BOLDINI E LA BELLE ÉPOQUE
 






COMO - VILLA OLMO
fino al 24 luglio 2011

Tiziano PanconiANCONI




Giovanni Boldini
Ritratto di fronte
cm 59,5x51,5, Collezione privata

Un periodo di alcuni decenni, vissuto più o meno coscientemente e poi rimpianto, riecheggiato e tipizzato nella memoria di chi visse o soltanto accarezzò l’ideale spesso impalpabile di un modo di vivere di un’epoca, la Bella Epoca, in cui tutto avveniva nel segno del progresso e del benessere, in un contesto di emancipazione sociale senza precedenti. Molte le contraddizioni e i dubbi sulla effettiva esistenza di questa età dorata immaginata a posteriori quale icona di frizzante eleganza, un periodo nel quale i gentiluomini potevano finalmente concedersi il lusso di svagarsi negli scintillanti caffé concerto di Parigi o più semplicemente conversare sorseggiando una fumosa tazza di tiglio ai tavoli del Caffè Doney a Firenze, o al Floran di Venezia,mentre le signore sfogliavano le prime riviste di moda femminile e i romanzi letterari a puntate.
Se la fine della Belle Époque coincise evidentemente con lo scoppio della Prima guerra mondiale, certamente aperta resta invece la discussione storica sulle date che sancirono il principio di questa era così peculiare, sì che nel saggio di Irene Brin del 1987, la studiosa suggerisce di far coincidere la data di inizio del fenomeno – che Benedetto Croce definì l’età liberale – con la nascita di Marcel Proust nel 1871, mentre, come da più parti ipotizzato, nel catalogo dell’ultima mostra italiana dedicata alla Belle Époque i curatori propongono come data di origine il 1880.
Per noi questo fu soprattutto il tempo di De Nittis, di Corcos, di La Gandara, di Stevens, di Tissot, di Sargent, di Helleu, di Whistler, di Beraud, di De Jonghe e, sopra ogni altro, di Boldini, geniale capostipite di questa generazione di pittori cosiddetti à la mode, che, giunto a Parigi proprio nel 1871, diede origine all’irresistibile “stile Boldini”.
Il 1871, dunque, quale data di inizio della lunghissima esperienza francese di Boldini e quindi della Belle Époque, che, in senso estetico e figurativo, sbocciava, deflagrava e concludeva la propria parabola, parallelamente alle rappresentazioni caratterizzate del peintre italien de Paris, prima esordiente e giovane pittore di belle speranze, poi fulgido astro dell’arte internazionale e, infine, proprio negli anni fatidici della Prima guerra mondiale, afflitto da una grave malattia della vista che segnò l’inizio del suo declino umano e artistico. “Tutto andava di bene in meglio. Questo era il mondo in cui nacqui, all’improvviso, una mattina del 1914, ogni cosa giunse inaspettatamente alla fine”. Nel 1871, dopo la conclusione delle guerra franco-prussiana e dei cruenti tumulti della Comune, iniziando appunto questo lungo periodo di pace e di prosperità chiamato Belle Époque, dopo essersi trattenuto per qualche mese a Londra – dove si era conquistato una certa fama e l’appellativo di Little Italian – Boldini giungeva finalmente a Parigi, nell’immaginario degli artisti del periodo, vera Mecca dell’arte e luogodeputato all’esercizio della piena libertà di espressione.
Con il suo primo quadro francese nasceva l’era dell’italien de Paris, in questa città spumeggiante di occasioni che egli sentiva più di ogni altra sua, dove si legò a Goupil, fra i più grandi mercanti d’arte di allora, con gallerie sparse in tutto il mondo, e a Berthe, avvenente modella e amante, dalle forme sottili e l’elegante silhouette, destinata, inconsapevolmente, a determinare una vera e propria trasformazione del gusto nella percezione della bellezza femminile:
Io avevo incominciato l’altro giorno così scherzando una figura con la mia amante, lo scherzo è andato a finire sul serio e pare che riesca divinamente, anzi la mia talmente meglio cosa per colore che Goupil è venuto e l’ha comprato per tre milla [sic] franchi.
