Sergio Fergola
Il tragitto dell’Anima dal Caos al Cosmo:l’itinerario artistico
 







Di Antonio Paladino




Federico 1992
2. L’enigma dell’opera dal mondo magico a Picasso Nei primi anni ’60 la pittura di Fergola evolve più decisamente in una direzione neofigurativa. In una prima fase, tuttavia, che si svolge soprattutto dopo il trasferimento a Parigi (1962-63), la forma figurativa si applica alla rappresentazione di immagini di prevalente significato simbolico, come ad esempio il ricorrente panno di stoffa, simbolo dell’impalpabile e dell’effimero, e quindi metafora del tempo. Attraverso immagini, lettere, grafemi l’artista mette in scena veri e propri enigmi psicologici, etici, cognitivi, e ontologici, spesso presentati secondo la forma di rebus. La produzione di questi anni rispecchia, come anche nella fase precedente, uno stile più esplicitamente concettuale rispetto alle opere successive. Del resto, la concezione dell’arte come proposizione di enigmi, analizzata e teorizzata anche da Nietzsche in “Umano, troppo umano”, rappresenta un filone trasversale della storia dell’arte, da Leonardo da Vinci a Duchamp, e troverà un riscontro anche in alcune ricerche italiane degli anni ‘60 e ’70 culminanti nella poesia visiva. Negli anni seguenti, in particolare con la personale del 1965 presso la galleria “Il Centro” di Napoli, si consolida il pieno ritorno dell’artista alla figurazione e iniziano a popolare le opere di Fergola i suoi tipici ritratti, dedicati a figure generiche o a personaggi celebri della storia passata o talora della mitologia, riproposti secondo l’iconografia tramandata dalla storia dell’arte, ma privi dei lineamenti del volto e come svuotati di ogni fisicità, come pure entità incorporee e immateriali; le figure sono inoltre collocate spesso in contesti avulsi e temporalmente incongrui, secondo procedimenti simili a quelli della pittura Metafisica o del Surrealismo di orientamento più concettuale. Riccardo Barletta vede nell’universo fergoliano dell’epoca un complesso inedito, "forse più vicino all’illogicità dechirichiana che all’irrazionalità surrealista". Le fonti iconografiche delle opere fanno prevalentemente riferimento alla grande storia dell’arte rinascimentale: il Rinascimento Italiano, Fiammingo o Tedesco, la Scuola di Fontainebleau etc. In questo suo dialogo con gli eventi e con i personaggi storici, Fergola inizia a proporre i propri interrogativi sulla nozione di tempo che troveranno una compiuta risposta solo nell’ultima fase della sua opera, tra la fine degli anni ’80 e gli anni ‘90. Il Barletta intravede in questo percorso un’operazione "metaforica in cui i fantasmi aulici delle passate culture tornano a incarnare il presente come archetipi della realtà": la grazia, la bellezza, la regalità, la santità, il peccato, il potere"; e quindi il critico colloca i personaggi di Fergola in "un tempo archetipico, caratterizzato dalla circolarità della Ripetizione". È vero che archetipi di ascendenza junghiana, dal bambino al cerchio solare, sono già presenti nelle opere esaminate dal Barletta nel saggio già citato o comunque risalenti al periodo 1958/61, e spesso permangono anche nel nuovo corso figurativo mantenendo la loro funzione simbolica; tuttavia si avverte che ormai la ricerca dell’artista ha mutato direzione. In particolare i suoi personaggi senza volto piuttosto che delineare la stabilità di un mondo ideale, nutrito di suggestioni platoniche o jungiane, come sembra indicare il Barletta, lanciano invece a nostro parere nuovi interrogativi destabilizzanti sull’esistenza e sul tempo. I dipinti dei primi anni ’70 evidenziano ad esempio un’attrazione dell’artista per la storia del passato talvolta rappresentato nei suoi aspetti più oscuri e arcani (Loudun, Giovanna degli Angeli), particolarmente evidente nella personale del 1974 presso la galleria Apogeo di Napoli. Tuttavia la ricorrenza di temi legati all’ esoterismo non è legata a una curiosità morbosa, né rispecchia tanto un interesse etico-religioso quanto un interesse filosofico: rientra pienamente nell’intento di rimettere in discussione il concetto di tempo storico. Magia, alchimia, occulto infatti sono piuttosto delle maschere utilizzate dall’artista per porre al centro dell’opera il tema dell’"evento", inattuale, dirompente marginale o esterno rispetto al “processo storico”. Quegli accadimenti rappresentano infatti fattori discontinui e non riconducibili alla razionalità storiografica dominante nel pensiero occidentale, eventi eccentrici e divergenti rispetto al “senso della Storia”, e forse in