L’ENIGMA ESCHER
Paradossi grafici tra arte e geometria
 






Reggio Emilia, Palazzo Magnani
Dal 19 ottobre 2013 al 23 febbraio 2014




Maurits Cornelis Escher
Giorno e notte, 1938
xilografia a due colori 39,3 x 67,8 cm.

Per comprendere al meglio il complesso mondo scaturito dalla felice vena creativa di Maurits Cornelis Escher è necessario conoscere, sia pure per sommi capi, quali siano le leggi di psicologia che regolano la visione secondo la Gestalttheorie. Con questa locuzione tedesca che vuole dire letteralmente «teoria della forma», si indica una corrente di studio della psicologia finalizzata all’analisi delle modalità con le quali il cervello umano e l’occhio, inteso come strumento della percezione, riescono ad organizzare una visione coerente del mondo. Da questo processo di studio, iniziato verso il 1890 nelle Università di Vienna, Graz e Monaco di Baviera, poi proseguito in Germania, a Berlino e a Francoforte, fra il 1910 ed il 1930, sono scaturite una serie di regole che costituiscono, per l’appunto, la Gestalttheorie, successivamente sviluppata negli atenei degli Stati Uniti d’America, dove si trasferirono gli scienziati contrari al regime nazista.
Sotto la generale definizione di Gestalttheorie, si raggruppano, però, vari indirizzi di ricerca che puntano alla Gestaltqualitäten rivolta all’indagine delle qualità formale, guardano alla Gestaltpsychologie, prediligendo l’aspetto psicologico nell’indagine della forma e, infine, alla Ganzheitspsychologie che fa capo alla scuola di Lipsia e che, di fatto, è «psicologia olistica», secondo la quale i sistemi psicologici e, quindi, di visione, non possono semplicisticamente essere considerati come la somma delle diverse componenti: mondo + occhio + cervello.
Infatti, la Gestalttheorie si contrappone alle ipotesi dell’elementarismo e dell’associazionismo per le quali, invece, l’esperienza psicologica della percezione sarebbe il risultato dell’associazione di esperienze (Hume), elementi e idee diverse, per cui tutto l’insieme dei fenomeni psichici sarebbe retto da leggi di tipo associativo.
Al contrario, la Gestalttheorie ritiene che l’esperienza percettiva, sia per ogni individuo un percorso unitario, sicché le varie componenti di ciascuna di queste si modificano reciprocamente arrivando ad essere un tutto unico, diverso per coerenza dai singoli elementi che vanno a costituirla.
Ne deriva che la Gestalttheorie tende a individuare e descrivere le leggi responsabili del percorso unitario dell’esperienza percettiva, mentre considera l’indagine della psicologia associazionista, che si basa su reiterati esperimenti diversi per ciascuna esperienza visiva, astratta e fuorviante.
• Legge della semplificazione.
Con questa definizione ci si riferisce a quella capacità del processo di percezione visiva dell’uomo in grado di organizzare elementi dislocati sul piano in modo da ricondurli a forme semplici.
Si considerino, infatti, quattro punti su un piano, collocati in maniera speculare e parallela, distante fra loro (fig.1a). La nostra percezione non ne ricaverà una forma unitaria disarticolata, connettendoli fra loro in maniera arbitraria (fig.1b), ma tenderà
Maurits Cornelis Escher
Buccia, maggio 1955
xilografia di testa e xilografia in colori nero, marrone, grigio-blu e grigio stampata da due blocchi, 345x235 mm
a considerare l’insieme un quadrato, ovvero la «forma più semplice» fra quelle possibili.
Nel caso poi che si aggiungano altri quattro punti, collocandoli a metà della distanza che separa quelli già presi precedentemente in esame, il risultato sarà la percezione unitaria di un cerchio (fig.1c).
Questa legge, con l’aiuto dei colori, è sfruttata da Maurits Cornelis Escher in Divisione del piano n° 79 (fig.1d) dove i corpi e le ali delle farfalle si organizzano in forma di cerchio. È questa, infatti, la «forma più semplice» che emerge nella percezione di un piano sottoposto ad un processo di tassellazione o tassellatura, su cui una miriade di forme si susseguono senza soluzione di continuità.  
• Legge della prossimità.
La definizione di «Legge della prossimità», rimanda a quella capacità di ciascun individuo di organizzare singoli elementi visivi che siano vicini fra loro secondo la forma più logica e più semplice, fino al punto di non riconoscerne più le componenti.