Fra le fila dell’ambita Maison d’arte era di leva anche il barlettano Giuseppe De Nittis, a contratto con la Goupil & Cie. dal 1872, che gli scriveva:
Caro Signore, Nel mese di novembre dello scorso anno abbiamo definito verbalmente i termini di un compromesso fra di noi per l’acquisto di tutti i quadri, acquarelli e disegni che lei farà a partire dal primo di gennaio dell’anno in corso.
Boldini, già trentenne, come De Nittis, portava dall’Italia un enorme patrimonio di conoscenza visiva ed era perfettamente padrone di una tecnica pittorica senza pari, avendo a lungo militato nel movimento macchiaiolo e contribuito al profondo rinnovamento della pittura nazionale e toscana di quello scorcio di secolo. A Firenze Boldini era entrato in contatto con alcuni notabili dell’aristocrazia inglese di stanza nel capoluogo, ottenendo proficue commissioni per i ritratti, in un rapporto di reciproca soddisfazione che lo spinse, come si è detto, prima del suo arrivo a Parigi, a soggiornare per un certo periodo a Londra, capitale dalle dense cortine di nebbia della prospera età vittoriana, che si era imposta quale centro pilota delle moderne società industriali.
Il repertorio iconografico fiorentino si presentava già ricco di scene d’interni ambientate in sontuosi palazzi, ornati di stoffe damascate alle pareti e opulenti arredi neogotici, ove i personaggi ritratti, quando reali, quando paggi o eleganti gentiluomini in abiti settecenteschi, talvolta colti come all’insaputa, si muovono con assoluta spontaneità e naturalezza in ambienti domestici capaci di raccontare qualcosa di loro e soprattutto del loro status economico e sociale privilegiato.
Insomma, la pittura sfolgorante di Giovanni corrispondeva già esattamente a quanto Goupil si attendeva dai molti artisti della sua cerchia, come Meissonier o Fortuny, per accontentare la nuova classe dirigente del Paese, borghese, che aveva da poco surrogato la nobiltà nella gestione del potere anche economico e che amava essere ripresa nella sua veste elitaria, in modo decisamente ostentato, che denunciava quantomeno un complesso di inadeguatezza rispetto alla nuova condizione.
Il connubio fra la cifra stilisticadi Giovanni, costantemente alla ricerca di nuovi stimoli, e l’indirizzo estetico, senza ombre e tormenti, della Maison Goupil, generò una pittura al limite fra il kitsch e il sofisticato, fatta di lacche e verdi smeraldini, “urletti” di colore giallo e bianco, di chiari purissimi, di tocchi densi di luce, di riccioli dorati e lucide sete, a rappresentare gli ambienti aristocratici del XVIII secolo della corte del re Sole o i lussureggianti giardini di Versailles animati da carrozze, portantini e cicisbei. I piccoli quadri di Boldini incontravano, neanche a dirlo, il favore del pubblico, seguendo così, a colpi di pennello e quantomeno a livello visivo, quella voglia di rivalsa della società civile e quel soffio vitale di libertà che andava sempre più animando la coscienza civica. Nasceva il gusto belle époque, rappresentando, dapprima attraverso l’espediente delle celebrazioni della grandezza imperiale, poi tramite l’analisi diretta della realtà contemporanea, una variegata gamma di espressioni umane: dai fenomeni di costume sociale, come i caffé concerto, i tabarin, le corse di cavalli, a quelli di altre discipline artistiche come il teatro, l’opera o il cinema dei fratelli Lumière. In questi anni i giornali svilupparono la funzione di organi primari dell’informazione, estesa alla sfera intellettuale e dell’ingegno, accentuando, anche per quanto riguardava le arti visive, il ruolo di strumenti di propaganda e opinione.
