I disegni veneziani “Il disegno per Leonardo è la lettera, la parola, la frase, il periodo; invece d’esprimersi a parole, egli si spiega col disegno a punta d’argento, a matita, a carbone, a penna. È una scrittura ideale, la sua, che segue i moti del pensiero, i suoi sguardi nella vita delle cose” Adolfo Venturi Lo straordinario insieme di disegni leonardiani delle Gallerie dell’Accademia, venticinque fogli autografi esposti alla mostra Leonardo da Vinci. L’uomo modello del mondo, proviene dalla raccolta grafica del milanese Giuseppe Bossi: pittore, bibliofilo, letterato, critico d’arte e fine collezionista lombardo, prematuramente scomparso, appena trentottenne, nel 1815. L’acquisto di quella collezione, perfezionatosi nel 1822, rappresenta ancor oggi una delle acquisizioni più importanti di sempre per l’istituzione lagunare. Una raccolta che Bossi stesso definì “imponente”; riflesso della vastità dei suoi interessi,delle sue indubbie qualità di conoscitore e della fitta rete di conoscenze tra gli artisti e gli intellettuali dell’epoca. Le opere di maggior prestigio di quell’insieme, in cui sono presenti esempi grafici di molti ambiti italiani e di alcuni contesti stranieri, sono senza dubbio i disegni del genio di Vinci di cui Bossi era profondo estimatore. Le pagine delle Memorie di Giuseppe Bossi, scritte a partire dal 1807, così come le annotazioni apposte sui volumi in cui conservava i suoi preziosi fogli o i rapporti epistolari intrapresi con artisti e collezionisti, talvolta si soffermano sulle circostanze in cui alcuni disegni furono acquistati. Il 9 dicembre del 1807, il collezionista racconta nel suo diario di come entrò in possesso di alcuni fogli di Leonardo oggi alle Gallerie dell’Accademia: “L’essermi messo intorno a disegni antichi mi ha rieccitato la voglia di possedere la Collezione del fu Venanzio De Pagave, poi del di lui figlio Gaudenzio. Stamattina ho scritto aquesti un biglietto, chiedendogli nuovamente con istanza pronto a far qualsiasi sacrifizio per ottenerla”. L’istanza fu accolta e il prezzo concordato in duecento Luigi d’oro. Non ci sono dubbi, per quanto non lo si dica, che tra i disegni vi fossero importanti opere del grande artista toscano. Venazio De Pagave (1722-1803) raccolse una pregevole collezione di disegni, stampe e dipinti; fu appassionato studioso della scuola lombarda e di Leonardo del quale acquisì un significativo corpus grafico dalla contessa Anna Luisa Monti, erede del cardinale Cesare Monti (1594-1650). Nel 1784, quando i fogli erano ancora di proprietà De Pagave, vennero incisi e pubblicati da Carlo Giuseppe Gerli e nel volume compaiono alcuni disegni oggi a Venezia, primo fra tutti il celeberrimo Studio di proporzioni universalmente noto come Uomo vitruviano. In data 10 aprile 1812, Bossi ricorda sempre nelle Memorie: “Ho acquistato anche un disegno di Leonardo rappresentante il Cenacolo, carta singolare ealcuni altri di questo autore”. Il Cenacolo citato è identificabile con il foglio cat. 254 delle Gallerie esposto in mostra, un disegno a pietra rossa su carta bianca che propone una composizione iconografica diversa e precedente a quella poi dipinta da Leonardo in Santa Maria delle Grazie. Anche nel disegno, come nella grafia, Leonardo procede da destra a sinistra, ed è infatti quella destra la parte graficamente meglio definita divenendo nel prosieguo della composizione più approssimativa e abbozzata. La raccolta ora a Venezia illustra in modo emblematico la vastità degli interessi leonardiani, gli ambiti molteplici di conoscenza indagati dal maestro, attratto dall’arte e dalla sapienza degli antichi, ma al tempo stesso uomo di scienza, convinto fautore di un metodo