Un riprovevole malinteso: GUERRA E COSTIZIONE
 







di Emilio BENVENUTO




L’ultimo spargimento di sangue pugliese – e non “leghista”, sebbene si tratti ancora una volta di Alpino - nel  lontanissimo Afghanistan ha indotto in questi giorni a un riacceso dibattito sulla legittimità della presenza ufficiale di nostri militari in quel Paese, scosso da una lunga guerra civile.
Cosa sia una “guerra civile” fu ben spiegato dai Romani, che chiamavano “bellum civile” quello fra “cives”, ossia di cittadini contro concittadini.
E’ quindi una lotta armata, che si protrae nel tempo [poiché se si risolvesse nel giro di pochi giorni, si dovrebbe parlare più propriamente di insurrezione, o pronunciamento, etc.] e con contingenti relativamente cospicui di forze da entrambe le parti, fra due frazioni del medesimo esercito o di una medesima Nazione, l’una appoggiantesi a un Governo più o meno legittimo, l’altra aspirante a conquistare il potere e appoggiantesi a un Governo espresso da elementiinsorti o secessionista.
Una tale guerra non è riconosciuta dal diritto internazionale, fino a quando agli insorti non sia riconosciuta da Stati esteri la qualità di belligeranti, il che dipende dall’apprezzamento soggettivo che singoli Governi esteri fanno della natura e della consistenza del movimento insurrezionale. I casi più clamorosi di guerra civile sono stati, negli ultimi due secoli, la guerra di secessione americana (1861-65),  della guerra civile russa (1917-20) e di quella di Spagna (1936-39).
Normalmente, una guerra civile, che si protragga nel tempo importa consultazioni e accordi tra Stati terzi [tale fu l’accordo di non intervento, peraltro spudoratamente violato, nella guerra di Spagna] e talora anche l’opposto schieramento di tali Stati a favore dell’uno o dell’altro dei contendenti [come pure avvenne appunto nel corso della stessa guerra di Spagna].
L’intervento di uno Stato estero in un siffatto conflitto è una misura di autotutela riconosciuta daldiritto internazionale, ma nel solo caso  di una violazione di un diritto  di detto Stato, per ottenere il ristabilimento del diritto leso o il risarcimento del danno subito.
Esso si distingue dalle semplici misure di pressione esercitate senza invasione della sfera giuridica altrui e dalla “rappresaglia”, in cui la soddisfazione del torto subito viene conseguita direttamente con azioni lesive, che abbiano carattere punitivo.
Mancando un tale legittimo motivo di intervento, ogni Stato è tenuto all’obbligo di “non intervento” nella sfera giuridica di altri Paesi, commettendo altrimenti un illecito. Quest’obbligo fu espressamente riaffermato proprio nell’accordo tra gli Stati europei durante la guerra civile spagnola, assumendo allora carattere di obbligo reciproco tra essi, in quanto era venuto meno il normale titolare del diritto di non ingerenza altrui nei propri affari interni per la carenza di uno Stato spagnolo da tutti i contraenti riconosciuto legittimo [il chenon tolse infatti a parecchi di tali Stati contraenti di intervenire di fatto, più o meno apertamente].
E’ fin troppo evidente che un intervento militare in un Paese in preda in una guerra civile e in favore di una delle due parti, anche ove esso fosse da questa richiesto, è indubbiamente un intervento in  una “guerra”, comunque la si qualifichi.
Cosa a tal proposito dettano i “principi fondamentali” della nostra Carta costituzionale?
•  All’art. 10, c. 1°: “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”.
•  All’art. 11: “L’Italia rinunzia alla guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione dellecontroversie internazionali; consente,in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove o favorisce le organizzazioni internazionali rivolte atale scopo”.
Ora vi sono, tra noi:
•  coloro che sostengono che la corretta interpretazione di queste due norme esclude che esse consentano  un qualsiasi  loro riferimento al fatto del nostro intervento militare in Afghanistan;
•  altri, invece, che affermano che la  conformità alle norme del diritto internazionale [nella specie il divieto di ingerenza nelle vicende interne di un altro Stato] e la rinunzia alla guerra [quando non risposta a una patita aggressione o a grave minaccia alla propria integrità e alla salvaguardia dei suoi cittadini], dalle dette norme previste, non legittimano una nostra presenza militare in Afghanistan;
•  altri, ancora,che ritengono che le condizioni limitanti la rinunzia da noi fatta alla guerra e il fatto che il nostro intervento sia stato ufficialmente dichiarato “missione di pace” quell’intervento nella fattispecie giustifichino.
La discussione in corso verte quindi sull’interpretazione di principi premessi dalla legge fondamentale dello Stato [e, in quanto espressamente dichiarati “principi fondamentali”, non possono essere considerati “programmatici”].
Ebbene, l’art. 12, c.1°, delle vigenti “Disposizioni sulla legge in generale” [R.D. 16.3.1942 n° 262] detta che nella interpretazione di una legge “non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal  significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e della intenzione del legislatore”. Qual fosse questa intenzione fu chiaramente espressa dall’On.le Meuccio Ruini nella relazione sul progetto di Costituzione, approvato nel testo coordinato dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947:
“ . . . La costituzione, dopo aver affermato il concetto della sovranità nazionale, intende inquadrare nel campo internazionale la posizione dell’Italia: che dispone il proprio ordinamento giuridico in modo da adattarsi automaticamente alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.Rinnegando recisamente la sciagurata parentesi fascista, l’Italia rinunzia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degl ialtri popoli . . .”
E’ questa, quindi, la sola interpretazione che il nostro ordinamento giuridico consente dell’art. 11 Cost. Il nostro intervento militare in Afghanistan, indubbiamente, non può essere inteso come strumento di un nostro ascoso intento di conquista d’un Paese lontanissimo. Ma resta la domanda se esso non rechi offesa alla libertà del popolo dell’Afghanistan di darsi propri liberi ordinamenti, senza subire altrui imposizioni.
Ma resta pure lecito porsi un’altra domanda. Questa formulazione della “rinunzia alla guerra” non ha voluto sostituire il normale “diritto di pace” col “diritto-dovere di neutralità”, ispirato al principio di assicurare la completa astensione del neutrale da qualsiasi forma di aiuto bellico a un belligerante?






2010-10-19


   
 

 

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