Mentre gli uomini tempravano lo spirito consumando champagne e godendo dei piaceri del gioco e della carne in un’atmosfera di dissoluta eleganza, le donne pensavano all’amore e alla pièce dell’adulterio, contenute nei loro rigidi corpetti di stecche di balena. Parigi, più di altre, fu la città immagine di quel nuovo mondo, divenendo la capitale europea del turismo e dei consumi, degli spettacoli e dell’arte, della cultura e della scienza, dello sport e della moda, e generando un’enorme crescita demografica, un fermento di situazioni nuove e di quel pullulare di varia umanità che costituì il terreno fertile per l’analisi introspettiva condotta da Boldini nel corso della sua lunga carriera.
La fama del grande ritrattista cresceva di anno in anno, e non c’era a Parigi nobildonna che non desiderasse farsi ritrarre da lui, che collezionava così un foltissimo novero di conoscenze altolocate, di inviti a vernissage, per il tè nei salotti buoni della città, divenendo perlomeno apparentemente un perfetto dandy e coltivando la passione per la vita elegante e per la musica – che nel 1886 gli valse la conoscenza e la possibilità di ritrarre Giuseppe Verdi – nonché quella per la pittura, alla quale si dedicava instancabilmente per moltissime ore al giorno. Carlo Placci lo definì un “curioso, buffo, brutto omino! […] uno gnomo sgarbato, sgraziato, geloso, vanitoso, geloso, astioso […], invidioso, acre, gnomico”, ossia una persona non facile da trattare, con pochi amici a Parigi tra i quali Sem, il pittore Helleu e altri, quelli di sempre,come Signorini e Banti, a Firenze, a grande distanza.
Critico nelle conoscenze come negli affetti, Boldini sembrava risentire come di un costante desiderio di rivalsa verso la vita che probabilmente gli parve, in parte, non essere stata generosa con lui, a causa del suo aspetto, così insignificante, tanto da essere stato congedato dalla leva militare perché alto soltanto 1 metro e 54, cioè più basso di un centimetro rispetto alla statura minima consentita, ma anche a causa di quella grande e chiassosa famiglia di provenienza, povera e per giunta composta da gente assolutamente comune, non certo all’altezza delle sue aspettative e del rango al quale ambiva. Il giovane Zanin, questo il suo affettuoso soprannome ferrarese, decise di sottrarsi a quel contesto, di lasciare la città estense per Firenze, raggiungendo poi Londra e infine Parigi, lontano da tutti per sempre, libero di essere se stesso, di essere il grande peintre italien, senza doversi chiedere se qualcuno conoscesse il padre Antonio, modesto pittore copista e restauratore, o la sorella Filomena e il fratello Gaetano.
Sebbene il viaggio nella Ville lumière sia stato per Giovanni di sola andata, dal momento che vi rimase fino alla morte, la distanza dal suo Paese d’origine, l’assenza e l’incapacità di coltivare una relazione sentimentale stabile, ne fecero un uomo emotivamente alla ricerca di se stesso, che non poteva dirsi francese ma nemmeno italiano e che viveva cercando la sua grande occasione, introducendosi man mano nel bel mondo, intessendo rapporti proficui con le personalità di spicco dell’epoca. Fra tutti il conte Robert de Montesquiou, oggetto di vere passioni, che godeva anche della stima e dell’amicizia di Gabriele d’Annunzio, conosciuto durante il soggiorno del poeta italiano ad Arcachon, sempre circondato da discepoli e ammiratori del calibro di Marcel Proust o del pianista Léon Delafosse, oltre i fedeli amici, come sua cugina, la contessa Greffulhe, o la principessa di Léon, Judith Gautier, Gustave Moreau, il pittore James Abbott McNeillWhistler, la principessa Bibesco; questi ultimi due, come Montesquiou, furono ritratti da Boldini, che del conte rese l’effige più nota e splendente. Il fascino estremamente raffinato esercitato da questo personaggio sui suoi contemporanei lo rese oggetto di molti dipinti e modello per eroi di altrettanti romanzi: da Des Esseintes in À rebours (Controcorrente, 1884) di Joris Karl Huysmans, a Monsieur de Phocas (1901) di Jean Lorrain a, soprattutto, il baron de Charlus in Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust. I salotti cittadini come quello di Montesquiou, ugualmente frequentati da artisti e intellettuali come da personalità facoltose, erano dunque quanto di meglio potesse attendersi Boldini, entusiasta di quell’ambiente esclusivo nel quale con tanta fatica era riuscito a introdursi assicurandosi al contempo sia la possibilità di ottenere commissioni, sia l’opportunità di aggiornarsi sulle questioni dell’arte, uscendo dallasua cerchia più ristretta di pittori e confrontandosi anche sul piano intellettuale e filosofico con letterati, musicisti e artisti di altro genere.
