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L’artista napoletano è stato quello che ha saputo rappresentare il volto della città uscita dalla crisi postunitaria tra secondo Ottocento e primo Novecento, descrivendo con singolare compiutezza il profilo della nuova borghesia affluente, ma anche quello d’una tradizione popolare destinata a scomparire. Ad osservarne l’Autoritratto, ciò che immediatamente appare di straordinario interesse, unitamente con la restituzione delle fattezze del proprio volto, è la raffigurazione che Vincenzo Irolli presenta della sua tavolozza, che emerge in primo piano, sorretta saldamente dalla mano sinistra del pittore, mentre la destra impugna con decisione il pennello che mescola i singoli colori. E questi sono appunto i colori accesi e vibranti dell’artista, i fiammanti cinabri, i bleu oltremare i gialli di cromo, colori che Irolli gestisce con grande sapienza, servendosene per creare una pittura fatta di squillanti contrasti, puntigliosamente volta a creare una rappresentazione delle cose espressiva e decisa, capace di farsi interprete di un gusto in evoluzione, quello, in particolare, di una borghesia dal palato pieno e forte, aliena dalle ultime ed estenuate finezze d’un tardoromanticismo senza più futuro. Vincenzo Irolli di questa classe sociale, che è quella che esce vittoriosa dalla stagione del risorgimento, quella che accompagna e guida i primi e timidi passi del neonato stato nazionale unitario italiano, è l’interprete delle aspirazioni e del profilo morale: il bel vivere, i toni forti, la pienezza del sentire, la vocazione alla visione pratica, abbreviata e concreta delle cose. Non a caso, forse, l’artista napoletano nasce proprio nel 1860, l’anno in cui si compie la cosiddetta ‘impresa dei mille’, e la sua formazione culturale sarà evidentemente improntata dal nuovo sentimento ‘nazionale’ che si fa strada e si afferma durante la seconda metà dell’Ottocento. Il percorso formativo appare quello tradizionale e consolidato: frequenta l’Istituto di Belle Arti e segue l’indirizzo del Toma e del Maldarelli. Ma quelli che lo infiammano sono, in realtà, Michetti e Morelli. Il primo, Michetti, sicuramente gli suggerisce l’entusiasmo per un nuovo modo di fare pittura, sfibrata e parcellizzata, a tocchi di colori, con l’immagine che si sgrana e si ricompone senza sosta; il secondo, Domenico Morelli è il ‘maestro’ per antonomasia, in questo periodo di tempo. Egli è la figura di riferimento per i giovani artisti, è l’emblema della figura di successo, il pittore napoletano che ha saputo farsi apprezzare in tutt’Italia e cui il paese guarda con reverente ammirazione. E’, infatti, il pittore che ha saputo traghettare l’arte italiana dalle logiche strettamente accademiche ad una visione più complessa ed articolata, attraversando con estrema disinvoltura e libertà compositiva tutta la fase in cui la pittura cosiddetta ‘di storia’ veniva esaltata oltre ogni dire e indirizzando con cura amorevole anche l’accettazione di nuove prospettive figurative come quella, ad esempio, d’ordine ‘orientalista’. Il giovane Irolli si nutre di tali suggestioni culturali ed all’età di diciannove anni è già pronto per proporsi al pubblico, nel 1879, con un dipinto, Felice rimembranza, che espone alla «Promotrice di Belle Arti» di Napoli. Un anno dopo, nel 1880, l’esemplarismo della pittura morelliana da lui fatto proprio, trovava campo di sviluppo in un dipinto, Sesto Tarquinio e l’attentato all’onore di Lucrezia, che costituiva l’inevitabile tributo offerto al tema della ‘pittura di storia’. Ma qualche anno prima, nel contesto dell’Esposizione del 1877, Irolli aveva potuto osservare anche il Corpus Domini di Michetti che gli aveva rivelato le infinite possibilità offerte da una pittura frammentata e sfibrata, tutta costruita sul baluginio delle luci e sui fremiti d’un’impianto disegnativo vibratile e sfuggente; e tutto ciò non lo aveva lasciato indifferente. Sono questi gli anni di fine Ottocento, quelli in cui il giovane artista si presenta curioso ad attento a ciò che il momento artistico va maturando in un orizzonte più ampio di quello prettamente napoletano: anch’egli cede, comunque, alle suggestioni di Fortuny, a quella pittura, cioè, tipicamente fin de siècle, gioviale e briosa che al tempo stesso illustra