DAL VERO
PER UNA STORIA DEL PAESAGGIO: LA SCUOLA Di POSILLIPO
 







di Luisa Martorelli




Giacinto Gigante
la chiesa di Sant’Arcangelo a Cava
1842, olio su tela, cm.50x76

IL PAESAGGIO DELLA SCUOLA DI POSILLIPO COME PRINCIPIO DI ARTE MODERNA
Nella storia dell’Ottocento il capitolo dedicato alla Scuola di Posillipo riveste un significato importante per tutto il progresso dell’arte napoletana, compresa l’arte dei pittori dell’Accademia, perché il "paesaggio ha una larghissima parte nella pittura moderna", come ebbe a dire Francesco Netti, "quanta non ebbe mai nelle epoche decorse". Netti è pur consapevole del fatto che tale processo innovativo non deriva da una nuova invenzione del modo di fare paesaggio, perché "noi non abbiamo inventato nulla in arte", ma non può non affermare come attraverso il paesaggio si sia raggiunta la strada della verità e in definitiva della pittura moderna, offrendo l’opportunità di un cambiamento e di una revisione dei metodi dell’arte anche a tutti coloro che praticavano pittura di storia.
La riflessione post quem di Netti, scritta a proposito della presenza degli artisti italiani all’Esposizione universale di Parigi del 1867, cade in un momento storico di acquisizione delle istanze di "libertà" raggiunte dopo l’unificazione nazionale, alle quali si erano consegnati anche i nuovi pittori del verismo storico svincolati dall’impaccio figurativo delle convenzioni della "copia dalla statua" o "dal nudo" di stampo accademico. Una vera e propria battaglia, quella degli artisti di paesaggio, e l’osservazione diretta del dato naturale si propone non solo come un baluardo, seppur non dichiarato, contro l’Accademia, ma anche come l’unico obiettivo possibile da perseguire, assieme a quei principi e ideali di verità che erano diventati, in tempi di sostanziale difficoltà politica, un’insopprimibile esigenza dello spirito.
Alle considerazioni di Netti, che percepisce nel valore del paesaggio uno stato di progresso delle arti in genere, si accosta la voce eloquente di Pasquale Villari. Nella stessa circostanza storica (1867) Villari formula con risoluta consapevolezza una concezione molto simile a quella di Netti, esaminando quanto era avvenuto a Napoli nei quattro decenni che avevano preceduto l’Unità d’Italia, ed elabora, in un contesto di rivalutazione europea, la celeberrima opinione sulla Scuola di Posillipo, consacrata a questa denominazione ufficiale proprio a partire da quella data:
La bellezza del clima, i paesaggi stupendi che circondano Napoli, e i molti forestieri che ne chiedono sempre qualche ricordo disegnato e dipinto, avevano fatto sorgere un certo numero di artisti i quali, come per disprezzo, erano dagli accademici chiamati della Scuola di Posillipo, dal luogo dove abitavano per essere più vicini ai forestieri. Essi non facevano in origine che copiare vedute, ma gli inglesi hanno generalmente molto gusto per questi lavori, li giudicano e li pagano bene. Fu perciò necessario migliorare, e la Scuola di Posillipo fece infatti progresso, e crebbe di numero.
Anche Villari trova un nesso di continuità tra la Scuola di Posillipo e il naturalismo di Filippo Palizzi, e percorre la strada della "riconsiderazione" della pittura di paesaggio in un contesto di raffronto assolutamente sprovincializzato quale quello dell’Esposizione universale di Parigi, per una riflessione più generale sullo stato della pittura moderna in Italia e in Francia dopo il 1860.
In tono più appartato, ma partecipe dello stesso registro di contenuti, si aggiunge qualche anno più tardi il contributo critico di Vincenzo Bindi, proiettato a riscoprire in epoca moderna il primato della pittura di paesaggio a Napoli, con un particolare riconoscimento a Pitloo che "aveva migliorato le condizioni di tutti i pittori di quell’epoca" (gli accademici Carta, Marsili, Cammarano, Angelini, Bonolis e altri). Una voce "di provincia", quella di Bindi che, tuttavia, ha motivo di essere accostata alla critica degli autori precedentemente citati per la comune matrice di una formazione idealistica, coltivata alla scuola di
Antoon Sminck Van Pitloo
Napoli dalla spiaggia di Mergellina
1829 olio su tela cm.35X48
Francesco De Sanctis e, nel caso specifico di Bindi, sostenuta dall’insegnamento di Giuseppe De Blasiis.
Nel 1900 anche Domenico Morelli, oramai anziano protagonista di quel periodo storico, nel commemorare Filippo Palizzi, riconferma la linea dei predecessori e il ruolo prioritario e decisivo assunto dalla "famiglia" artistica della Scuola di Posillipo, che aveva dato loro "una spinta alla riforma della pittura fra noi", sottolineandone la consapevolezza e l’efficacia dei risultati e dei metodi, che si fondavano interamente sullo studio del vero:
Essi dipingevano, studiando sempre all’aria aperta: era naturale che censurassero i "figuristi" che dipingevano dal modello, con la luce dello studio, mentre volevano rappresentare scene all’aria aperta.[…] I paesisti ci misero sull’avviso […] la loro critica colpiva nel segno.
Per Morelli il movimento dell’arte moderna trae origine dall’arte del paesaggio della metà del secolo xix, che con la Scuola di Posillipo, e in special modo con Gigante a Napoli, "si allargò poi in tutta Italia" seguito, poi, da Filippo Palizzi, considerato il vero riformatore dell’Arte Nuova. Uno stesso percorso viene proposto da Pasquale Lubrano Celentano, che trova una risposta al quesito posto in forma di saggio critico in Esiste un arte moderna ín Italia?, nel quale viene sollecitato da parte della critica francese a far fronte a una inerte polemica di natura nazionalistica sul primato dell’arte moderna, mentre egli avverte la necessità di ancorarsi al carisma istituzionale di Morelli, al quale si sente legato sia per formazione ideologica, sia per la volontà di mantenere in vita l’eredità dei valori post-unitari del verismo storico, nei quali aveva creduto:
La scuola di Posillipo, novella scuola di Barbizon, perché, come quella, aveva per base delle sue ricerche il vero, dato il genere di quadretti, di acquerelli e di vedute che producevano gli artisti del cenacolo, ebbe come maggiore rappresentante Giacinto Gigante.
A questo punto, per la prima volta, emerge la personalità di Giacinto Gigante, decisamente l’artista trainante del gruppo, "precursore del movimento pittoresco moderno", stando a un giudizio espresso già all’esposizione biennale del 1903, dove ne era stata organizzata una piccola mostra e ne veniva rievocata la figura d’artista, succeduta alle retrospettive dedicate a Favretto nel 1899 e a Fontanesi nel 1901. Il 1903 segna anche la data d’inizio della fortuna critica di Gigante, in campo nazionale, nel Novecento. Gli acquerelli di Gigante esposti in quella circostanza, tra l’altro, provengono dal Museo di Capodimonte e dalla collezione dei duchi Correale di Terranova, che in quell’anno legarono tutta la loro raccolta alla città di Sorrento.