Se esporre all’annuale Salon fu per lui un passaggio obbligato per accrescere la propria fama, così gli incontri avvenivano soprattutto nei bar e nei caffè concerto, luoghi prediletti dagli artisti dove, in un clima bohèmien, fra tintinnii di coppe di champagne, cappe di fumi e frastuoni di voci e musica, l’atmosfera diveniva talvolta goliardica, favorendo la battuta e lo scherzo.
Vicino a Place Pigalle, dove aveva abitato dal 1872 al 1886, quando si trasferì in Boulevard Berthier in una casa presa in affitto grazie a Sargent, vi era il Caffè Nouvelle Athènes, frequentato fra gli altri da Diego Martelli, Zandomeneghi, Marcellin Desboutin, De Nittis e dall’amico Degas, di padre e radici italiani, tanto da intonare di quando in quando canzoni napoletane e arie di Cimarosa. La comunità di artisti italiani era in effetti piuttosto folta e in certi ritrovi non era difficile sentire parlare la lingua di Dante, come per esempio al Circolo della polenta, dove si ascoltava musica, si cantava l’opera e si ballava, o al Santarsiero, un ristorantino italiano sull’Avenue Mac Mahon dove pare cenassero Degas e anche Boldini e Zandomeneghi. Frattanto, conclusosi nel 1878 il rapporto di stretta collaborazione con la Maison Goupil, nel corso degli anni ottanta la pittura di Boldini si apriva a nuove suggestioni, in un’organizzazione spaziale più libera, ove la figura umana, specialmente quella femminile, assumeva una propria singolarissima autonomia formale e dinamica preponderante.
Un po’ come le persone che questi quadri ritraevano, seguendo una parabola estetica speculare alla moda e alle consuetudini di quella società sempre meno tradizionale e ottocentesca e sempre più aperta al progresso, le forme chiuse e puntualizzate nei minimi dettagli del periodo Goupil si stemperavano in composizioni più mobili, nelle quali prendeva man mano il sopravvento il segno quale elemento grafico di caratterizzazione.
Tutto sotto gli occhi di Boldini sembra svolgersi in un attimo, quell’attimo che lui voleva cogliere a volo, dagli incontri galanti con la contessa Gabrielle de Rasty consumati in una loro garçonnière presa in affitto, fino alle brevi conoscenze fatte alle prime dell’Opèra, delle quali rimangono soltanto le belle calligrafie degli appunti chiosati su qualche carta da visita. Boldini intendeva fermare il tempo che fugge, fissare quelle scene di vita vissuta fatte di atmosfere irripetibili, di fiacre in attesa davanti ai teatri, con fiaccherai in livree dalle bianchissime golette inamidate, di eleganti signore dagli scolli vertiginosi, di gesti galanti, di inchini e di parole sussurrate all’orecchio, di sagome di mantelli neri, di arie d’opera e attraverso il suo universo di immagini riuscì a esprimere il gusto raffinato di quell’epoca.