ed accompagna un passaggio d’epoca iscrivendosi come gioioso contributo alla creazione d’un nuovo modello di società di cui la Parigi dei caffé-concerto costituisce un riferimento di esemplare pregnanza. Non sarà incongruo citare proprio in tale contesto il contributo che Irolli fornisce alla decorazione del «Gambrinus» a Napoli, con un’opera, Piedigrotta, in cui si affermano con buona evidenza già tutte quelle che sono le caratteristiche proprie dell’arte matura dell’artista. La luce, infatti, sbattuta da violenti contrasti d’ombra disegna la plastica evidenza delle figure, mentre il cromatismo, in questa fase ancora alla ricerca di qualche effetto tonale, modella i volumi e scolpisce le forme. Al giro del secolo, ormai, Irolli è un pittore affermato cui il pubblico guarda con ammirazione: egli si volge a fornire una rappresentazione della realtà ambientale rifuggendo da un’analisi oggettiva e severamente restitutiva del vero. L’insegnamento dei Palizzi ma anche le tematiche ispirate a concezioni filantropiche di pacato ‘umanitarismo’ di un Patini, ad esempio, sono modalità cui Irolli non aderisce, preferendo egli indirizzare la sua arte verso una rappresentazione delle cose più briosa ed immediata, ma anche più epidermica e superficiale. L’analisi del vero, così, si trasforma in occasione di ‘prelievo dal vero’ di ciò che vi può essere contenuto di interessante e suggestivo, non la stigmatizzazione, insomma, d’un dato sociale, della miseria, delle condizioni di degrado d’un popolo, ma l’accorta rappresentazione folkloristica, se si vuole, di un volto scarmigliato o d’un sorriso d’unacontadinella catapultata in città. Volti di popolane, vedute sintetiche ed essenziali di angoli napoletani, figure di genere costituiscono i soggetti cui s’accosta la pittura colloquiale di Irolli che, intanto, sul piano compositivo e cromatico, va accentuando la sua già naturale vocazione al contrasto luministico ed alla pronunciata articolazione timbrica. La sua pittura è facile da capire, essa racconta ai Napoletani come son fatti, mettendo in mostra tipi umani ed aspetti sociali; per i nuovi borghesi questa pittura squaderna una sorta di album di famiglia, in cui ritrovare volti ed ambienti conosciuti. Di grande interesse appaiono i suoi ritratti (bellissimo quelli del padre e del fratello), ma anche le sue figure che fissano il tipo, ad esempio, dello scugnizzo, con l’aria spiritata e il sigaro tra le labbra. Tipicamente borghese è la fissazione di momenti particolari come avviene nel dipinto Luna di miele, che ci appare significativamente emblematico e di cui giova descrivere le figure dei due sposi ai due lati d’un tavolino tra cascate di fiori con la ‘lei’ svenevolmente protesa sulla bianca tovaglia a spingere il suo braccio sinistro verso lo sposo che rimane seduto sulla poltrona di vimini raffigurato in scorcio di tre quarti di spalle. Le personalità individuali di cui si coglie il tratto psicologico nei ritratti o anche nei dipinti cosiddeti ‘a mezze figure’, come quello sopra citato della Luna di miele, diventano, poi, figurette stilizzate nelle rappresentazioni di massa ove l’artista mira a rendere l’atmosfera della piazza definendo con piccole svirgolate di pennello le immagini d’una folla che appare, forse immotivatamente, spensierata e festante. Il pubblico va in visibilio per lui: Non altrettanto la critica che appare divisa. Personalità di rilievo come Paolo Ricci e la Lorenzetti ne prendono le distanze, ma altri esaltano il suo modo di dipingere e la sua capacità di proporre una lettura disincantata della città e dei suoi aspetti umani, come avviene negli interventi di studio di Vergani e dello stesso Siviero. Fors’anche un altro accostamento esemplaristico è giusto riferire, quello a Mancini, che molti critici invocano non senza motivo per l’opera dell’Irolli e ciò giustifica, in aggiunta, anche quel più dilatato richiamo alla stagione seicentesca della pittura napoletana che Schettini in particolare sottolinea come retrogusto irrinunciato nel nostro pittore. In realtà sia il richiamo ‘manciniano’, sia quello ‘seicentesco’, rispondono in Irolli ad un’esigenza di enfatizzazione della corposità dell’immagine, al bisogno di costruire un impianto espressivo che sia in grado di fornire una sensazione visiva di spessore