Si prendano in considerazione quattro barrette distanti l’una dall’altra (fig.2a).
Finché queste restano separate, riusciamo a considerarle distinte; il che accade pure quando iniziano un processo di avvicinamento. Tuttavia, nel momento in cui le barrette toccano fra loro il lato più corto, pur mantenendo al centro un quadrato che dimostra di una funzione non avvenuta, sarà per noi impossibile connotarle come elementi separati e saremo costretti a leggerle come una nuova forma unitaria, quella della croce.
La stessa cosa accade se prendiamo in esame due segmenti ad L che abbiano i vertici opposti l’uno all’altro (fig.3a).
Anche in questo caso, fin quando i due elementi rimangono separati, ci è possibile individuarli in quanto singoli, ma non appena si toccheranno i due angoli, la «Legge della prossimità» ci obbligherà a leggerli come una croce.
È questo il motivo per il quale una serie di punti disposti sul piano a distanze diverse (fig. 2b) tendono ad organizzarsi in file che seguono la direzione obbligata dalla distanza minore.
Il risultato si ottiene anche con dei semplici scarabocchi.
Così, se la distanza minore sarà relativa al rapporto fra il sopra e il sotto, i punti si organizzeranno in senso verticale; se invece, sarà relativa al rapporto fra destra e sinistra, allora, si organizzeranno su file orizzontali.
Del resto, è quel che accade anche con le parole. Se proviamo a scrivere «in tavola», indichiamo quel che viene portato sul desco e la distanza fra le due parole, che è maggiore di quella fra le lettere, garantisce l’autonomia dei significati. Tuttavia, se riduciamo quello alla medesima distanza che separa le lettere, otterremo una nuova parola «intavola», dal significato diverso, come diverse sono le file verticali ed orizzontali dei punti rispetto agli stessi, nello stesso numero, ma sparsi sul piano a distanze non significative.
La «Legge della prossimità» Maurits Cornelis Escher la utilizza in Cielo e acqua I
Maurits Cornelis Escher
Relatività, luglio 1953
litografia, 277x292 mm
(fig.2c) anche se qui interviene anche il rapporto fra pieno e vuoto che esamineremo con il fenomeno del vaso di Rubin.
• Legge della “buona forma”.
Con la definizione di «Legge della buona forma», si suole indicare la capacità percettiva che tende ad organizzare gli elementi collocati su un piano, in modo da ottenere un risultato che sia il più armonico e semplice possibile, anche a costo di far scomparire l’elemento iniziale che ha dato vita all’immagine.
Si prenda, in considerazione una stella a otto punte come quella qui rappresenta (fig.3c). Bene, la ripetizione di questo modulo su un piano non genererà la successione di stelle ad otto punte giustapposte, ma produrrà la percezione di file di due tipi di quadrati, uno più grande ed uno più piccolo che corrispondono con esattezza alla scelta percettiva della «buona forma». Infatti, la forma del quadrato è molto più semplice ed armonica di quella della stella ad otto punte.
La riprova si potrà avere con un modulo corrispondente ad un rettangolo i cui lati inferiori sono sagomati a coda di rondine (fig.3b). Anche in questo caso, la ripetizione del modulo sul piano, secondo direttrici ortogonali, non darà la giustapposizione pedissequa di questo pattern, ma la comparsa di una successione di quadrati di dimensioni maggiori e minori che, in sostanza, sono quello che l’occhio preferisce vedere.
Escher, utilizza più volte questa caratteristica della percezione visiva, come quando realizza l’acquerello 125 (fig.3d) con pesci neri e pesci bianchi che s’incastrano fra loro, seguendo le leggi della divisione regolare del piano. Questi pesci hanno, però, sul dorso una striscia rosso arancio particolarmente evidente.
La giustapposizione del modulo originario con questa caratteristica, tuttavia, non produrrà la pedissequa ripetizione dei pesci bianchi e neri; ma la forma che l’occhio preferirà sarà quella dei quadrati determinati dall’incrocio delle strisce rosse che i vari animali hanno sul dorso. Maurits Cornelis Escher aveva già previsto questo effetto ed allora ha accentuato l’effetto rendendo continue le strisce sul dorso dei pesci.
• Legge della continuità.