Fra le “divine”, questa la definizione da lui resa delle centinaia dimuse passate di fronte al suo cavalletto, figurano i nomi più in vista della bella società, come Consuelo Vanderbilt, duchessa di Marlborough, sposata con Charles Richard Spencer-Churchill e ritratta anche da Sargent, la cilena Emiliana Concha de Ossa, la consorte del banchiere Arthur Veil-Picard, la contessa de Leusse, Cecilia de Madrazo Fortuny, sorella e moglie dei due pittori Madrazo e Fortuny, l’attrice Alice Regnault e la danzatrice spagnola Anita de la Feria, soltanto per citarne alcune dell’interminabile elenco. Fra loro anche la contessa Luisa Casati, alla quale D’Annunzio scrisse: “I rosai del Vittoriale ti aspettano per fiorire”, spargendo letti di petali per i giardini e le stanze del Vittoriale, in attesa di una sua visita. Accecata dalla voglia di sorprendere e impressionare, l’eccentrica femme fatale aveva fatto della sua silhouette longilinea un’icona di sofisticata sensualità e snobismo: il suo viso era pesantemente incipriato, gli occhi profondamente bistrati di nero e i capelli tinti, anche rosso fuoco, e si fece ritrarre da Boldini con le penne di pavone in testa o in nero, con fiori viola e levriero nero al guinzaglio. Il conte Montesquiou, originario signore del Palais Rose di Parigi, poi abitato dalla Casati, che naturalmente vi continuò la tradizione di feste e ricevimenti sfolgoranti, vide in quel ritratto “la più sottile rappresentazione delle parigine della nostra Repubblica affidata a un italiano”, e ancora “Pariginismo, Modernità sono le due parole scritte dal maestro ferrarese su ogni foglia del suo albero di scienza e di grazia. Albero tentatore di tutte le Eve che hanno il mal del ritratto, di tutte le sfingi dell’atelier, il cui enigma modula, in cento tele scelte, le due frizzanti parole: Modernità, Pariginismo”. Parallelamente all’affermazione delle filosofie decadentiste, Boldini rappresentava lo spirito della sfera altoborghese della società attraverso un’arte edonista – nella quale lo stile ricercato allontanava per sempre i personaggi dalle urgenze della quotidianità – fatta di eleganza e di attenzione per i particolari, espressione di quell’ideale di bellezza radiosa e al contempo inquieta, talvolta velata di malinconia, riflessa negli sguardi e nella grazia seducente di femmine infatuate di se stesse, colta a volo in una sorta di incantato autocompiacimento. Di pari passo a certa letteratura francese, come i romanzi di Bourget, la pittura del nostro venne via via affinando la vocazione all’analisi della psicologia femminile colta nei momenti di crisi morale e di inquietudine dovuti a confusi turbamenti erotici e alla voglia di autodeterminazione, combattuta fra i richiami moralistici del perbenismo borghese e l’inarrestabile urgenza di emancipazione.
Nei primi tre decenni del Novecento Boldini era ormai un attempato signore affiliato all’alta borghesia e all’aristocrazia francesi che, man mano che veniva meno la sua capacità di dipingere a causa di una grave malattia agli occhi – che in ultimo loavrebbe reso quasi cieco – passava il tempo fra Parigi e la Costa Azzurra, intrattenendosi con i nomi più in vista dell’aristocrazia internazionale.
In questo periodo, l’ultimo della lunga esistenza di Boldini, scomparso nel 1931 a 91 anni, ebbe luogo una sorta di rottura generazionale, intrisa di tensioni psicologiche e sociali, fra gli artisti che come lui avevano un tempo cavalcato l’onda del radicale rinnovamento delle arti visive, fin dalla filosofia che muoveva i registri stilistici ottocenteschi, ma ormai icona di concezioni passate, considerate vetuste o quantomeno classiche, e una nuova generazione di artisti impegnati in sperimentazioni avanguardistiche, destinate a sconvolgere per sempre i termini di valutazione del concetto stesso di bellezza.
In una sorta di gioco del divenire dei ruoli, le nuove leve dell’arte conquistavano la ribalta, contestando i vecchi e celebri maestri come lo stesso Boldini, ormai simbolo della “Bella Epoca” che fu sconvolta dagli eventi storici e da un’implacabile trasformazione sociale e tecnologica. La società sviluppava la sete di modernità, prendendo le distanze dallo stile di ricercata eleganza di Montesquiou e da Boldini, autore di un lessico espressivo sempre misuratamente distante e al di là di ogni movimento artistico, divenuto nell’immaginario di gran parte della critica l’accezione negativa del pittore legato a un periodo storico dominato dal gusto per l’ostentazione e per l’eccesso.