"IO MI TROVAVO A NON AVER BATTUTO LA STRADA DELL’ISTITUTO, GIACCHE’ STUDIAVO SEMPRE DAL VERO" (GIGANTE). LE "MEMORIE" DI GIGANTE E LA FORMAZIONE COSMOPOLITA DEI PAESISTI NEGLI ANNI VENTI A NAPOLI.
Il fulmine aveva schiantato il superbo pino, che fra gli altri signoreggiava nella masseria di Nicola, sulla tomba di Virgilio a Posillipo.
Non lo dire a don Giacinto! disse a suo fratello don Gonsalvo Carelli. Se don Giacinto sa che stanotte è morto il pino, le vene nu tuocco e more isso pure!
E don Giacinto pianse, pianse quando seppe che il magnifico pino era divelto, pianse come se una persona cara gli fosse venuta a mancare.
E’ indicibile l’amore che questi artisti, così detti della Scuola di Posillipo portavano a tutto ciò che forniva nel paesaggio napoletano il soggetto dei loro studi, della loro produzione.
Un’analisi critica del testo stralciato dalla memoria di Eduardo Dalbono sulla Scuola di Posillipo, scritto intorno agli anni settanta per fermare un ricordo già tardo di quella storia, ci porta a superare la convenzione del racconto aneddotico, diventato strumentalmente uno stereotipo figurativo dei prodotti raffiguranti la veduta del
Massimo Taparelli D’Azeglio
Castel dell’Ovo con pescatori
1835 olio su tela cm.34.2X44.5
golfo di Napoli fino ai giorni nostri, e a ritrovarvi contenuti tre aspetti essenziali della scuola che andremo a esaminare: il legame di questi artisti ai luoghi, con la relativa fortuna dei repertori iconografici; l’evoluzione romantica della topografia della città, osservata dall’alto della tomba di Virgilio con il superbo pino che fa da cornice alla scenografia naturale, rappresentata in quel contesto dall’ouverture di un luogo comune paesaggistico che rimbalza fino a epoca moderna; il riconoscimento che Gigante è il grande interprete della Scuola di Posillipo.
La Scuola nasce, infatti, intorno agli anni venti, un decennio di formazione molto importante per tutti gli artisti della prima generazione (Raffaele Carelli, Vianelli, Gigante e i Fergola) che lavorano a Napoli, dove è in fiorente attività il Real Officio Topografico, culla di addestramento per molti di loro. In quegli anni viene adottato un nuovo strumento ottico di trascrizione del paesaggio, la "camera lucida", una cassetta di invenzione anglosassone (facile da usare nei rilievi all’aria aperta, ma utile anche a delineare il contorno di un ritratto in atelier) che agevola il lavoro dei disegnatori e dei cartografi impegnati alla realizzazione della mappa topografica di Napoli e dintorni. Nel Real Officio Topografico si lavora con la camera lucida e si utilizza il primo torchio litografico fatto venire da Vienna. Allo stesso tempo sono già documentati a Napoli due stranieri di grande portata, l’olandese Antoon Sminck van Pitloo che, dopo essere stato per cinque anni a Roma si stabilisce a Napoli con un suo studio privato, e il tedesco Jakob Wilhelm Huber, a Napoli dal 1819 al 1821, giusto il tempo per lavorare alla collezione delle Vedute pittoresche dell’antica città di Pompei per Rodolph Múller, litografo del ministro dell’Interno. I primi anni del secondo decennio rivelano un interesse fortissimo (ovviamente per la qualità dell’offerta del lavoro) per gli artisti stranieri impegnati nel disegno di paesaggio finalizzato alla traduzione litografica. I recenti contributi sulla litografia a Napoli, classificata da Vladimiro Valerio in un primo periodo dell’"incunabolo della litografia" dal 1816 al 1822 e in un secondo che termina nel 1825, aprono un capitolo inedito su questo fronte, utile a comprendere una concomitanza di interessi tra i disegnatori del paesaggio e la nuova visione en plein air dei pittori romantici. Dagli interessi litografici non si esime il Pltloo, autore di un raro ed eccezionale "Primo saggio di litografia napolitana", presumibile prova di ammissione per un impiego pubblico. Questa prova, è da collocare tra le prime esperienze del maestro a Napoli, forse intorno al 1818. Vi è riconoscibile l’adesione a un naturalismo ancora fedele ai canoni dei Principi di disegno di paese (incisi da Vincenzo Aloja nel 1814), corroborato da una conoscenza diretta dei modelli del paesaggio classico derivatigli dalla formazione acquisita dai maestri francesi.
Presso l’acquerellista tedesco Huber compiono il loro primo apprendistato Achille Vianelli e Giacinto Gigante, che imparano a dipingere il paesaggio dal vero con l’acquerello.
Gigante è l’interprete più originale nella storia del paesaggio moderno napoletano, testimone sin dalle origini di quel periodo intenso di confronto tra napoletani e stranieri, da lui raccontato attraverso le scritte in calce ai disegni a matita suoi o della sua raccolta, sempre autografate di suo pugno, tracce di una memoria autobiografica apposta sul documento visivo che si è andata riscontrando anche su acquerelli, disegni a matita e a inchiostro, gelosamente custoditi dal pittore nelle proprie "cartiere" da disegno. Si tratta di un intervento di trascrizione sorto quando Gigante era già anziano, probabilmente per l’esigenza di mettere in ordine i numerosi fogli sparsi della sua collezione, che assume, chissà se consapevolmente, il valore di un testamento autobiografico. Lo studio di questa raccolta privata, andata
Giacinto Gigante
Il palazzo reale dal palazzo del principe di Salerno
dispersa dopo la morte del pittore, ma che ha trovato in gran parte, per nostra fortuna, una confluenza nelle collezioni pubbliche, ha consentito di "ritrovare" la Scuola di Posillipo nell’insieme delle relazioni e delle circostanze storiche del tempo; pertanto, i preziosi disegni di Gigante, con le scritte aggiunte in calce, evocano indissolubilmente, insieme ai luoghi della memoria, frammenti di storia di quel periodo.