Gli scienziati della Gestalttheorie intendono indicare con «Legge della continuità» quel processo della percezione visiva grazie al quale noi riusciamo a comprendere che dietro la mano che spunta dall’angolo di una strada c’è una persona; oppure che il pettine della gondola (dolfin, in Veneziano) che spunta sulla sinistra in basso ne Il bacino di San Marco con la dogana dalla punta della Giudecca, dipinto da Canaletto verso il 1730 (Cardiff, National Museum of Wales) è l’elemento finale di tutta l’imbarcazione (fig.5c).
Naturalmente queste considerazioni possono sembrare così ovvie da pensare che non si tratti neppure di una scoperta dell’indagine intorno al tema della visione.
Allora per comprendere quale sia la reale portata di questa costante percettiva, si prenda in considerazione una fila di biciclette
Maurits Cornelis Escher
Nastro di Möbius II -Formiche rosse-, febbraio 19663
xilografia in colori rosso, nero e verde-grigio stampata da tre blocchi, 453x205 mm
(fig.5a). Fin qui nulla di speciale: le biciclette se ne stanno una dietro l’altra senza suscitare nessuna particolare attenzione visiva.
Immaginiamo, però, che per un motivo qualsiasi, la fila di biciclette passi dietro un muro e che si faccia una foto nel momento in cui la parte anteriore di una di queste sporga dal muro, mentre quella che le sta immediatamente dietro resti nascosta lasciando sporgere la metà posteriore.
Osservando la foto (fig.5b), l’effetto sarà quello di vedere appoggiato al muro un lungo tandem perché la «Legge della continuità» ci obbliga a collegare insieme le due biciclette in un’unica struttura coerente.  
Maurits Cornelis Escher ha utilizzato una sola volta questa legge della visione, nella litografia Specchio magico del 1946 (fig.5d), dove il senso di circolarità che tanto ci affascina dipende proprio dall’impiego della «legge della continuità». Infatti, il draghetto che pare uscire dallo specchio, la cui immagine s’interseca con l’angolo superiore di questo, è il risultato della combinazione del riflesso del posteriore del terzo animale che si allontana dalla superficie riflettente nel circolo a destra e del piccolo drago che, simmetricamente, occupa la stessa posizione nel circolo di sinistra. In altre parole, non solo non si tratta di un unico animale, ma neppure di un “vero” drago perché la sue zampe di dietro sono solo un riflesso. Eppure, l’impressione è decisamente un’altra, ovvero quella che sembra lasciare uscire un draghetto dal cuore dello specchio, grazie alla «legge della continuità». 
• Legge del triangolo di Kanizsa.
Si tratta di una figura determinata da un’illusione ottica che prende il nome da quello dello studioso italiano, Gaetano Kanizsa (1913-1993), fondatore dell’Istituto di Psicologia di Trieste, che ne dette descrizione scientifica per la prima volta nel 1955 (Margini quasi-percettivi in campi con stimolazione omogenea, in Rivista di Psicologia 49, 1, pp. 7–30), ma che riprese il tema in un celebre articolo, intitolato Subjective Contours, ossia «contorni soggettivi», pubblicato nel 1976 sulla prestigiosa rivista Scientific American.
La figura in questione (fig.4) è costituita da due triangoli equilateri sovrapposti in modo non congruente, sicché i vertici dell’uno siano orientati nel senso inverso all’altro, come se si trattasse di una stella di Davide. Il fatto è, però, che uno dei due triangoli non esiste, ma i suoi contorni sono suggeriti solo dalla presenza di tre dischi cui manca uno spicchio che così delimita i vertici del triangolo sovrapposto, in modo del tutto illusorio.
È la nostra capacità percettiva che completa gli elementi mancanti perché abbiamo la tendenza innata ad organizzare le immagini sulla base del rapporto figura-sfondo. Il che accade se questo secondo elemento è assente, ma viene suggerito dagli altri elementi presenti.
Maurits Cornelis Escher ha utilizzato diverse volte questo fenomeno di percezione visiva, noto
Maurits Cornelis Escher
Vincolo d unione, aprile 1956
litografia, 253x339 mm
empiricamente, già prima degli studi italiani applicandolo ad opere come Blocchi di basalto in riva al mare (fig.4a), oppure Neve (fig.4b), ma soprattutto Città (fig.4c), una china del 1920 nella quale i volumi degli edifici sono suggeriti esclusivamente dal contrasto delle ombre e delle luci, suggerendo così contorni e profili.
• Legge del pieno e del vuoto: il vaso di Rubin.