In uno stato di isolamento emotivo, Boldini viveva gli ultimi anni della senilità ricevendo pochi amici, fra i quali il giornalista e scrittore conte Luciano Zuccoli, autore del romanzo La vita elegante, ovvero la traslitterazione filosofica dello spirito aristocratico del suo autore, dei suoi intimi convincimenti e di quel modo di essere e di vivere, consuetudine della classe più alta della società, con le sue leziosità, le sue ostentazioni e la sua vocazione allo chic.
Il conte fu legato da sincera amicizia a Emilia Cardona, una delle figure più significative e controverse della vita affettiva di Boldini. Le loro biografie si incrociarono alla fine degli anni venti quando, ormai tramontati i fasti della Belle Époque, c’era ancora chi, come loro, raggiungeva Parigi per partecipare al mito nostalgico di quell’epoca, alla ricerca di un modo di vivere elegante che per Zuccoli, e ancor più per la giovane giornalista, costituiva un baluardo di civiltà immaginato e a lungo sognato. Emilia infatti, in stato di indigenza, fuggita dall’Italia e da un matrimonio difficile con l’architetto Mario Massimo Mencarelli, fu ricevuta da Boldini un giorno di fine settembre del 1926, per realizzare un’intervista quale inviata della “Gazzetta del Popolo” di Torino, consumando quello che si sarebbe poi rivelato l’incontro più importante e dibattuto della sua vita:
Suonai una seconda volta sicura di veder apparire dalla soglia di legno ornata da un ramo di ferro battuto un servitore in ghingheri e livrea. Ebbi un colpo: vennead aprire un piccolo vecchio dal torace ampio, dalle gambe torte, vestito di marrone, che portava in capo una bombetta; gli occhi che mi squadravano dall’alto in basso erano cerulei.
Lei era una colta e vivace ragazza della provincia piemontese che aveva difficoltà a pagare il conto delle stamberghe nelle quali dormiva, lui un uomo famoso e abbiente ma ormai vecchio e solo. Così gli incontri fra loro si succedettero, dando presto vita a una tenera amicizia, fino alle nozze, avvenute tre anni più tardi, il 19 ottobre 1929.
L’età e lo stato di salute di Boldini non consentivano alla coppia – 30 anni lei e 87 lui – una vita, per così dire, normale e, ironia della sorte, l’artista che aveva per tutta la vita giocato con l’amore, l’impenitente libertino sfuggito fino a allora al matrimonio, fu illuso dall’ultima sua musa.
Emilia, infatti, almeno dal 1930, all’insaputa del marito costretto a sonnecchiare in penombra anche nelle ore del giorno a causa di una specie di nebbia agli occhi che gli offuscava la vista, aveva preso a frequentare lo scultore calabrese Francis La Monaca, che incontrava nell’atelier di rue Lafitte.
Non volendo in questa sede dilungarmi indugiando sui complicati rapporti coniugali ed extraconiugali della signora Boldini, già a suo tempo ampiamente dibattuti, rimando per questo al catalogo della mostra antologica, a mia cura, dedicata nel 2008 a Boldini e ai suoi amori, dal titolo appunto Boldini Mon Amour. In quella sede fu presentata una enorme quantità di documenti inediti, fra fotografie, biglietti, carte da visita e lettere, che costituiscono uno dei maggiori contributi portati in epoca post mortem alla ricerca biografica sugli ultimi anni di vita di Boldini e della moglie Emilia Cardona.