Un esempio è la "Veduta di Pompei, Porta Ercolano", acquerellata a inchiostro, sulla quale Gigante riporta l’appunto: "Questo disegno fu disegnato colla camera lucida dal mio maestro Huber nel
1816". Il disegno offre l’opportunità non solo di ricondurre l’esemplare a una fase molto precoce della formazione di Gigante presso Huber, che durante le escursioni a Pompei usava la "camera lucida", ma anche di restituire l’esemplare nell’originalità del foglio preparatorio alla stampa acquerellata per "Les deux sièges sépulcrals dans la rue des tombeaux", finalizzato alla serie delle Vedute pittoresche dell’antica città di Pompei, litografata da Muller tre anni più tardi.
Sono testimonianza del periodo delle origini altri fogli già menzionati da Sergio Ortolani, il quale, attingendo alle più svariate fonti di conoscenza, ha realizzato la più complessa, stimolante e intricata ricerca prodotta fino a ora sull’artista e sul paesaggio napoletano. Tra tanti fogli, "Case a Posillipo", un modesto disegno a matita, reca una lunga scritta importante tanto per la ricostruzione della biografia di Gigante, quanto per il tessuto di relazioni tra arti committenti nella complessa e fervida congiuntura culturale del secondo decennio dell’Ottocento, ricco di novità e decisivo per la sorte di molti paesisti napoletani:
Questo fu il primo disegno che feci dal vero a Posillipo in compagnia di Vianelli ed un tale Lorenzo vestito a nero e questo credo che fu sul principio che cominciai a studiare con Huber nel 1820, in questo studio non stetti che pochi mesi, giacché il mio maestro se ne partì da Napoli e allora pregai Pitloo, ed andai al suo studio unito a Vianelli. Pitloo ci conosceva da Huber giacchè veniva spesso a trovarlo e lavoravano entrambi per il duca di Berwick.
Nella debolezza del tratto giovanile a matita, tuttavia rilevato con la camera lucida, il foglio denuncia uno stato di fatto dei rapporti tra i giovani apprendisti Gigante e Vianelli con i maestri stranieri Huber e Pitloo, ai quali essi attingono tutto ciò che può essere loro utile per costruire una trama di interessi artistici, oltre che personali (Gigante sposò Eloisa, sorella di Vianelli), che li porterà a percorrere, almeno per un decennio, strade comuni. Soprattutto grazie all’insegnamento di Huber, entrambi gli artisti sono pronti a realizzare più facimente il disegno preparatorio alla stampa litografica. Questa palestra di addestramento li renderà gli interpreti principali nella preparazione delle vedute che sarebbero servite alla pubblicazione più impegnativa dei primi cinquant’anni dell’Ottocento, il Viaggio pittorico nel Regno delle Due Sicilie (1829-1832), espressione di cultura editoriale che si qualifica e si identifica come napoletana, ma che ha intenti progettuali e aspirazioni di respiro europeo, frutto dello sforzo di due editori quali Domenico Cuciniello e Lorenzo Bianchi, che si consociarono per le finalità ambiziose dell’impresa. Oltre a Vianelli e Gigante collaborano ai tre volumi, che contengono 180 siti (luoghi archeologici, paesaggi pittoreschi e interni monumentali), i paesisti Raffaele Carelli e Salvatore Fergola, il tedesco Carl Goetzloff e il belga Frans Vervloet, che coinvolge il pittore bassanese Antonio Marinoni, conosciuto alla scuola di Verstappen.
Per gli artisti stranieri è sicuramente determinante quest’ambiente artistico così vario e cosmopolita che, per motivi diversi, conduce alcuni di loro, da Dahl a Rebell a Catel, a un passaggio obbligato per Napoli, mentre altri ancora, quali l’olandese Pltloo e Vervloet,
Antoon Sminck Pitloo
Castel dell’Ovo dalla spiaggia
[ante]1824, olio su tela cm.75x103
decidono di stabilirvisi con programmatica continuità.
La capitale del Regno, destinata per volontà dinastica, fin dal Settecento, a una grande tradizione istituzionale di pittori di paesaggio alla Camera Reale, contempera una cultura del paesaggio di tradizione illuminista e di matrice hackertiana con una tradizione classicista di matrice lorenese trasferita ai moderni pittori francesi di paesaggio, Boguet, Denis e Dunouy, che con i romantici Granet e Forbin animano la corte di Napoli durante il decennio murattiano.
Tuttavia, la percezione del paesaggio italiano offerta dagli stranieri è sempre vissuta in termini di accentuata drammaticità atmosferica, e questa "sensibilità meteorologica", come sottollineava già Federico Zeri in tempi privi d’interesse specialistico per il paesaggio dell’Ottocento, lega per salti artisti diversi come Thomas Jones e Pierre-Henri de Valenciennes. Quest’ultimo è il più attento osservatore della fisionomia del cielo, e nelle sue tele si avverte molto la vibrazione della luce nel rapporto atmosferico. La percezione dell’Italia, durante gli anni venti del xix secolo, è sempre quella degli splendidi paesaggi dove luce, nuvole e variazioni cromatiche si calano al variare delle stagioni. A tali emozioni così intense si aggiunge il folclore romanzesco e arcaico della gente d’Italia che equilibra lo scenario paesistico con quello maestoso, il drammatico con il mitizzato, e ha un singolarissimo interprete in Léopold Robert, a Roma. C’è un rapporto di scambio molto significativo tra gli artisti che sono venuti a dipingere il paesaggio a Roma, capitale delle arti che, attraverso l’Accademia di Francia e altre istituzioni nazionali che accolgono i pensionati, congregazioni religiose e massoneria, gioca un ruolo determinante come crocevia di scambi e di esperienze tra artisti di varie nazioni; ciò assume importanza per la diffusione della pratica e della conoscenza delle tecniche artistiche.
 