La figura del “vaso di Rubin”, nella sua versione bidimensionale, che corrisponde alla radice della ricerca e fu preludio di ulteriori sviluppi, si deve allo psicologo danese Edgard Rubin (1886-1951), che ne dette conto, insieme ad altre figure simili, nel suo noto saggio Synsoplevede Figurer (ossia «figure visive»), pubblicato a Copenaghen nel 1915.
Si tratta (fig.1), di un “vaso” che costituisce lo spazio di risulta fra due profili umani contrapposti.
In questa circostanza, infatti, il processo di percezione visiva s’imbatte in un’immagine ambigua che rimane ugualmente valida tanto che si tenda a considerare i due profili (in bianco) come sfondo (e allora emerge il vaso), quanto si attribuisca questo stesso valore al vaso (in nero) così da fare emergere i due profili.
Al nostro cervello, in questo caso, non viene offerto alcun elemento dirimente che permetta di orientare definitivamente la lettura in un senso o nell’altro.
Per questo motivo, il vaso di Rubin ha avuto una certa fortuna anche in campo artistico, ad iniziare dalla Fruttiera sulla spiaggia di Salvador Dalì, fino ai vasi-ritratti (fig.2) di Luca Maria Patella.
Maurits Cornelis Escher, per la verità, non realizzò mai un vaso di Rubin, ma tutto il processo di tassellazione al quale dedicò buona parte della sua produzione, si basa, su quel principio di ambiguità della percezione del fondo che abbiamo fin qui illustrato. Gli esempi possono essere innumerevoli, ma quello che ci pare più adatto è la Divisione regolare del piano del 1957 (fig. 2ab), presente in mostra, in quanto dimostra come da un “pieno” ed un “vuoto” assolutamente identici, Maurits Cornelis Escher, abbia saputo ricavare due figure diverse, quella di un pesce e quella di un uccello, semplicemente spostando la testa dell’uno e dell’altro a destra o a sinistra della sagoma ambivalente da lui immaginata.  
• Legge della percezione del convesso e del concavo.
Il rapporto fra chiaro e scuro può modificare la percezione di una superficie che pare così differente da quello che è in realtà.
È ormai un dato acquisito che l’immagine di un disco – disegnato o fotografato – che risulti illuminato o comunque, più chiaro nella parte alta, viene percepito come una sfera (fig.1bc).
Al contrario, se la zona meno scura si trova in basso, l’effetto che si ricava è quello di una scodella, ossia di una superficie convessa (fig.2bc).
Se, infine, l’illuminazione risulta laterale, il cervello fa fatica a leggere con certezza le informazioni plastiche e, quindi, legge la superficie, alternativamente, ora come
Maurits Cornelis Escher
Su e giù, luglio 1947
litografia in colore marrone, 503x205 mm
sporgente, ora come rientrante (fig.3bc).
Maurits Cornelis Escher sfrutta questo principio di percezione visiva ben noto agli studiosi della Gestalttheorie, in una celebre litografia presente in mostra (fig.4bc), intitolata, proprio Concavo/Convesso. Al di là dei diversi accorgimenti prospettici, infatti, è proprio il tipo di chiaro-scuro che indirizza nella percezione visiva della superficie, come dimostra il fiore di loto decorativo, collocato sotto la colonna al centro che, non per nulla, è illuminato lateralmente, risultando, così, alternativamente concavo e convesso.
LA TASSELLATURA.
Buona parte della produzione artistica di Maurits Cornelis Escher è stata dedicata al tema-problema della divisione periodica del piano, detta tassellatura, tassellazione o piastrellatura perché, in realtà, è come se si posizionassero dei tasselli o delle piastrelle sul pavimento. L’attenzione del grande artista olandese, si può dire sia connaturata con i suoi interessi più vivi, perché abbiamo in questo senso esempi assai precoci fra le sue opere, come Otto teste realizzata nel 1922 all’età di ventiquattro anni.
Tuttavia, è innegabile (e lo afferma lui stesso) che la sua ricerca si sia avviata decisamente in questa direzione dopo il 1937.
Le ragioni di questa scelta furono sostanzialmente due: l’interesse per la decorazione moresca dell’Alhambra, visitata per la seconda volta nel 1936, e l’impossibilità di rimanere in Italia per insofferenza del regime politico di allora che, per conseguenza, – lo spiega chiaramente – gli tolse la possibilità di trarre ispirazione dal paesaggio italiano, profondamente amato.
Per questo motivo, ricorse a quelle che definì le proprie «immagini interiori».
