-.
Il mio lavoro vuol essere trascrizione del mio sentimento, non preclusa da qualche cosa di determinato esterno a me, una trascrizione dai lineamenti incerti come il fluire dei sentimenti, con le linee stesse del nostro interiore continuo monologo a
tratti preciso, violento, a tratti indistinto e perfino contraddittorio.
Nello studio di Villa Massimo
maiolica policroma a terzo fuoco, cm 99x25x25
Ma ecco: il lavoro nasce dal suo stesso divenire e in un suo momento può isolarsi in un’espressione così compiuta, così intensa e significativa da diventare immagine’.
Allora non può essere pensato più grande o più piccolo, non si può né aggiungere né togliere nulla; è unico come la linea che segna il più breve percorso da un punto all’altro. Ecco perché rendo all’immagine, perché questa parola mi affascina sempre: togliere all’indeterminato qualche cosa che pure nasce dall’indeterminato fino a divenire forma, fino ad essere immagine; una apparenza così intensa di quel significato da divenire simbolo umano assoluto”.
Messina, i agosto- 1 5 settembre, Villa Mazzini, Scultura italiana del XX secolo. Espone: 41. La Partigiana (prima versione), 1955, ceramica smaltata, h. m 2,07, proprietà dell’Autore, Roma, ill. ; 42. Arbusti, 1947, ceramica smaltata, m 1,90x1,50, coll. Luigi De Luca, Roma,
ill.
Partecipano all’esposizione, tra gli altri:
Mirko Basaldella, Umberto Boccioni, Pietro Consagra, Pericle Fazzini, Lorenzo Guerrini, Giacomo Manzù, Arturo Martini, Antonietta Raphaèl Mafai, Alberto Viani.
La mostra, in ottobre, viene trasferita a Roma, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, dove rimane aperta fino a tutto novembre e, quindi, a Bologna, nel Palazzo Comunale.
In catalogo un saggio di Giovanni Carandente.
Roma, 10 agosto-30 settembre, La Salita, Artisti d’oggi.
Partecipano all’esposizione, tra gli altri:
Carla Accardi, Renato Birolli, Corrado Cagli, Pietro Consagra, Gianni Dova, Edgardo Mannucci, Mirko Basaldella, Ennio Morlotti, Gastone Novelli, Antonio San-filippo, Giuseppe Santomaso, Antonio Scordia, Emilio Vedova.
In catalogo, una presentazione di Lionello Venturi. La mostra è organizzata in oc
cazione del VI Congresso Internazionale dellAssociazione di Critici dArte, Napoli
1957.
Gubbio, agosto-settembre, Palazzo Ducale, Mostra Nazionale della Ceramica e dei Lavori in Metallo.
Vince il I Premio con l’opera Fiori.
Venezia, 8 settembre, Giardini napoleonici. Sistemata su un basamento di Carlo Scarpa, viene inaugurata la ceramica monumentale La Partigiana veneta.
Giulio Carlo Argan in una intervista raccolta a Roma il 13 marzo 1985:
“Certo sono stato un testimone e, in qualche modo, un responsabile della nascita del monumento alla Partigiana di Leoncillo. L’idea di fare un monumento alla Partigiana, edi farlo a Venezia, fu del prof. Meneghetti, insigne scienziato dell’Università di Padova, vecchio antifascista e combattente della Resistenza. Venne a parlarmene, mi disse che il luogo designato era i Giardini, molto verde attorno e, di fronte, la laguna. In quello spazio pieno di colore e di luce, non poteva certo situarsi un marmo o un bronzo, ci voleva un’intensa nota di colore: anzi, non soltanto una nota cromatica, ma una struttura coloristica dotata di una propria forza, di un proprio dinamismo. [...]
Fissato il punto del monumento come fatto cromatico - che era anche una garanzia contro il pericolo della rettorica, che insidia tutti i monumenti - la scelta dell’artista era quasi obbligata: Leoncillo era il solo scultore che concepisse il colore come fatto plastico. Era anche una scelta giustificata dalla figura morale dell’artista: antifascista, uomo della Resistenza, politicamente impegnato, persuaso dell’affinità sostanziale di ideologia e immaginazione. [...]
Naturalmente Leoncillo accolse con entusiasmo la proposta di Meneghetti e si mise subito al lavoro. Poiché, per temperamento, aveva il senso e il gusto del problema, vide subito tutti gli aspetti problematici del tema. Erano molti. Primo:
in quello spazio pieno di colore e di luce il monumento non doveva mimetizzarsi,