PITLOO E LE NUOVE TECNICHE DELLA SCUOLA FRANCESE
Queste circostanze introducono il discorso sulla personalità dell’olandese Antoon Sminck van Pltloo, il quale, dopo il rifiuto del rinnovo del Pensionato a Roma, dove aveva soggiornato con una colonia di connazionali (Voogd, Teerlink, Verstappen), si trasferisce a Napoli nel 1816.
La sua formazione a Parigi prima del viaggio a Roma (presso Bidauld o Bertin fino al 1811) è problematicamente discussa, tuttavia è indubbio che egli si serva delle esperienze formative e degli stimoli ricevuti dalla capitale francese per introdurre a Napoli per la prima volta la visione en plein air adottando la tecnica nuova della pittura a olio su carta.
L’utilizzazione della carta dipinta (intelata in un secondo momento) è un metodo che il maestro olandese potrebbe aver adottato successivamente al suo esordio in Accademia in qualità di detentore della cattedra di Paesaggio, la prima istituita in Italia, a partire dal 1824, sulla scorta delle riforme attuate all’interno dell’Istituto di Belle Arti, dopo l’apertura ai "generi" promossa all’epoca della seconda restaurazione dei Borbone. La novità del metodo di Pitloo sta nell’aver sovvertito il tradizionale studio del paesaggio elaborato a cavalletto introducendo l’osservazione dal vero della natura. Il paesaggio è dipinto direttamente sul foglio di carta che, quindi, fa parte del corredo propedeutico all’escursione all’aperto, e diventa uno strumento indispensabile all’artista.
Il dipinto su carta, montato su cartone o su tela. è un’innovazione di matrice francese in voga in tutta la prima metà dell’Ottocento, da Valenciennes a Corot. Contributi recenti confermano l’importanza del testo teorico del maestro Pierre-Henri de Valenciennes, Eléments de perspectíve pratíque à l’usage des artistes (1800), che con criteri moderni stabilisce non solo le regole della pittura del paesaggio di composizione classica, ma anche il rigore nell’osservazione scientifica
Giacinto Gigante
Porto Salvo
1842, acquerello su carta, cm.24.5x31.5
della natura, nell’analisi dei fenomeni ottici con le risultanze degli effetti della luce e dei colori.
L’intervento didattico intrapreso da Pltloo è da rivalutare nel segno della diffusione degli insegnamenti teorici e pratici ricevuti dalla scuola del paysage classique della tradizione di Valenciennes che rifonda metodi pratici di studio fondamentali e utili per tutta la pittura moderna. Attraverso una nuova concezione della natura e nuovi strumenti di lavoro, Pltloo supera la mera concezione idealistica e sublime dei suoi predecessori, raggiungendo l’obiettivo perseguito in comune con Valenciennes, dell’approccio diretto al vero, metodo di ricerca indispensabile praticato anche dal Valenciennes per il paysage composé, e soprattutto momento creativo e autonomo, portatore di significato per tutto il secolo moderno.
Il metodo della carta intelata, comunemente impiegato dal maestro Antoon Sminck van Pltloo (come si può riscontrare nella maggior parte dei dipinti conservati al Museo Correale di Sorrento) è usato anche da alcuni dei napoletani della prima generazione, quegli "anziani della Scuola di Posillipo" che avvertono le istanze innovative della lezione del maestro olandese e fondano i nuovi principi del paesaggio sullo studio dal vero della natura. Aspetti di innovazione tecnica si scorgono nella prima produzione a olio di Giacinto Gigante, nel "Lago di Agnano" (datato 1824) del Museo di San Martino, nel "Mercato a Castellammare" del Museo Correale di Terranova, straordinariamente vicino, come concezione di veduta, al "Porto di Castellammare" di Raffaele Carelli alla Pinacoteca Bindi di Giulianova, in tanti dipinti di Duclère al Correale, negli studi di paesaggio di medio e piccolo formato di Consalvo Carelli conservati a Giulianova. all’Accademia di Belle Arti di Napoli e presso il Museo di San Martino, in un arco cronologico che va dagli anni venti al 1845. Escludendo Achille Vianelli, che dopo l’apprendistato con Huber prosegue da specialista nel settore litografico editoriale, tralasciando quasi completamente la pittura a olio, gli altri due compagni, Carelli e Gigante, sono pronti a recepire le novità del maestro olandese mostrando, tuttavia, una cifra pittorica ancora irrigidita in schemi progressi. Sia nel "Porto di Castellammare" di Raffaele Carelli, sia nel "Mercato a Castellammare" di Gigante, pur nella sperimentazione del nuovo modo di fare paesaggio, i dipinti appaiono fermi alla volontà di rispettare i canoni dell’antica pittura di paesaggio animata con figure; in poche parole, il loro paesaggio sembra evocare modelli di prospettiva seicentesca attraverso un modo di rappresentazione delle figure concepito alla maniera di Callot.
La dipendenza dei paesisti napoletani dalla pittura di tradizione olandese, francese, e soprattutto dai napoletani del Seicento, da Salvator Rosa a Domenico Gargiulo, è molto forte. Anche nel percorso personale dell’artista più indipendente del gruppo e più libero dai vincoli accademici, qual è Gigante, l’unico che affronta le più esaltanti esperienze del paesaggio col mezzo dell’acquerello si ravvisa una profonda attenzione nei confronti degli antichi, a tratti audacemente rispettosa del passato, forse utile a colmare il suo disagio culturale nei confronti dei maestri di paesaggio o a sopperire all’assenza dei canoni di studio tradizionali praticati in Accademia.