e di robustezza Giova osservare, tuttavia, che nella resa irolliana di questo addensamento figurativo, non si può intravedere quella stessa capacità di anticipazione di sensibilità ‘materiche’ che possiamo, invece, propriamente riscontrare nella pittura manciniana. Gli stessi richiami‘seicenteschi’, inoltre, che più volte la critica ha additato in alcune specifiche declinazioni della pittura napoletana tra Otto e Novecento e – come abbiamo osservato – in quella stessa irolliana, si giustificano non nel segno della analisi più rigidamente ‘naturalistico-caravaggesca’ della temperie napoletana del diciassettesimo secolo, quanto, piuttosto, in quella cosiddetta ‘di valore’ dello stesso secolo, in quella pittura, cioè, che privilegia il dato ‘formale’ rispetto a quello ‘contenutistico’ esaltando le qualità ‘pittoricistiche’ del dipinto ed evitando di costruire inedite rappresentazioni intensamente analitiche e criticamente atteggiate rispetto alla società e alla storia. In qualche caso, un accostamento che può apparire non illegittimo per la pittura di Vincenzo Irolli è quello all’opera seicentesca di Micco Spadaro, al quale non ci sembra incongruo allineare alcune raffigurazioni ‘d’ambiente’ che l’Irolli va ad eseguire, quelle, in particolare, in cui ha cura di non soffermarsi su aspetti di puro decorativismo, ma in cui dirige la propria verve figurativa alla resa di testimonianza d’un contesto locale, del quale costruisce la raffigurazione d’un momento di vita e non semplicemente una visione ‘folklorica’. Non sfuggirà, allora, che la pittura di Vincenzo Irolli viene sempre più a configurarsi come una pittura ‘di confine’, come l’espressione matura e liminale di quella stagione ottocentesca che, come abbiamo già indicato, si era posto il problema della rappresentazione oggettiva del reale e che aveva affrontato il problema della individuazione del soggetto variamente pencolando tra la inevitabile retorica della ‘pittura di storia’, l’ammorbidimento dei «Pompiers» o degli «Orientalisti», il «naturalismo confidenziale» palizziano e, infine, l’«umanitarismo» patiniano. Altri artisti hanno saggiato la possibilità di muoversi lungo una via sincretistica e di procedere alla costruzione di una prospettiva figurativa che fosse capace di chiudere in unità queste varie spinte ed esigenze figurative: penseremo, ad esempio, a Vincenzo Volpe, penseremo anche ad un pittore tutto da ‘riscoprire’ come Giuseppe Costantini, né dimenticheremo quella linea che inaugurano anche pittori come Gaetano Capone o Vincenzo Caprile. Qui il terreno critico e l’analisi di studio si fa incredibilmente scivolosa, dal momento che occorre superare due scogli che costituiscono effettivamente un corposo pregiudizio che aleggia sulla materia in discussione: quello della considerazione piuttosto limitativa con la quale la critica ha sempre giudicato questa temperie creativa e l’altro, non meno ingombrante, tutto interno alla produzione stessa di questi artisti, che spesso non hanno esitato a sviluppare una sorta di ‘manierismo di se stessi’ lasciandosi andare lungo derive abbreviate e ‘commerciali’ che hanno impoverito ed indebolito quello che poteva essere il contributo originale della propria proposta. Il mercato non ha giovato in tutto ciò: sianei primi decenni del Novecento, che tuttora, favorisce una fruizione molto accomodata di queste cose, indirizzando la lettura di questi artisti secondo derive di stucchevole ‘napoletanitudine’, piuttosto che di stimolante approfondimento delle ragioni storiche di una ritenibile ‘napoletanità’. Non vorremmo sottacere il fatto che altre città del Mezzogiorno d’Italia, dopo la formazione del Regno d’Italia, si ‘liberano’ del ‘peso’ dell’antica capitale del Regno meridionale e tentano la via di un proprio autonomo protagonismo. Pensiamo a Salerno, ad esempio, ma anche ad alcuni pregevoli casi in Calabria o in Puglia o nella stessa Basilicata, per non dire del protagonismo forte della pittura siciliana. Il dato è interessante, poiché ci rivela che artisti come il già citato Gaetano Capone, ma anche e, forse, soprattutto, come Gaetano Esposito, sono quelli che – per rimanere nell’alveo del contesto campano –, a Salerno, propongono un’interessantissima formula di rinnovamento e di autonomia che, purtroppo, per varie ragioni, non