ma spiccare. Bisognava perciò che la forma avesse una struttura che permettesse l’impiego di colore per masse fortemente contrastanti: doveva avere una volumetria dinamica per captare e condensare nel gioco dei vuoti e dei pieni la luce naturale e, contemporaneamente, espanderla quasi esplosivamente nello spazio come colore-luce. In quel periodo Leoncillo stava studiando a fondo il cubismo, che considerava il linguaggio tipico dell’arte moderna. Il monumento doveva dunque avere una struttura cubista e dinamica, e così si riapriva il problema del futurismo, cioè della sola esperienza rivoluzionaria vissuta, sia pure in modo incompleto e, per qualche aspetto, distorto dall’arte italiana. Secondo: la struttura dinamica del monumento doveva essere investita d’un senso ideologico. E questo aveva due piani: la lotta patriottica per la liberazione dal fascismo e l’avvio d’un processo rivoluzionario, la presenza e la partecipazione delle donne alla lotta contro il fascismo e il nazismo. Terzo: Leoncillo pensava che la Resistenza non era stata il principio di un processo rivoluzionario; e che il movimento di liberazione della donna si inseriva in quel processo e costituiva una delle sue grandi spinte. Il monumento, dunque, doveva dare l’immagine visiva della rivoluzione e, in modo più specifico, l’immagine di quello che era stato il contributo di entusiasmo e di sacrificio delle donne alla lotta partigiana. Quarto: era il momento della disputa tra le due possibili forme di impegno politico dell’arte: rinunciare ai problemi propri dell’arte per mettere al servizio della rivoluzione auspicata lo strumento propagandistico dell’arte ridotta a un realismo di immediata lettura; oppure trasformare in senso rivoluzionario le strutture interne dell’arte. A questa tesi, non molto dissimile da quella sostenuta da Vittorini, aderiva Leoncillo: il monumento alla Partigiana doveva dimostrare che era possibile fare della ricerca stilistica pura e, contemporaneamente, impegnarla in assunti e contenuti politici. Perciò quell’opera ha avuto un’importanza notevole anche nella storia del dibattito sull’essenza e la
funzione dell’arte, che si è sviluppato non solo in Italia dopo la seconda guerra mondiale”. (cfr. Leoncillo, La Partigiana Veneta, catalogo della mostra, Rocca Albornoziana, sala di Pio Il (appartamento Piccolomini), Multigrafica Editrice, Roma, 1985, pp. 7,
Fortunato D’Arrigo:
“Impetuosa, spiegata nella luce e nell’aria, in colori violenti, solari, gialli e rossi e verdi in predominio; appostata fra gli arbusti ma già col piede che si spicca in uno slancio irresistibile, in un moto che è di pietà e di vendetta, ecco la «partigiana veneta» di Leoncillo: possiamo dire, superato il primo naturale disorientamento che viene dalla crudezza della novità, che essa si realizza, a poco a poco, di fronte ai nostri sentimenti umani e nazionali su di un ritmo accentuato ed esaltante? È, si intende, prima che un monumento, una ceramica di Leoncillo. E...]
Essa nasce da quella cultura «combinata», da quel personale impiego di elementi espressionisti, astratti e cubisti da cui Leoncillo ha tratto la sua singolarissima personalità di scultore in ceramica consacrato da vasti riconoscimenti critici e da una sala all’ultima Biennale veneziana: ma uno scultore, sappiamo, che ha piegato sempre quegli elementi della sua formazione culturale a flessioni generose sui motivi della realtà. Diciamo pure, dunque, che questa ceramica è una enorme ((squisitezza» di Leoncillo, una «squisitezza» alta due metri e dieci, giocata su tutte le risorse e su tutti i virtuosismi del suo stile e della sua fantasia (e ci sono luoghi dove gli eccessi diabbreviazione astratteggiante, dovuti forse alla paura di dar nell’ovvio, riescono di grave ostacolo alla immediata comprensione dell’opera): ma aggiungiamo subito che essa si rivela evidentemente per monumentale e si finisce coll’aderire toto corde al suo repentino impianto celebrativo: che è quella sua pienezza espressiva, quel suo fuoco epigrammatico, quei suoi colori liberi e vittoriosi, per così dire, quel suo sentimento commosso di dedica che la pervade tutta”. (cfr. E D. [Fortunato D’Arrigo], Leoncillo formato monumento, in «Vie nuove».
   

 

 


 






2005-10-03


   
 

 

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