VEDUTISMO E PAESISMO: TRA RINNOVAMENTO E TRADIZIONE
L’approccio innovativo della pittura dal vero trova riscontro nei contributi prodotti a uso dei viaggiatori dell’ottocento, come i Souvenirs pittoresques de Naples o gli Esquisses pittoresques, da parte delle nuove imprese litografiche d’Europa, a Parigi, Napoli o Zurigo. A partire dagli anni venti si rinnova il tradizionale ruolo di protagonista assunto dalla città di Napoli che, ancora una volta, con le sue bellezze naturali, oltre alle vicine Pompei ed Ercolano, si configura al
Salvatore Fergola
L’orto botanico di Palermo
1820, tempera su carta incollata su tela cm.71x126
crocevia degli interessi di una nuova domanda di mercato dell’immagine.
La circolazione prodotta da un nuovo mercato del lavoro induce molti italiani e diversi stranieri a stabilirsi a Napoli, a breve e a lungo termine; in tal senso, sono da annoverare non solo i pittori tradizionali più conosciuti, dai russi Kiprenskji, Bielschoffsky, Scédrin, ai tedeschi Carus, Blechen, Catel, Goetzloff, al danese Dahl, ai belgi Peter van Hanselaere e Frans Vervloet, allo spagnolo Romegas (presente alla prima Biennale borbonica del 1826), ma anche parecchie maestranze, fino a poco tempo fa del tutto ignorate perché occupa, vano un ruolo considerato "minore". Mi riferisco ai professionisti integrati, senza esclusione alcuna, negli ambienti dell’editoria napoletana, dai disegnatori di paesaggio e di genere, come Franz Wenzel, "napoletano d’adozione", o Rodolph Muller e Fredirich Horner, litografi del Viaggio pittorico o lo svedese Carl Johan Lindstróm(1801,1846), esperto di costumi napoletani che lavora e muore a Napoli.
Gli aspetti di rinnovamento e di apertura ai "generi" che vanno a esprimersi in un rapporto di continuità tra prodotto litografico e stampa fino alla nascita nel 1836 della rivista partenopea "Pollorama Pittoresco", dove un paesista napoletano quale Salvatore Fergola compare in veste di editore, lasciano campo aperto alle richieste sempre più numerose anche per la categoria dei pittori di paesaggio. Questi devono la loro fortuna al consenso ottenuto soprattutto fra i mecenati aristocratici dell’entourage della corte napoletana, oltre a quello del nuovo collezionismo borghese. Appassionati collezionisti di paesaggio, tra i Borbone, erano Leopoldo principe di Salerno (che prediligeva i francesi Dunouy, Denis, Boguet) e il principe Luigi conte d’Aquila che "ha tenuto continuamente la mano dello Smargiassi in attività", avendo acquistato molti suoi dipinti. Inoltre, vanno ricordati Maria Isabella di Borbone, che aveva incoraggiato personalmente il giovane Carelli, appena quindicenne, acquistandone l’acquerello della "Piazza della Vicaria", e, tra gli aristocratici più noti, il duca di Berwick, committente di Pitloo, Huber e Smargiassi, quest’ultimo decorato con la Legion d’Onore e molto amato dall’aristocrazia mitteleuropea di Parigi e Londra, ad esempio dal principe elvetico di Arenemberg, che lo aveva accolto in Svizzera. Infine, va sottolineato il ruolo determinante della committenza aristocratica russa, ricordata anche da Napier, e dello zar Nicola 1, che nel 1845, anno di celebrazione della cultura umanistica e scientifica del Borbone, conclamata al VII Congresso degli Scienziati a Napoli, commissiona due diverse vedute di Napoli a ognuno degli artisti di paesaggio più rinomati del momento, Carelli, Smargiassi, Gigante e Vervloet.
Non si può sapere quanto costoro siano stati influenzati dalla committenza, ma è certo che i rapporti tra committenti e artisti condizionano questi ultimi nel ricorso ai modelli della tradizione. Basterà ripercorrere gli appartamenti storici del Museo di Capodimonte o dei Palazzi Reali di Napoli e di Caserta per rintracciare i segni di quell’inequivocabile intesa saldamente contratta con i caratteri del classicismo lorenese, nonostante l’affermazione di una veduta ottica di matrice illuministica. Si può riscontrare quanto detto nei dipinti di Carelli , Fergola, Duclère, Beniamino De Francesco, del Pitloo legato al collezionismo del Borbone, ad esempio nei "Templi di Paestum" (1826), presentato alla prima Biennale borbonica del 1826, o nel "Castel dell’Ovo" antecedente al 1824 realizzato per il conte di Saint Leu. Ogni pittore di paesaggio reca con sé un complesso retroterra culturale, che manifesta più o meno apertamente, quando decide di elaborare una creazione originale. Pitloo riprende la tradizione olandese di Hobbema e Van Der Neer, Salvatore Fergola si rifà alla tradizione hackertiana, che gli serve a ripercorrere le celebrazioni borboniche sullo sfondo dei siti reali, ma quando si
Teodoro Duclere
Il chiatamone visto dal mare
1839,olio su carta incollata su tela cm.29x44
cimenta nelle marine in tempesta o nei notturni è condizionato dai modelli di Joseph e Horace Vernet; Raffaele Carelli si presenta "con qualche garbo vernetiano" ai modelli classicisti di D’Anna e Pietro Fabris, Duclère conserva un debito nei confronti del classicismo francese di Dunouy ("Napoli dalla Conocchla"), il giovane Consalvo Carelli ha l’ambizione di sostenere i modelli di composizione dei maestri Ruisdael, Baquisen, Salvator Rosa, Claude Lorrain e Poussin; Beniamino De Francesco segue un percorso diverso, poiché negli anni trenta, che furono per lui anni di formazione, sembra investito dall’interesse per la moderna pittura troubadour, insieme a Felice Cottrau, ma quando affronta il paesaggio, in chiave storicoromantica, risente del paesaggio storico mediato da Massimo d’Azeglio e Carl Markò senior; Smargiassi, infine, nella tensione a restaurare le regole grammaticali del paesaggio, si appella non solo ai fiamminghi Dughet e Ruisdael, ma, passando per Lorrain, scopre la tradizione locale di Micco Spadaro fino a recuperare Gaetano Martoriello e Nicola Massari.
Dai modelli del passato non si esime nessun artista che intende partecipare alle mostre biennali programmate nell’ambito del circuito ufficiale di promozione culturale, che favorisce contatti con il collezionismo più evoluto, come quello di Nicola Santangelo, ministro dell’Interno di Ferdinando II di Borbone, sensibile alle nuove poetiche del romanticismo francese troubadour e aperto a collezionare paesaggi di Fergola e Smargiassi, o quello del marchese Ala Ponzoni, cui è legata la famiglia Carelli, o del principe di Gerace. Tuttavia, anche i collezionisti di nuova matrice borghese, quali Gaetano Zir, proprietario di due alberghi alla Vittoria e alla Riviera di Chiaia, del quale parla Alexandre Dumas nel suo Corricolo, o l’impresario teatrale Domenico Barbaia, o quanto meno l’imprenditore Meuricoffre, console d’Olanda (la cui famiglia si stabilisce allo Scudillo e risiede a Napoli fino alla metà del secolo scorso), sono fermi a un modello di collezionismo che simula quello aristocratico-borbonico e condiziona la produzione dei napoletani nel rispetto delle regole dettate dalla tradizione del paesaggio classico.
D’altra parte la posizione assunta nei confronti della veduta razionale, aggiornata con l’ausilio di nuovi strumenti scientifici per la ripresa dal vero, è un dato importante, ma resta solo un punto di partenza per i moderni paesisti dell’Ottocento. Il vero va studiato nella maniera più rigorosa, ma l’obiettivo è il paesaggio inteso come rielaborazione dei dati del vero ai fini della composizione.
Se riflettiamo, i vedutisti integrali sono pochi. Si può considerare tale Achille Vianelli che, nonostante la formazione presso Huber insieme con Gigante, prende una strada diversa e si presta a diventare quasi esclusivamente una figura professionale utile alle imprese editoriali, come quella, ad esempio, di Gaetano Nobile; questa sua identità giustifica l’esclusiva produzione di disegni di interni o di vedute quasi sempre praticati con l’inchiostro sfumato o l’acquerello colorato, propedeutici anche alle finalità didattiche dell’Accademia. Si può considerare, altresì, come appartenente a pieno diritto alla compagine della Scuola di Posillipo il belga Frans Vervloet, vedutista integrale considerato tale anche dai committenti, che rielabora Canaletto in tre dipinti realizzati alla fine degli anni trenta per la Biblioteca privata del re: "Piazza San Marco a Venezia" (Napoli, Palazzo Reale), la "Chiesa della Salute presa dall’Accademia" e la "Veduta della Riva degli Schiavoni" del Museo di Capodimonte. Tutti gli altri artisti ambiscono alla riconsiderazione del ruolo di paesista in una posizione che li vede superiori rispetto alla concezione della veduta, intesa come pura norma di studio.