Questi studi hanno aperto, a ben vedere, nuovi filoni di indagine, uno dei quali ci pare valga la pena approfondire ancora una volta, analizzando certi aspetti che al tempo non poterono essere del tutto puntualizzati. Oggi come allora abbiamo la rara occasione di poter attingere da fonti dirette, quali alcune sorprendenti e fondamentali lettere inedite – sebbene la proprietà non ci abbia concesso di pubblicarle né di rivelarne il destinatario – specialmente alcune scritte dalla signora Boldini, conservate in archivio privato argentino e pervenuteci quali, forse, ultimi conclusivi ritrovamenti a definizione di un quadro di affetti, amori, umane passioni e debolezze consumate nell’atmosfera dorata della “vita elegante”, nella Parigi di Boldini.
All’insaputa del fratello Gaetano, dimostratosi fermamente contrario al matrimonio con la Cardona, Boldini nel 1929 aveva nominato sua moglie erede universale, circostanza che dovette pesare non poco sulle scelte di Emilia quando, ipotizziamo nel 1930, rimase in stato interessante, dando poi alla luce una figlia. Secondo, infatti, quanto sottinteso ma non espressamente dichiarato nei confidenziali colloqui da me tenuti alla fine degli anni novanta con Mario Murari, nipote ed erede diEmilia, e oggi confermato dal ritrovamento delle missive inviate negli anni cinquanta a una amica trasferitasi in Sudamerica nelle quali la Cardona riferisce la particolare vicenda, ancora giovane la signora Boldini dette la figlia, sua e di Francis, in adozione attraverso lo Stato francese per poi, molti anni più tardi e in più occasioni, fare richiesta di rivederla alle autorità competenti e vedersela negare, ormai definitivamente assegnata a una nuova famiglia. La convivenza con l’anziano marito, sebbene quasi cieco, non dovette risultare facile per Emilia, dovendo nascondere a lui e a tutti la gravidanza, per paura, immaginiamo, di dar luogo a un enorme scandalo e essere quindi diseredata.
L’amore sbocciato fra i due amanti – divenuti coniugi nel 1932, un anno dopo la scomparsa di Boldini – e poi per la neonata bambina, non furono evidentemente sufficienti a dissuadere Francis e Emilia dal rinunciare al progetto di vita agiata che l’eredità del grande maestro avrebbe loro consentito, continuando imperterriti, nonostante il lieto evento, a coltivare in segreto e a ogni costo il loro piano sciagurato. Alla luce di questa nuova scoperta si apre dunque una serie di interrogativi, sia sulla effettiva paternità della figlia, con ogni probabilità veramente generata da Francis, non potendo tuttavia aprioristicamente escludere la possibilità che fosse Boldini il vero padre, e dunque sui sentimenti e sulla condotta di questa femme fatale che giocando il doppio ruolo di amante e moglie, e non potendo nascondere il suo stato al giovane compagno, avrebbe anche potuto ingannarlo, attribuendogli la paternità, avendo sempre negato di aver consumato il matrimonio con Boldini.
Ci appare evidente quanto trepidante dovesse essere stata l’aspettativa di Francis ed Emilia per l’eredità attesa dal celebre marito, il cui stato di salute nel 1930 risultava già fortemente compromesso. Deceduto Boldini, la Cardona, come abbiamo detto, si sposò con La Monaca, con il quale visse felicemente, viaggiando molto, fino alla morte dello scultore avvenuta prematuramente nel 1937, sebbene le lettere scritte di pugno dalla donna circa vent’anni dopo, quando cioè aveva ormai lasciato Parigi risiedendo da lungo tempo in Italia, esprimano lo struggimento di una madre distrutta dal dolore e dal rimorso per aver ripudiato la sua unica figlia. Difficile, ancora oggi, comprendere a fondo il carattere e la psicologia di questa figura controversa, alla quale si deve l’istituzione del Museo Boldini, attraverso il generoso lascito di molte opere del maestro al Comune di Ferrara; immaginiamo che, vedova prima di Boldini e poi di La Monaca, perduto per sempre il frutto del proprio grembo, pentita, abbia infine cercato, producendosi in un’azione esemplare, un riscatto morale e una conclusione umanamente più degna per i fatti lontani, accaduti a Parigi nella Belle Époque della sua giovinezza.Dal catalogo Silvana Editoriale






2011-05-30


   
 

 

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