sperimentale e di osservazione dei dati sensibili del mondo circostante. Studi, schizzi e riflessioni tracciati su supporti e con strumenti grafici diversi: punte metalliche, pietre nere e rosse, inchiostri a pennatalvolta acquerellati, carte bianche, colorate o preparate di rosso, avorio, azzurro. La mostra dispiega il suo racconto in senso cronologico, illustrando attraverso i disegni i momenti salienti della vita di Leonardo: il periodo giovanile nella natia Firenze, il lungo e fervido soggiorno alla corte di Ludovico il Moro, gli anni inquieti dell’ultima parte della sua esistenza che lo videro a Venezia, e poi nuovamente a Firenze e Milano, e ancora a Roma e Amboise, ove morì il 2 maggio del 1519. Un percorso che trova il suo vertice nella visione dell’Uomo vitruviano affiancato da altri importanti studi di proporzione, da studi anatomici, dalle fonti utilizzate. Accanto ai fogli riconosciuti come autografi alcuni disegni legati alla cerchia del maestro raccontano il segno lasciato dalla sua straordinaria personalità sulla formazione di artisti contemporanei o delle generazioni immediatamente successive. Prestiti prestigiosi, infine, affiancano le opere del fondo veneziano,disegni provenienti da Washington, Cambridge, Oxford, New York e Amburgo completano l’esposizione e ne precisano i contenuti. Valeria Poletto Intorno all’Uomo Vitruviano Riprendendo l’immagine simbolica dell’uomo come specchio dell’universo, Leonardo si inserisce perfettamente nella corrente neoplatonica, accogliendo la visione del mondo rinascimentale elaborata nella Grecia classica, secondo cui il mondo è ó (universo), espressa già nel Timeo da Platone, da Seneca e da Tolomeo nella Cosmografia, testo che Leonardo possiede e cita nel Trattato di anatomia: “La cosmografia del minor mondo […]”. La teoria che l’universo è un grande uomo e l’uomo è un piccolo universo è già presente nell’esoterismo arabo, arricchito poi, nel Medioevo, di elementi spirituali ed ermetici. L’analogia tra i due mondi trova due precursori, Brunetto Latini e Niccolò Cusano. Il primo, nel Trésor,afferma che la terra ha un’anima che abita in fondo al mare e che le maree sono il respiro del grande corpo della terra. Il secondo parla della terra come un animale, con le foreste come pelo. Molto simile anche la descrizione di Marsilio Ficino: “La vita del mondo […] si propaga nelle erbe e negli alberi, quasi peli del suo corpo e capelli; e poi nelle pietre e nei metalli, quasi denti e ossa” in cui nell’uomo prende forma l’idea dell’identità tra cielo e terra e tra corpo e anima, detta spiritus. È a Ficino che, nel 1463, Cosimo il Vecchio affida il compito di tradurre dal greco, da un manoscritto acquistato poi da Poliziano e ora alla Laurenziana (71,33), prima Ermete Trismegisto e poi Platone. Nella sua Theologia platonica, pubblicata nel 1482, il medico, filosofo e letterato si dichiara convinto del valore dell’ermetismo, fonte della verità rivelata: sotto il mistero ermetico sta ogni forma di sapere, che fornisce le conoscenze per intervenire sulla realtà; quello che anche Picodella Mirandola, in possesso di una copia manoscritta del Picatrix – nome latino di un testo arabo di magia di autore ignoto (Ghayat Al-Hakim) – accetterà, cioè la magia come atto pratico della scienza della natura: “Chi non si affatica nelle scienze, è difettoso e di scarsa autorità, e per conseguenza non deve dirsi uomo […]: attraverso la scienza l’uomo fa miracoli, comprende tutto […]”, può salire verso il divino e abbassarsi verso gli animali, “può farsi tutto, e per questo si chiama piccolo mondo (minor mundus)”, perciò tutto quello che è contenuto nel mondo maggiore, lo è in quello minore. La