questa fase dell’evoluzione spirituale dell’artista assimilabili piuttosto ai caratteri immutabili di un sapere esoterico, estraneo al relativismo della dialettica storica. Mentre il Barletta associa ad "archetipi" i personaggi di Fergola, noi riteniamo piuttosto che non possano essere intesi platonicamente come essenze ideali e universali, ma come molteplici declinazioni dell’essere, dove l’Uno si genera e si realizza solo mediante il Diverso. Giovanna degli Angeli (Jeanne de Belcier), suora orsolina francese del ‘600, coinvolta a Loudun in un caso che oggi sarebbe definito di “isteria di massa”, è una figura ricorrente nelle opere del periodo, ma non rappresenta evidentemente l’emblema di una tragedia umana universale, quanto piuttosto il segno del lato o-sceno e irrazionale della storia, che attraversa e accomuna tutte le epoche, l’elemento di una storia minore e sotterranea, che si sviluppa attraverso pure “singolarità nomadi” e che rimette in discussione il concetto stesso di dialettica storica come è stato concepito dall’Idealismo in avanti. Se il Logos occidentale inoltre è espresso in prevalenza dalla luce del razionale, nei dipinti del periodo esoterico l’opera di Fergola è dominata dalle tenebre, attraverso l’uso di cupe campiture e di una penombra carica di tensione. Proprio con queste opere l’artista, dunque, reintroduce il concetto di caos come fonte del pensiero e dell’ispirazione. Piuttosto che il mondo junghiano degli archetipi o platonico delle essenze, il teatro dei personaggi senza volto di Fergola mette in scena, pertanto, un mondo di simulacri, non riferibili all’identità di modelli ideali, etici o psicologici, e neanche alla rappresentazione di figure storicamente determinate, ma solo alla propria irriducibile singolarità, sullo sfondo di un universo privo di modelli e gerarchie che ha accolto anche il Caos come motore ed essenza. In questo senso la pittura di Fergola evidenzia anche un legame con il mondo della pop art americana, che l’artista aveva del resto conosciuto e apprezzato nel corso del suo lungo soggiorno a New York (1964-67).I ritratti senza volto sono simulacri, nel senso che costituiscono il negativo di ogni rappresentazione e quindi non sono né biografici, né drammatici, né “storia”, né “romanzo”, secondo i termini che Eduardo Sanguineti riprende
Opportunity
da Baudelaire nella sua analisi per la personale dell’artista del 1965; anche se Sanguineti poi riconduce tale procedimento a un uso o a un carattere critico della pittura moderna, mentre Fergola in questa fase utilizza piuttosto il processo artistico in maniera interrogativa, pone una domanda che ha uno spessore metafisico: cosa c’è al di là della rappresentazione (storica, drammatica, psicologica) o al limite, secondo una suggestione quasi kantiana, oltre la semplice rappresentazione visiva? E la domanda, cruciale anche sul piano estetico, viene sottolineata spesso didascalica mente con il punto di domanda o l’interrogativo “Aetatis suae?” Nello stesso solco” filosofico” si iscrive l’uso di alcune icone proprie di una cultura popolare sospesa tra religiosità pagana e credenza magica: le teche di vetro che rappresentano un leitmotiv della sua opera e che custodiscono i reperti quasi fossero oggetto di un culto misterioso, sono icone ispirate alla cultura popolare che hanno il ruolo di richiamare l’attenzione dello spettatore sull’oggetto che contengono o nascondono, sottrarlo a una lettura narrativa dell’opera, come avrebbe detto Francis Bacon, ma anche di separarlo dal contesto storico e di estrarne il suo valore assoluto, magico e metastorico. In questo senso l’opera di Fergola va letta anche come metafora della sua città, Napoli, che da una parte si offre allo sguardo retrospettivo dello storico nella ricchezza dei suoi percorsi evolutivi e dei segni stratificati nei secoli, ma insieme si apre a uno sguardo introspettivo nella dovizia di luoghi “inattuali” in cui la linea del tempo storico-cronologico sembra sospesa e la coscienza entra in una dimensione parallela che elude il presente e per attingere la verità eterna del tempo, dove passato e futuro si manifestano simultaneamente lungo la soglia dell’attimo privo di spessore.Più che il tempo circolare e archetipico di cui parla Barletta la pittura di Fergola esprime, e mutua anche dalla propria città, questa dimensione del tempo sospeso, che anche la cultura popolare individua come l’elemento magico e arcano della sua storia e dei suoi luoghi. D’altra parte, anche i procedimenti umoristici frequenti in altre opere di Fergola, i suoi interventi