Alla base della creazione di queste «immagini interiori» c’è la ricerca della divisione regolare del piano che segue chiare regole geometriche, da Maurits Cornelis Escher sistematicamente indagate con una serie di studi che rifulgono per bellezza e precisione esecutiva.
Bisogna infatti sapere che le leggi che regolano la tassellatura sono in sostanza quattro:
1. La simmetria bilaterale (riflessione), quella che presiede alla specularità delle due metà della nostra faccia (fig.1).
2. La simmetria radiata (rotazione), quella che regola la forma di una margherita o di una stella marina (fig.2).
3. La simmetria di traslazione, ovvero quando si trasporta un elemento da una parte all’altra del piano, come fa l’addetto alle segnalazioni navali con le sue bandiere (fig.3).
4. La glisso-riflessione che è una combinazione dei punti 1 e 3, ovvero di riflessione e traslazione, come accade nella disposizione delle foglie di un ramo di ulivo (fig.4).  
La combinazione di questi movimenti di base, può produrre una serie di combinazioni pressoché infinita, ma – di fatto – esistono soltanto 17 gruppi di simmetria planare, come ha dimostrato il matematico russo Evgraf Stepanovic Fëdorov (1853-1919) nel 1891. Sono questeforme di tassellatura definite «isometrie» perché le trasformazioni cui è sottoposto il modulo (o pattern), vale a dire movimenti e spostamenti, non influiscono su quello (ossia la “piastrella”, per intenderci) che mantiene inalterate le caratteristiche misurabili ( cioè la lunghezza dei lati e l’ampiezza degli angoli). Infatti, alla lettera «isometria» vuol dire con la stessa misura. 
Questi studi di catalogazione furono utilizzati da Fëdorov anche per la classificazione dei cristalli, giacché era anche un mineralogista. Dalle sue ricerche sono derivate le sigle internazionali che a tutt’oggi sono impiegate per individuare ciascuna isometria.
Così, la lettera p sta per «primitivo», quando il piano è suddiviso in un reticolo costituito da copie del pattern primitivo che non contengono al loro interno altri punti del reticolo.
La lettera c, invece, indica un «reticolo centrato», ovvero quello in cui il modulo di partenza si moltiplica in una struttura rettangolare di celle non-primitive.
La lettera m è l’abbreviazione dell’inglese mirror «specchio» ed indica il processo di riflessione del pattern originario.
La lettera g è l’iniziale dell’inglese glide «scivolo» ed indica il processo di glisso-riflessione.
Accanto a queste lettere, sono generalmente collocati dei numeri che indicano le rotazioni (2, 3, 4, 6) di ordini corrispondenti. Il numero 1 si utilizza per una trasformazione identica, ossia per l’assenza di rotazione.
A questo punto, è possibile classificare anche le opere di Maurits Cornelis Escher e soprattutto i suoi acquerelli nei quali ha potuto sperimentare tute e 17 le possibilità di divisione periodica del piano.
Così, un’opera come Otto teste (fig.5) si può classificare p1 perché il pattern primitivo, costituito dalle otto teste, è ripetuto secondo una trasformazione identica.
Al contrario, un acquarello (fig.6) come quello che Escher cataloga con il numero 115, può essere classificato come p2 perché il pesce rosso e il volatile bianco (una sorta di colomba) fanno due rotazioni, come lo stesso artista indica nell’annotazione a margine.
La sigla p3, invece, individua bene l’acquarello n° 25 che rappresenta tre lucertole colorate disegnate secondo una triplice rotazione che considera la testa come fulcro (fig.7).
L’acquarello n° 35 (fig.8) che, pure sfrutta l’immagine di piccoli sauri, come lucertole o ramarri, va classificato come p4 perché i centri di rotazione vanno individuati nelle code e nelle teste degli animali dello stesso colore.
Le farfalle disegnate e colorate nell’acquarello n°70 (fig.9), poi, sono classificabili come p6 dal momento che subiscono rotazioni di ordine 6 a livello dell’angolo superiore dell’ala sinistra della farfalla, mentre rotazioni di ordine 3 si hanno a livello dell’angolo inferiore dell’ala destra.
Il cavaliere dell’acquarello n°67 (fig.10), invece, presenta una tipologia più complessa (pg), dal momento che è stata applicata da Escher unaglisso-riflessione lungo l’asse verticale, con uno scivolamento verso l’alto o verso il basso (secondo il modulo di partenza che si vuole prendere in considerazione) del pattern originario che è pari alla metà dell’ampiezza della traslazione verticale.