Sergio Ortolani, nel contesto dell’ampio studio monografico dedicato a Gigante, riporta come una "scaramuccia" di carattere provinciale una diatriba tra Raffaele
Antoon Sminck Van Pitloo
Il ponte di Cava dei Tirreni
olio su carta incollata su tela cm.17.6x23
Carelli e un critico locale, Vincenzo Torelli, che indicava l’inferiorità di un dipinto del primo nei confronti del figlio Consalvo. Questo episodio mette in luce, tuttavia, una differenza fondamentale ed evidente, oltre a una diversità di ambizioni, nel ruolo assunto dai paesaggisti partenopei rispetto ai vedutisti. La polemica, scoppiata in occasione dell’esposizione borbonica del 1835, nasceva dall’accusa mossa contro Carelli senior di "aver eseguito bene e concepito male" il suo quadro. A tale "ingiuria" Carelli reagisce per difendere se stesso e per chiarire i termini generali della questione, che consiste nel ragguagliare il critico sulle specifiche differenze di ruolo:
Io non ho concepito o inventato, ho semplicemente imitato il vero, e chi imita non concepisce quando un ritratto, o una veduta o qualunque studio dal vero sono bene eseguiti, non possono essere concepiti male, perché nei lavori di semplice esecuzione l’invenzione non entra per nulla. Dovea egli distinguere il paesista dal vedutista. I paesisti come lo erano Claudio, Pussino, Salvator Rosa, dopo aver copiato il vero, servendosi di quegli studi creavano un paese; e in essi si ammira non tanto la verità dei particolari, quanto l’invenzione e la composizione dell’insieme.
Nel corso di questa aperta polemica verso Torelli, volta a definire ruoli distinti e ambiti separati tra gli artisti, Raffaele Carelli elabora differenze specifiche nel novero delle categorie "minori" dell’arte, utili a noi per comprendere quali discriminazione fossero applicate all’interno della categoria paesaggio, veduta, fino all’individuare una serie di sotto-gerarchie, come nel rapporto tra l’acquerello e la tempera o gouache. Tale considerazione ha inciso anche nelle valutazioni storico-artistiche, oltre che di mercato, della produzione ottocentesca a gouache, prodotto privo di elaborazione , di carattere corsivo e seriale, lo definiremmo oggi , rispetto alla prova d’autore prodotta ad acquerello:
Con lo stesso tuono di magistral sicurezza segue a dire il compilatore: Carelli figlio ha esposto delle vedute a tempra, ma Carelli figlio non dipinse a tempra bensì all’acquerella. A tempra sono quelle vedute che si vedono in tutti cantoni di Napoli. Bisogna conoscere bene le arti, e conoscere i vari generi di dipinti per giudicare. Senza queste cognizioni l’arte di tacere, arte sublime, dovrebbe adottarsi.
In definitiva, riassumendo la storia del paesaggio a Napoli, potremmo affermare che la grande rivoluzione prodotta da Pitloo in Accademia nello stravolgimento del metodo di studio del paesaggio studiato dal vero dura un ventennio circa, senza trovare futuro. Basterà ricordare che cosa succede alla morte di Pitloo. In circostanze storiche immediatamente successive alla scomparsa del maestro olandese, Smargiassi restaura i modelli della vecchia Accademia, reintroducendo una concezione di carattere aulico, di retaggio seicentesco. Nel programma di elaborazione del paesaggio il paesista ha un ruolo autonomo diverso da quello del figurista; infatti, per il ciclo di tele sacre di Palazzo Reale, egli si serve dell’aiuto di Vincenzo Morani, che completa la rappresentazione sacra. Non in ultimo, sceglie come sostituto e suo collaboratore alla cattedra di Paesaggio che detiene fino al 1882, data della sua morte, Antonio Cammarano, discendente della celebre famiglia di artisti neoclassici. Tutti gli altri paesisti sono arrestati da un’involuzione dettata dall’interruzione prodotta non solo dalla morte improvvisa del maestro, ma anche dall’assenza di principi teorici ai quali appellarsi. La mancanza di un "programma" innovativo porta a un processo di riconversione ai modelli di condizionamento della tradizione.
Una tale involuzione, d’altra parte, è determinata dalla posizione della critica estetica hegeliana moderata che assume, attraverso un suo portavoce ufficiale, Francesco Paolo Bozzelli, ministro della Pubblica Istruzione dopo il 1848, un crisma di involuzione istituzionale.
Filippo Palizzi
L’amore nel deserto
(Il leone a casa sua)
Essa mette a disagio la posizione nazionalistica della veduta, come fonte di aggiornamento delle verità acquisite, riducendola a canone di "poesia descrittiva", a vantaggio della "poesia drammatica" imperniata sulla concezione del "bello" in natura.
Il segreto dell’arte, sostiene Bozzelli, è nello scomporre i singoli elementi studiati in natura, selezionarli dopo averli osservati nella realtà e infine riaggregarli per riformulare un paesaggio che abbia carattere di organicità, unità, vita e movimento:
Così nel dipinger de’ paesi, per quanto l’artista cerchi una determinata situazione a traverso ridenti o maestose campagne, pur non ad altro in se stesso attende, che a schivarne con diligenza le parti sconce, per sostituirvene, colte separatamente altrove, di più dilettevoli alla vista pei loro vibrati accordi: tal che bella natura è sempre natura scelta. Non si potrebbero altrimenti spiegarsi quelle dolci e fuggenti lontananze, onde Claudio Lorrain fa trascender mollemente la fantasia negli spazi dell’immensità; quella nobiltà serena di aggregati onde il Poussin innalza del continuo lo spirito a morali contemplazioni; quelle masse in bel disordine con incognito prestigio ne’ cuori la soave malinconia della solitudine.
Il brano, riportato nel contesto dell’Esposizione del 1851, dove sono esaltati i paesaggi romantici e di carattere storico-religioso di Gabriele Smargiassi, tra i quali il "Paesaggio con San Sebastiano dopo il suo primo martirio" (Napoli, Palazzo Reale), rende giustificata l’insofferenza antiaccademica di quegli anni da parte di Filippo Palizzi che formatosi alla libera scuola di pittura di Bonolis e Federico Quercia, allievo di Francesco De Sanctis, prende la saggia decisione di partire da Napoli per approfondire la ricerca del vero.
Tuttavia, la soffocante ideologia estetizzante della ricerca del "bello in natura" assunta da Bozzelli non è favorita solo dalla poetica di Smargiassi, pronto ad assumersi le sue responsabilità morali nei confronti del passato e nell’impegno di cattedratico del paesaggio, attraverso gli studi su Niccolò Poussino e ancora sul Paesaggío e sui Paesisti napoletani, ma sembra catturare anche altri artisti che palesano, nonostante la dichiarata fede liberale, una posizione di ambiguità, reietta al genere, e di sostanziale contraddizione tra il vecchio e il nuovo modo di concepire il paesaggio. Il paesista Consalvo Carelli, ad esempio. per quanto mostri un’ ammirazione dichiarata per l’arte di Giacinto Gigante, scrive nel 1874 in qualità di membro dell’Accademia di San Luca una lunga Lettera sull’árte del dipingere a Natale Carta, dove manifesta riluttanza nel confronti del genere, avversità al vero, e sostegno alla necessità del paesaggio ideale di composizione:
Noi vediamo giovani di belle speranze dipingere con tanta cura, e giova pur dirlo, con una certa verità, rape, cipolle e mille altri commestibili, cose tutte che servono più a lusingare la vista e l’appetito che ad appagare lo spirito e la fantasia. L’arte, a dir vero, è fatta non per i sensi ma per il cuore, ed essa deve ingentilire lo spirito, innalzandolo nelle pure regioni del Bello, ove solo può trovar diletto vero, serenità, ineffabili dolcezze che ti fanno obliare le sventure della vita.