prima edizione del Picatrix, sempre del 1463, è tradotta in italiano da quel Tommaso Benci che volle da Leonardo il ritratto della figlia Ginevra in occasione delle sue nozze nel 1474, dipinto ora a Washington. Anche secondo Pico della Mirandola l’uomo è un microcosmo, poiché possiede i semi di tutte le cose, quelle terrene come le divine, ma è per la libertà, il risultato delle sue scelte,e solo per questo, che occupa un posto centrale e privilegiato nell’universo. I neoplatonici teorizzano l’inserimento della ricerca empirica sui fondamenti matematici che costituiscono le strutture razionali assolute del mondo. Prima Cusano nell’Asclepius del 1458 – “Così l’uomo ha l’intelletto che è similitudine dell’intelletto divino quando crea” – poi Marsilio Ficino nel suo commento al Timeo discutono sulla necessità di collegare la conoscenza empirica a quella matematica; quest’ultimo, nella Theologia platonica, esalta quell’ideale punto di unione fra la scienza del pittore e la scienza della natura per cui la mente dell’uomo “si trasmuta in similitudine di mente divina”. Quando Leonardo enuncia il noto principio che “nessuna umana investigazione si può dimandar vera scienza, s’essa non passa per le matematiche dimostrazioni”, si collega al tema platonico-ficiniano. Con lo spirito del sapiente, tra fenomenologia naturale, magia e gnosi, in piena sintonia con lo spirito ermeticoe neoplatonico, Leonardo proclama l’inserimento della scienza empirica sui fondamenti matematici che formano la struttura razionale assoluta del tutto. Nell’elogio dell’esperienza come interprete dell’artificiosa natura, mediatrice tra l’uomo e l’universalità dell’essere, sta la grande novità di Leonardo. Nell’esaltazione della riconquistata coscienza del valore dell’uomo che diventa, con Ficino, “il centro dell’universo”, reinterpretando l’affermazione di Protagora “l’uomo è la misura di tutte le cose”, nasce il pensiero di Leonardo, che considera l’uomo modello del mondo. Nell’umanesimo il recupero del classico, noto in arte da copie in marmo, tra I e II secolo, di originali greci in bronzo, esprime la volontà di circoscrivere un’epoca passata, facendone il simbolo di valori positivi e universali. La perfezione vera delle proporzioni è incarnata nella nudità delle sculture, l’unica che imita direttamente la natura in quanto assoluta e atemporale. L’Uomo Vitruviano è nudo: lanudità, prerogativa della statuaria antica, va letta come un esplicito riferimento ai grandi esempi della plastica greca e romana. Il contatto di Leonardo con l’arte classica è precoce, poiché, narra l’Anonimo Gaddiano, frequentava a Firenze, novella Atene, il giardino di San Marco detto Orto dei Medici, dove Lorenzo il Magnifico, a partire dagli anni settanta, teneva il suo cenacolo di umanisti, filosofi, letterati e artisti in mezzo a sculture antiche. Nell’Orto dei Medici si afferma il gusto per il bronzetto “all’antica”, destinato a collezionisti che amavano oggetti preziosi di manifattura raffinata, come gemme e cammei, in materiali di pregio. Il primo è forse Filarete, ispirato da Marsia che suona il flauto detto Ignudo della paura, ora al Bargello; dopo di lui, il gusto per il “bronzetto all’antica” si sviluppa a Mantova con l’Antico. Il suo Apollo, qui esposto, ne rappresenta un mirabile esempio. Da quel contesto, gli scultori fiorentini del momento traggono anche ilgusto per il tema dei profili classici degli imperatori o condottieri romani, in particolare il marmo con il Busto di Scipione, ora al Louvre, e quello di Alessandro Magno, ora a Washington, entrambi del 1480 circa, di ambito di Andrea Verrocchio. Da tali modelli Leonardo trae ispirazione, anni dopo, per i tre