di sottrazione semiotica e di straniamento, hanno la funzione di introdurre nel contesto storico un fattore destabilizzante, di insinuare nello spettatore il dubbio sistematico sulla linearità cronologico-evolutiva del tempo. Intorno alla metà degli anni ’70 Fergola incontra la storia dell’arte del ‘900 e in particolare uno dei suoi miti personali: Pablo Picasso. In questa fase, culminata con una ampia personale curata a Napoli nel 1977 dallo stesso Barletta, presso la galleria Apogeo, l’artista rivisita l’opera del pittore spagnolo, riferita in particolare ai periodi post-cubisti, definiti anche “surrealista” e “barbaro”, che hanno forse lasciato le tracce più profonde e indelebili nell’immaginario estetico del ‘900: in questa operazione prende forse spunto dall’arte stessa del maestro, che aveva rivisitato, soprattutto a partire degli anni ’50, sia gli artisti classici sia i contemporanei. Fergola, tuttavia, lavora prevalentemente sugli oggetti parziali, ingloba nella propria opera immagini o frammenti di stile picassiano, decontestualizzati e spesso combinati con immagini in stile fotografico o con altre icone della storia dell’arte, come le opere di Ingres, uno degli artisti più amati da Picasso. È evidente l’intento di analizzare, con ironia e spesso con una carica di umorismo destabilizzante, i linguaggi delle immagini, il loro statuto nell’epoca della crisi dei valori estetici, la loro funzione ambiguamente sospesa tra semplice denotazione, classica rappresentazione e moderna decostruzione. Nondimeno anche qui appare sullo sfondo il tema della relatività del tempo che ossessiona l’artista e diventerà centrale nell’ultima e forse più compiuta fase della sua opera. Dal confronto anche stridente tra epoche ed estetiche differenti, tra repertori iconografici così distanti, nasce un senso di ironico e disincantato distacco dalle mitologie consolidate nell’arte, comprese le icone universalmente riconosciute della modernità. Tuttavia l’artista è ancora alla ricerca di una sintesi, di una visione affermativa, di un valore assoluto che oltrepassi le particolari contingenze della storia e schiuda un nuovo orizzonte all’arte e all’esistenza, e che attinga forse quell’idea filosofica di un Mito Originario presente nel Manifesto del Gruppo 58. L’opera più emblematica degli anni ’80, che segna forse la linea di demarcazione e il passaggio definitivo alla successiva fase metafisico-cosmologica dell’artista, è il dipinto The Frog. L’artista vi affronta in maniera esplicita, quasi inconsapevole parallelismo con la sua stessa evoluzione estetica, il tema della metamorfosi, sia di stati fisici, sia di dimensioni temporali. L’opera non ha tuttavia una struttura cronologica e narrativa, ma è basata sulla visione simultanea di eventi diversi interconnessi. Il centro della composizione è la rana dall’aspetto feroce e dagli artigli lunghi e acuminati esposta nella teca di vetro; la Venere, ispirata a Cranach, è la protagonista della metamorfosi. Presa in un divenire-animale Venere ha assimilato in sé stessa l’artiglio della rana e trasformato i propri arti superiori in potenti uncini con cui ha asportato il proprio volto e strappato l’occhio, che attraverso diversi passaggi fisici è precipitato diventando parte del suolo, della Terra.Solo una divinità pagana può operare una tale doppia trasformazione che consiste nel coniugare i tratti di animalità, intesa come essenza naturale dell’uomo, con la sua aspirazione all’infinito. È evidente qui l’ispirazione nietzscheana per l’artista, che cita del resto esplicitamente il filosofo già in opere dei primi anni ’60, e vi riecheggia l’avvertimento dello Zarathustra “Vi scongiuro, fratelli, restate fedeli alla terra…”. La divinità è presa dunque in due divenire simultanei, non è sufficiente infatti riappropriarsi dell’istinto per riconquistare il senso della Terra, è necessario un passaggio ulteriore: decostruire la soggettività per guardare con l’occhio della Terra. Ai due lati di Venere si vedono i simboli dello spazio e del tempo con l’orologio privo di lancette, perché il senso della Terra consiste nella percezione dello spazio puro, depurato cioè da ogni significante e svuotato di ogni significato, e nella sensazione del tempo puro, cioè del tempo della terra in assenza dell’uomo. Cézanne diceva della sua pittura: il paesaggio si pensa in me ed io ne sono la coscienza. E solo quando raggiungeva questo grado di consapevolezza “non umana” riteneva di disporre del “motivo”.






2023-10-04


   
 

 

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