IL PAESAGGIO DOPO IL 1860
Mentre si consumava l’inerte problematica accademica sul modo di concepire in maniera idealizzante la pittura paesistica, il paesaggio stava mutando la sua identità, e il gruppo ispiratore della Scuola di Posillipo non aveva più argomenti di originale suggestione da proporre. Valenciennes, al principio dell’Ottocento, aveva dichiarato la difficoltà di ritrarre la veduta urbana di "Napoli città troppo grande per essere pittoresca"; egli prediligeva, piuttosto, la collina di Posillipo e i Campi Flegrei, ma soprattutto i dintorni del capoluogo partenopeo (Paestum, Pompei, Portici, Salerno), che concentravano aspetti
Giuseppe Palizzi
La foresta di Fontainbleau
Caccia al cervo olio su tela, cm.80x98.5
molteplici di paesaggio, storia e archeologia.
Eppure, nel primi trent’anni di attività della Scuola di Posillipo i napoletani erano riusciti a riconsiderare appieno la veduta della capitale e a nutrirsi del suo paesaggio, propagando la sua immagine ai turisti e ai viaggiatori in maniera più circostanziata di quanto non avessero fatto i numerosi stranieri di passaggio. L’osservazione della città, fino agli anni quaranta, è desunta dalla spiaggia di Posillipo, intorno al Chiatamone, dalla Lanterna al molo, dal Mandracchio (l’antica dogana regia), dalla Marinella, riproponendo così una continuità con la tradizione nazionalistica settecentesca della città a livello del mare, che si rifà al vedutismo di Antoon Cardon. Gabriele Ricciardelli e Antonio joli. Nel corso del secolo, col mutamento urbano, il punto di osservazione si erge sulla collina. La città è ripresa in una visione panottica, dall’alto di Posillipo, da "Villa Craveri", dalla "Tomba di Virgilio", dalle "Rampe di San Antonio a Posillipo", per citare alcuni luoghi ricorrenti del paesaggio, fino a salire sull’erta Certosa di San Martino, al Vomero, dalla quale Gigante, in un angolo di osservazione del Terrazzino del Quarto del Priore, domina l’intera città sovrastata dalla scenografia monumentale del suo vulcano.
Negli anni sessanta sono ancora vivi tanti pittori della Scuola. Nel 1837 era morto Pitloo, per l’epidemia di colera, nel 1846 Achille Gigante, fratello minore di Giacinto, ma tutti gli altri sono ancora in attività. Fergola, Duclère, Vianelli, Gigante, Carelli , Franceschini, Vervloet, il barone Pasquale Mattei che, oltre a essere storico-erudito e artista dilettante, ha avuto il merito di riconoscere per primo la grandezza dell’insegnamento di Pitloo, consacrata attraverso le pagine del "Poliorama Pittoresco". Nonostante tutte queste presenze, avanzate negli anni, gli artisti non sono più ispirati e si trovano di fronte un paesaggio che sta per morire. Gigante è il primo ad accorgersene.
L’irregolare del gruppo, colui che aveva subordinato la tecnica a olio, usata quasi esclusivamente su commissione, e nobilitato l’acquerello esaltandone le potenzialità creative in una cifra particolarissima, dopo il 1860 era diventato una figura carismatica, amata e stimata da tutti, vecchi amici e giovani artisti, paesisti e non, da Michele Cammarano a Domenico Morelli. Gigante era stato reintegrato, nonostante il suo percorso da non allineato, anche presso la Corte dove, dalla metà degli anni cinquanta, insegnava pittura di paesaggio ai figli di Ferdinando Il di Borbone ed era stato insignito nel 1851 della nomina a cavaliere dell’ordine di Francesco I.
Le memorie visive, riunite nelle "cartiere" proprio negli ultimi dieci anni della sua vita, parlano chiaro non solo sul suo percorso personale, ma anche circa la visione generale della storia del paesaggio a Napoli e le sue trasformazioni tra la prima e la seconda metà dell’Ottocento. Riepilogando il suo percorso artistico, si riscontra che il paesaggio dal vero, ripreso dalle colline di Napoli, è solo quello realizzato durante la prima metà del secolo. Dopo il 1860 non c’è più attrazione per la città osservata da Oriente o da Occidente, prototipi della veduta di Napoli assieme a quelle riprese da Posillipo, dallo Scudillo e dalla Conocchia.
Il grido di dolore sulla natura che sta cambiando segna l’ultimo percorso dell’attività di Gigante e richiama alla mente il valore di quel luogo comune paesaggistico citato all’inizio del presente saggio, incentrato sul ricordo di Eduardo Dalbono che menziona il dolore del maestro, don Giacinto, che aveva pianto "come se una persona cara gli fosse venuta a mancare", per "la morte del pino" sulla tomba di Virgilio, dolore paragonabile all’irreparabile conclusione di una pagina di storia vissuta.
Alla fine degli anni sessanta Gigante è chiamato a Sorrento, ospite presso la villa dei Correale. Pompeo e Laura Correale, come voleva la norma delle famiglie aristocratiche,
Filippo Palizzi
Eccolo!
1872, olio su tela, cm.48.9x67.9
avevano la necessità di affinare una "buona educazione" nel campo delle arti con due maestri di pittura; a partire dal 1859 fino alla morte li accompagna Teodoro Duclère e, successivamente, dal ’69 al ’70, Gigante in persona.
La storia della più importante raccolta della Scuola di Posillipo, collezione privata unica nel suo genere, donata alla città di Sorrento per volontà testamentaria, ritrova le sue radici proprio nel singolare rapporto intrattenuto dal Correale con i due decani maestri di paesaggio; qui troviamo anche la conclusione della vicenda della Scuola di Posillipo attraverso il suo protagonista. ormai stanco e polemico.