L’acquarello n°91, con le sue file di scarabei nocciola chiaro e nocciola scuro (fig.11), può essere classificato come pm, ma pure come cm in quanto, il modulo originario, oltre a contenere riflessioni, si moltiplica in una struttura rettangolare di celle non-primitive.  Per questo, in sé, comprende due soluzioni diverse della divisione periodica del piano.
La sigla pgg, invece, è quella che meglio si adatta a classificare il bel disegno n° 46, acquarellato con la consueta maestria ed eleganza (fig. 12), per rendere quasi iridescente il piano affollato di pesci. Tutta la tassellatura è concepita in base a doppi movimenti di glisso-riflessione che s’incrociano fra loro perpendicolarmente. 
L’acquarello n° 89 (fig.13) può essere classificato come pgm in quanto sopporta una piastrellatura basata su un modulo che è sottoposto a due processi: quelli della riflessione e della glisso-riflessione. Anche in questo caso, considerando, la presenza dei colori, l’opera rientra nella tipologia dei pm, come l’acquarello n°91.
Sono presenti due ordini di riflessioni che s’incrociano a perpendicolo nell’acquarello n°81 (fig.14) che, perciò, può essere classificato come pmm, giacché vi convivono quattro generi di figure: colombe, diavoli, farfalle e tafani.
A differenza di quest’ultimo acquerello, quello contrassegnato dal numero 122 (fig.15) può essere classificato con la sigla cmm, visto che è caratterizzato da una doppia riflessione, ma diversamente dal precedente, il modulo di partenza si moltiplica in una struttura rettangolare di celle non-primitive e si apprezzano centri di simmetria che non appartengono agli assi di riflessione.
L’acquarello n°69 (fig.16), può essere classificato con la sigla p3m1 in quanto ci si trova dinanzi a rotazioni di ordine 3 nelle bocche dei pesci,  nelle teste e nelle code delle tartarughe, come pure nei becchi delle anatre. A questo si devono aggiungere assi di riflessione che passano per gli assi mediani dei corpi degli animali rappresentati.
Una variante della tipologia precedente è costituita dall’acquarello n° 53 che rappresenta dei pagliacci stilizzati, rappresentati in positivo e negativo (fig.17). Per questo la sigla di riferimento è p31m che indica diversi ordini di rotazioni, di traslazioni e di riflessioni organizzate intorno a schemi triangolari. 
Un altro gruppo di tassellatura può essere indicato con la sigla p4m e corrisponde ad una costruzione molto semplice quale può essere quella dei quadrati che costituiscono l’incipit di Metamorfosi II.
Lo schema di tassellatura che corrisponde alla sigla p4g, consiste in rotazioni di ordine 4 e glisso-riflessioni che troviamo in opere come Angeli e demoni (fig.18) del1941, poi ripresa nel 1960 in una versione più complessa.
Infine, la sigla p6m individua lo schema di tassellatura di un’opera elaborata come l’acquerello n° 79, le cui farfalle son sottoposte ad una rotazione di ordine 6 ed a riflessioni sull’asse che tengono conto del modulo esagonale sottostante.
METAMORFOSI.
La riflessione di Maurits Cornelis Escher sull’idea della forma, con l’aiuto delle conoscenze relative alle leggi della visione (Gestalttheorie) e quelle che regolano i procedimenti della divisione regolare del piano
(tassellatura o tassellazione che dir si voglia), guidò il grande artista olandese verso la realizzazione di una delle più straordinarie incisioni che sia mai stata concepita: Metamorphose. L’opera, da considerarsi come la sintesi della ricerca dell’artista, si basa sull’idea che, grazie alle leggi geometriche ed a quelle appena citate, da una forma ne possa nascere un’altra, connessa alla prima, ma del tutto diversa da quella. L’opera qui esposta è la versione intermedia fra Metamorfosi I, del 1937 e Metamorfosi III, realizzata dal 1967 al 1968, con un ulteriore inserto di circa tre metri, che porta l’intera incisione alla lunghezza di quasi settecento centimetri. L’altro concetto che sottende questa straordinaria realizzazione è quello di kringloop, ossia di «ciclo» che propone un fantastico viaggio fra le forme sviluppate in modo del tutto inaspettato e affascinante, fra due identici fuochi di origine e conclusione. Questo ‘fuoco di congiunzione’ fra l’inizio e la fine di tutto l’itinerario è costituito dalla parola olandese metamorphose che è praticamente identica a quella latina, calco della matrice greca la quale in tal modo, conferisce al termine una profondità temporale in piena sintonia con il tumultuoso intreccio di forme concepito da Escher. La parola, è dotata di due «o» che