busti di profilo “all’antica” ora a Torino, Londra e Venezia, modulati sui prototipi del suo maestro scultore, a loro volta ispirati a cammei antichi: una ripresa, dunque, di modelli contemporanei debitori della classicità. Giunto a Milano nel 1482, l’artista fiorentino incontra gli architetti provenienti dal centro Italia, fra cui Bramante, Luca Fancelli (allievo di Alberti) e Francesco di Giorgio Martini, che aveva già visitato Roma; e ancora gli scultori imbevuti di gusto antiquario, come Amadeo e Mantegazza alla Certosa di Pavia. Fondamentale è la visita a Pavia nel 1490, dove Leonardo vede l’unico esempio dal vero di monumento equestre, il Regisole, opera del I secoloa.C., proprio nel momento in cui lavora alla seconda fase del Monumento Sforza. È in quell’occasione che pronuncia l’unica celebre frase in cui ammette che il valore dell’imitazione degli antichi è superiore a quello dei moderni: “L’imitazione delle cose antiche è più laldabile che quella delle moderne” (Codice Atlantico, f. 339r). Ma si chiede anche: “Qual è meglio, o ritrarre di naturale o d’antico?” (Ms. A, f. 105v). La frase più esplicita sull’imitazione degli antichi risale al periodo romano, nel Libro di pittura al capitolo Del modo di vestire le figure (c. 533): “Osserva il decoro che tu vesti le figure […]. Et imita quanto puoi li Greci e Latini col modo del scoprire le membra, quando il vento appoggia sopra di loro li panni”. Più che di un vero debito alla tradizione classica perduto, al quale vanno legati i numerosi fogli sciolti ancora esistenti dedicati allo studio di proporzioni, che probabilmente in origine facevano parte di quell’unico taccuino ed erano espressione diuno studio iniziato verso il 1487 e concluso intorno al 1490. Conservati oggi per la maggior parte nelle collezioni reali di Windsor Castle, studiati da Keele e Pedretti, gli studi di proporzioni riflettono la ricerca leonardiana dell’homo bene figuratus di Vitruvio, non di un corpo, quindi, ma del corpo “ben fatto”: “Abbi intera notizia delle misure dell’omo”, scrive, da scegliere tra “quelli di miglior grazia” e continua: “Debbe il pittore fare la figura sopra la regola d’un corpo naturale, il quale comunemente sia di proporzione laudabile; oltre di questo far misurare sé medesimo e vedere in che parte la sua persona varia assai o poco da quella anzidetta laudabile”. Giunto a Milano nel 1482, l’artista fiorentino incontra gli architetti provenienti dal centro Italia, fra cui Bramante, Luca Fancelli (allievo di Alberti) e Francesco di Giorgio Martini, che aveva già visitato Roma; e ancora gli scultori imbevuti di gusto antiquario, come Amadeo e Mantegazza alla Certosa di Pavia.Fondamentale è la visita a Pavia nel 1490, dove Leonardo vede l’unico esempio dal vero di monumento equestre, il Regisole, opera del I secolo a.C., proprio nel momento in cui lavora alla seconda fase del Monumento Sforza. È in quell’occasione che pronuncia l’unica celebre frase in cui ammette che il valore dell’imitazione degli antichi è superiore a quello dei moderni: “L’imitazione delle cose antiche è più laldabile che quella delle moderne” (Codice Atlantico, f. 339r). Ma si chiede anche: “Qual è meglio, o ritrarre di naturale o d’antico?” (Ms. A, f. 105v). La frase più esplicita sull’imitazione degli antichi risale al periodo romano, nel Libro di pittura al capitolo Del modo di vestire le figure (c. 533): “Osserva il decoro che tu vesti le figure […]. Et imita quanto puoi li Greci e Latini col modo del scoprire le membra, quando il vento appoggia sopra di loro li panni”. Annalisa Perissa Torrini Estratto dal testo in catalogo Silvana Editoriale
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