Durante i dieci anni di insegnamento, Duclère aveva impartito a Pompeo, artista-dilettante, soprattutto l’amore per la natura dei luoghi. Dipingevano all’aperto per le strade di Sorrento, da "Vico Sant’Aniello" al "Palazzo Laurito Mastrogiudice" (comunemente noto come la casa del Tasso), e per i dintorni boschivi di "Casarlano", della "Cronaca", lungo la sorgente Neffola, fino a ripercorrere i luoghi romantici della natura "sublime" dei ravini di Sorrento, dalla "Porta del Piano" alle "Lavandaie sul rivo di Cesarano" evocando, in quest’ultimo caso, la stessa suggestiva immagine romantica realizzata da Lindemann Frommel nel 1848. Sotto la guida di Duclère, Pompeo Correale riesce ad acquisire una buona conoscenza degli scorci paesaggistici e a imparare la "figura", aiutato anche dal modello dei repertori, fornitigli dal Duclère, desunti dagli Usi e Costumi di Francesco de Bourcard.
Alla morte di Duclère, nel 1869, sopraggiunge Gigante, e con lui il Correale stabilisce un rapporto altrettanto particolare. Nella sua collezione esistono opere di Gigante riferite a vari periodi della sua produzione, realizzate a tecnica mista, a olio, ad acquerello, rivisitazioni di suo pugno da Micco Spadaro, che si debbono esclusivamente all’ammirazione nei confronti del maestro.
Gigante era di ritorno a Sorrento. C’era stato una prima volta negli anni venti e vi si era rifugiato una seconda volta nel 1848 durante il periodo dei moti. Il rapporto che si stabilisce con il nobile sorrentino alla fine degli anni sessanta non è solo promosso dall’interesse artistico e collezionistico, piuttosto si concentra nell’osservazione dei luoghi della storia e dell’archeologia immersi in un paesaggio che sta profondamente mutando. Esiste un acquerello di Pompeo Correale, la "Porta d’ingresso alla città di Sorrento", presso i ruderi del castello cinquecentesco, che risente della complicità di Gigante nel modo di osservare il luogo e di sottoporlo a un’indagine di revisione dei mutamenti che ha subito. Come per i disegni della sua cartella personale, sul foglio si legge la scritta di denuncia delle recenti trasformazioni: "Sorrento prima del 1846 presa da un disegno antico che acquerellò P. Correale", che assume la stessa valenza di testimonianza e di memoria dei monumenti perduti, redatta, come per i suoi disegni giovanili, in epoca posteriore ai cambiamenti.
Questo modo d’intervenire si riscontra in tutti i disegni sorrentini rivisitati in quegli anni. In un altro caso, un disegno da lui attribuito ad Antonio Cammarano, "Le mura di Sorrento", del Museo di San Martino, Gigante sottoscrive in calce:
Questo disegno dev’essere di D. Antonio Carnmarano fratello di Giuseppe allievo di Hackert e Hcnipp [Kniep].
Mura di Sorrento accanto alla porta del Vescovado. E’ interessante vedere ancora un resto della patria del nostro celebre poeta Tasso. Esse ora sono quasi interamente distrutte, pel poco amore che si ha a conservare così belle memorie.
Il messaggio è eloquente e ci consente di comprendere la qualità dell’interferenza sui disegni di paesaggio nell’ultimo periodo di attività, nient’affatto trascurabile all’interno del programma artistico e degli obiettivi raggiunti dal maestro. Numerose altre testimonianze autobiografiche sono conservate nelle raccolte grafiche dell’artista giunte al Museo di San Martino e alMuseo di Capodimonte che denunciano, tra il 1860 e il 1870, il rimpianto per il mutamento dei luoghi, assumendo il tono di una contenuta polemica della quale egli vuole fermare la memoria, come accade in un disegno datato 1828, dove Gigante commenta in modo perentorio: "Sorrento era un paradiso ai natali, forse peggiore di un inferno".
L’intesa che si stabilisce tra Gigante e Correale si concentra su un obiettivo comune di ricerca, salvare la memoria del paesaggio e dei luoghi monumentali dalle trasformazioni che stanno cambiando volto alla città, turbandolo e anche guastandolo. Era questa l’ultima possibilità d’intervento sulla memoria del paesaggio romantico, del quale era stato singolare protagonista. Infine, prima di concludere l’ultima stagione di perlustrazione all’aperto in quell’intenso soggiorno a Sorrento, Gigante rende omaggio a Correale con l’acquerello delle "Ortensie", datato 1870. L:eredità dei dipinti di Duclère e di Pitloo che appartenevano al patrimonio della moglie del primo, Sofia, figlia dell’olandese, insieme con i dipinti di Gigante, viene affidata alla famiglia Correale; nel contributo dato dal loro approccio dilettantesco, essi rappresentano quel tessuto connettivo di paesaggisti. acquerellisti e amatori che costituiscono anche il fondamento della fortuna critica e collezionistica della Scuola di Posillipo. La fortuna storiografica della Scuola inizia attraverso le pagine di Salvatore di Giacomo, in lieve anticipo sull’inaugurazione del Museo di Sorrento, aperto al pubblico con nuovo statuto nel 1903; nello stesso anno alla Biennale di Venezia, nella retrospettiva monografica dedicata a Gigante ricordata all’inizio, è esposto l’acquerello della "Casa del Poeta Tragico", del Museo Correale di Terranova.

 

 

 

 

 

 

 

 






2004-12-17


   
 

 

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