permettono l’incrocio verticale in quei punti di due scritte identiche. Inoltre, la «m» iniziale, se posta verticalmente, può divenire, con una minima forzatura, una «E» a stampatello. Con questi pochi accorgimenti, l’artista olandese, riesce a trasformare la parola nel filo di un ordito che, “annodandosi” nei punti appena descritti, scandisce lo spazio in quadrati incorniciati dalla scritta. Ben presto la cornice si assottiglia e dall’intreccio nasce una scacchiera in bianco e nero. A poco a poco, i bianchi della scacchiera si trasformano in rombi che danno l’impressione della piega in una coperta. Questi si frastagliano ulteriormente ai lati e divengono rapidamente ramarri bianchi, neri e rossi, subito mutati dal capriccio dell’artista in esagoni… come quelli di un alveare. Non si fa in tempo a pensarlo che proprio dalle celle di un favo iniziano ad uscire api svolazzanti che hanno appena finito di accudire le larve. Il volo delle api, però, dura poco perché il loro corpo cresce, cresce e trasmuta in quello di neri colibrì che di lì a poco si rivelano per quello che sono, ossia spazi vuoti incastrati fra le sagome di candidipesci che nuotano in senso contrario. I pesci prendono sempre più corpo e sono descritti con striature nere e squame che ben presto scolorano nel bianco della sagoma iniziale la quale si spande fino a divenire il cielo nel quale volano colombe nere. Il loro stormo ordinato si staglia su un fondo bianco nel quale, ad un certo punto, fra un volatile e l’altro compare una presenza rossa, una sorta di croce che via via s’ingrandisce e si rivela come un altro uccello rosso, colombiforme come gli altri due bianchi e neri che sono via via emersi per incastrarsi fra loro. I tre colori permettono di tornare a forme geometriche configurate in rombi che costituiscono le facce di un cubo il quale si moltiplica e si trasforma nella plastica evidenza dell’abitato di Atrani che si conclude con l’edificio della cattedrale a picco sul mare. C’è però ancora un’altra sorpresa: il ponte che finisce con una torretta. È un’invenzione del grande artista che gli permette di trasformare il mare di nuovo in una scacchiera. Ormai il gioco si conclude e si torna alla parola iniziale. 
I NASTRI DI MÖBIUS.
Non di rado Maurits Cornelis Escher ha utilizzato per le sue opere quella singolare figura geometrica che è il nastro di Möbius, detto così dal nome del matematico ed astronomo tedesco August Ferdinand Möbius (1790-1868) che ne descrisse per primo le caratteristiche. Com’è noto, si tratta di una «superficie non orientabile» (fig.1) nota alla storia dell’arte fin dai mosaici romani del III secolo d.C. «Si prende una striscia rettangolare di carta, le si fa fare mezzo giro nel senso della lunghezza, e si incollano poi i due lati corti fra loro (se non si fa fare il mezzo giro si ottiene un cilindro). La striscia di Möbius ha un solo lato e un solo bordo. Inoltre non è orientabile, nel senso che su di essa non si possono distinguere i versi orario e antiorario (o le mani destra o sinistra): una trottola che giri in un certo verso e percorra tutta la striscia, quando torna al punto di partenza si trova a girare nella direzione opposta.» (P. Odifreddi, La matematica del Novecento. Dagli insiemi alla complessità, Torino 2000, p. 78).
Il fascino di questo oggetto tanto reale quanto mentale, dipende dal fatto che sembra porre in discussione le leggi della geometria e dello spazio offrendosi ai nostri occhi quasi come un’aberrazione che ci proietta verso l’infinito. Per questo Maurits Cornelis Escher ne ha fatto uso in più di un’occasione, a cominciare da Predestinazione presente in mostra (fig.2) che l’artista stesso ha commentato così, con un filo di cinica ironia: «Dalle parti estreme della fascia che lentamente scompare appare… un pesce nero e diabolico e un uccello bianco e innocente, condannato purtroppo irrevocabilmente a morire. Il destino di entrambi si compie in primo piano.».
In questo caso, però, come pure in Cigni del 1950 (fig.3), il nastro di Möbius costituisce lo schema compositivo sul quale è impostata l’incisione. Al contrario, in Möbiusstriscia I, del 1961 (fig.4), il nastro diviene protagonista con i suoi incroci magici ed in apparenza inestricabili. Tuttavia, l’immagine più celebre fra quelle di Escher che impiegano questa figura geometrica è Möbius striscia II, del 1963 (fig.5) nota anche come Formiche rosse, che – se viene collocata orizzontalmente –, mima il simbolo dell’infinito (8), uno dei temi che Maurits Cornelis Escher predilige.