troverà l’opportunità di produrre i risultati pieni che sarebbe stato giusto auspicare. Proprio tale esigenza di autonomia espressiva che caratterizzerà il percorso creativo in molte realtà ambientali del Mezzogiorno d’Italia lascia ancor meglio emergere il dato contraddittorio della peculiarità napoletana in cui convivono esigenze di rinnovamento («Futurismo», «Secessione dei Ventitre») e prospettive di ‘accomodamento dell’esistente’ che costruiscono un ‘immaginario’ ambientale che preferisce mettere in evidenza il ‘colore’ locale, non le caratteristiche salienti del territorio, con le sue contraddizioni, le sue risorse, le sue opportunità. Il mercato non aiuterà gli artisti napoletani nel difficile compito, né essi saranno favoriti da un’apertura mentale della borghesia locale che non ha le giuste prospettive d’indirizzo culturale, come avrebbe ben dimostrato il Croce in un suo celebre libello dei primi del Novecento, per mettersi alla testa di un processo di rinnovamento sociale. Molti artisti napoletani rimangono frastornati in questo contesto e le loro caratteristiche, le capacità individuali, il sentire creativo ne subiscono pregiudizio. Qualcuno che tenterà, proprio nei confronti della componente borghese, di esercitare un’azione di stimolo qualificandone il gusto e suscitandone utili prospettive di ampliamento d’orizzonti dall’interno stesso della propria classe sociale, come il pittore Raffaele Ragione, sarà, purtroppo, vittima del suo stesso buon intento, rimanendo emarginato nel contesto napoletano e finendo sostanzialmente isolato. Irolli è, invece, l’anima e l’interprete del suo tempo e può essere giudicato l’alfiere di questa prospettiva che abbiamo già definito di ‘accomodamento dell’esistente’: quelle stesse caratteristiche della sua pittura che appaiono corsive ed abbreviate, proclivi al gusto dominante, sono, infatti, l’emblema e lo specchio della sua età, un po’ come, non a caso, sulgradiente d’un profilo europeo più dilatato, evidentemente, avevano avuto modo di testimoniare le personalità d’un Meissonnier o dello stesso Fortuny. Se questa analisi si sofferma ad osservare il momento saliente della svolta del secolo, tra ansiti del nuovo che sopraggiunge ed affanni del precedente che se ne va, in un giro d’anni che copre i decenni tra gli Ottanta dell’Ottocento e i Venti del Novecento, sarà non meno utile tentare di gettare uno sguardo sulle vicende della pittura irolliana che si sviluppano negli anni dei decenni successivi, quelli che giungono, cioè, fino alla metà del secolo, all’interno dei quali si sviluppano fatti nuovi che dovrebbero, in qualche modo, sancire l’irreversibile obsolescenza della formula irolliana. E qui basterebbe pensare a ciò che, a partire dalla fine degli anni Venti, rappresentano a Napoli movimenti come quello dei «Circumvisionisti», dell’ «UDA», di «Novecento» e soprattutto personalità come quella, ad esempio, di Emilio Notte. A dispetto di tutto, la formula irolliana mantiene la sua inossidabilità consacrando il successo del Maestro che, fatalmente, ormai si dirige a consolidare l’assetto maturo della sua pittura in una formula che diviene un riferimento archetipico al quale non solo egli stesso rimane fedele, ma che costituisce addirittura riferimento esemplaristico per altri artisti, epigoni evidentemente, che non intenderanno tener conto degli avanzamenti che la ricerca creativa va compiendo. E’ difficile dire quanto la figura di Irolli possa essere considerata quella d’un maestro che si colloca esclusivamente nel contesto regionalistico: la sua pittura, infatti, non ha avuto successo meramente in ambito partenopeo ed una fiorente richiesta di opere del pittore è venuta anche in ambito europeo a sancire la dimensione d’un largo successo di pubblico. All’apice di un successo che, come abbiamo osservato, mieteva a larghe mani soprattutto negli ambienti medio-borghesi, Irolli si spegne ad ottantanove anni, nel 1949, chiudendo, con la sua vita, un’epoca. Dopo di lui, come abbiamo già detto, sarebbe venuta la pletora degli imitatori, di coloro i quali avrebbero cercato di attingere non più direttamente alla realtà ambientale napoletana, ma alle immagini stesse di Irolli trasformate indebitamente in riferimenti formali dai quali far derivare uno stucchevole manierismo. |