LE COSTRUZIONI IMPOSSIBILI.
La ricognizione intorno a quell’universo affascinante che è il mondo di Maurits Cornelis Escher non sarebbe completa se non prestassimo attenzione a quelle costruzioni in apparenza perfettamente logiche, come Belvedere del 1958, Ascendente e discendente del 1960 e Cascata d’acqua del 1961 che – in realtà – appartengono alla categoria degli oggetti impossibili.
Questi, secondo la definizione di Zenon Kulpa (Arte Impossible, Figure possible ?, in Signal Processing V, 3, 1983, pp. 201-22), che ne ha anche realizzati diversi, sono figure piatte che danno di l’impressione essere tridimensionali, ma che, di fatto, non possono essere realizzate nel mondo materiale con quelle caratteristiche pena la constatazione d’incolmabili contraddizioni. Uno degli esempi più semplici è quello della «tribarra» o triangolo impossibile (fig.1) che, studiato e scoperto da Oscar Reutersvärd, permette il passaggio visivo dall’esterno all’interno delle facce che lo costituiscono come se fosse un nastro di Möbius. Solo che quest’ultimo si può realizzare mentre la tribarra no. Infatti, il modello presentato da Kulpa, per ottenere quell’effetto, è rotto e, solo adottando un particolare punto di vista si recupera, ma solo visivamente, la sua caratteristica (fig.2).
La stessa cosa accade per il «cubo impossibile», o «cubo di Necker» (fig.3), dal nome dello studioso di cristallografia svizzero Louis Albert Necker che lo pubblicò nel 1832, tenuto in mano dall’omino medievale in Belvedere (fig.4). Quel solido particolare ha la faccia anteriore e quella posteriore avanti e dietro contemporaneamente. Escher è talmente preciso che, nei foglietti che sono distrattamente caduti per terra, ha diligentemente segnato, con due cerchi, i punti di paradosso di questo «oggetto impossibile» che costituisce lo schema di base dell’intera costruzione architettonica. 
L’interesse per gli «oggetti impossibili», in Maurits Cornelis Escher, si acuì con gli studi dei matematici e psicologi inglesi Lionel e Roger Penrose (padre e figlio) che – all’indomani di una visita alla mostra di Escher del 1954, allestita per l’International Mathematical Conference, dove erano relatori – teorizzarono la raffigurazione di quelle aberrazioni geometriche (Impossible Objects: A Special Type of Visual Illusion, in British Journal of Psychology, 49, 1, 1958, pp. 31-33).
Infatti, alla base di un’opera come Ascendente e discendente, ci sono gli studi dei Penrose che definirono lo schema geometrico della «scala impossibile», dove l’ultimo gradino, finisce percoincidere con il primo dal quale si era partiti (fig.5). Perciò, anche questo oggetto può essere soltanto disegnato. Il che non significa che l’effetto – nella bella litografia di Maurits Cornelis Escher – non sia assolutamente convincente, perché, spiega l’artista: il piccolo monaco sale «…sempre più un alto di un gradino. Eppure, dopo un giro, ci ritroveremo al punto di partenza, poiché pur essendo saliti, non siamo approdati più in alti di un centimetro.» (fig.6).
Infine, l’intera costruzione di Cascata d’acqua (fig.7) è stata concepita dall’artista olandese, sulla base del principio della tribarra e, di fatto, si configura come la sovrapposizione di tre triangoli impossibili, dei quali il lato sinistro di due, è coperto dalla cascata d’acqua che scroscia verso il basso, per muovere la ruota del mulino. Nella scelta, si può leggere un omaggio alla terra italiana e a quella olandese, paese dei mulini a vento che qui vengono evocati da quello ad acqua, molto meno comune nelle Fiandre.
Tuttavia, quel che qui interessa sottolineare è che, anche in questo caso, non è possibile realizzare questo oggetto concretamente, se non a patto di smontarlo (fig.8) e di far convivere con il mondo reale, le aberrazioni che lo caratterizzano, grazie ad accorgimenti prospettici, ovvero osservando la struttura smontata da un unico, preciso punto di vista. 

 

 

 






2013-11-28


   
 

 

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