UN ACCORDO FELICE TRA OSSERVAZIONE DELLA REALTA’ E TRASFIGURAZIONE NEL SENTIMENTO |
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di
Enzo Dall’Ara |
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L’arte
è vita, elevazione, dialogica intesa sociale con l’interiorità
e con il mondo. L’artista è divulgatore di pensiero,
di emozione, di ragione morale sublimata nel prisma olistico
dell’immaginario etico.
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n.1 |
Allora,
arte ed artista divengono protagonisti di un “umanesimo”
universale che, nella considerazione dell’uomo e delle
sue azioni, non teme le acredini transeunti di agguerriti
microcosmi storici. La dignità di uomo e natura esige
il rispetto dell’idea e della proiezione ad ascese di
concordia. Alto e positivo deve essere l’ideale artistico,
dischiuso alla verità di un’affermazione vibrante,
che non condanni al sepolcro la più pura espressione
umana, ossia quella creatività che rende solenne il
più semplice e dona umiltà al più pretenzioso.
Nella realtà di un mondo convulso, come l’attuale,
è la comunicazione creativa che ha l’onere di
stemperare fuochi d’aggressione e di detergere, da infingimenti
contingenti, accarezzati aneliti di essenza trascendente.
Chi sosta soltanto nel concreto, assiste e partecipa ad ineluttabili
cadute, chi s’inerpica sui versanti del pensiero artistico,
può salire e raggiungere le vette dello spirito. Ecco
dove sono vinti gli affanni della materialità e risultano
invece vittoriose le dimensioni rigeneranti della luce interiore.
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n.2 |
L’artista
non è mai solamente epigono del reale, bensì
interprete di una sua verità assoluta che si conferma
nel fermento di un innovativo atomo di creatività.
In arte, la realtà accoglie i molteplici sembianti
di una metamorfosi che si modella sulla sofferenza e sulla
gioia dell’atto creante. Nascono, così, nuovi
orizzonti del vero, più tangenti alle corde dell’essenza
che consumate e tramandate certezze del reale, maggiormente
consone a leggi scientifiche, ma sicuramente meno vivificanti.
L’opinabilità dell’esigenza dell’arte
perde pertanto consistenza e prendono invece vigore i fondamenti
che suggellano l’immortalità dell’espressione
creativa e l’urgenza dell’informazione del pensiero.
L’arte, quindi, intesa come paradigma di crescita dell’individuo
e della collettività, diviene messaggio silenzioso
o gridato di una voce interiore che è specchio di un
modulato sottofondo sonoro. Allora ogni artista, al di là
di più o meno consolidate affermazioni di notorietà,
sente di appartenere ad un colloquio d’assoluto musicale,
in cui poter siglare almeno una nota personale. Se la storia
non è sempre prodiga di adeguati riconoscimenti, soprattutto
in tempi e spazi ravvicinati e costretti, essa va dunque curata
nelle sue disattenzioni, per perfezionarla nell’attesa
della sua credibilità. Soltanto proiettandosi alle
soglie, seppur utopistiche, della giustezza esegetica, s’inizia
un tratto di cammino verso una possibile meta di chiarezza.
Alla luce di queste convinzioni, s’intende, qui e ora,
togliere un velo di oblio disteso dallo scorrere del tempo
sulla vitalità di una proposizione artistica senza
dubbio significativa e pertanto meritevole di rinnovata attenzione
critica. Il percorso di artista e uomo, di cui si va ad analizzare
lo spessore dialettico, riguarda l’esperienza pittorica
di un esponente della cultura figurativa romagnola del recente
passato, ossia le significanze tematiche e lessicali delle
opere di Benito Partisani, conosciuto in arte come Mastro
Lupo.
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n.3 |
Artista
impegnato in un ampio ventaglio linguistico, valente ideatore
e creatore di dipinti, nonché di realizzazioni ceramiche
e scultoree, egli è stato maestro e guida di ammirati
protagonisti dell’arte romagnola del XX secolo. La sua
poetica, intrisa di alti valori esistenziali e di silente
dimensione lirica, si afferma in un poliedro tematico che
spazia in ogni campo della più intima tradizione pittorica.
L’osservazione del reale non si esaurisce mai in pura
rappresentazione iconografica, ma si tinge di un intenso afflato
interiore, che consente di addivenire ad un’elaborazione
assai introspettiva dell’elemento raffigurato.
Mastro Lupo non è stato soltanto artista di veritiera
dichiarazione naturalistica, egli ha immerso il suo pennello
nel plasma del dolore e della sofferenza, assecondando anche
empiti di realismo sociale e di profonda riflessione sulle
asperità del vivere. I suoi ideali di uomo e di artista
assumono consistenza dal vissuto umano e dall’analisi
dei moti dello spirito, per divenire vibrante colloquio di
colore, luce ed emozione. In “Frammenti di un diario
intimo”, Henri Frédéric Amiel affermava:
«Un paesaggio è uno stato d’animo»;
l’arte di Mastro Lupo concorda appieno con tale convinzione,
poiché il dato naturalistico è sempre interpretato
sulle onde di un gesto veloce che è diretta emanazione
di vibrazioni interiori.
La formazione figurativa dell’artista romagnolo, maturata
prevalentemente in un’autonoma ricerca personale, rivela
talora percepibili echi della mirabile speculazione pittorica
espressa dalla “scuola romana”. A Roma, infatti,
Mastro Lupo ebbe l’opportunità di frequentare
l’Accademia di Belle Arti, ove ottenne plausi per la
serietà d’impegno, per l’abilità
cromatica e segnica, per la propensione dimostrata alla formulazione
anatomica. Ma il suo sentire artistico è costantemente
permeato dell’amore per la terra natale, la Romagna,
avvertita nella malinconica e poetica atmosfera di una solarità
ambrata, spesso foriera di crepuscolari emersioni di memorie.
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n.4 |
I
paesaggi della collina romagnola, così consonanti con
quelli della vicina Toscana, sono suggellati da una diffusione
di colore-luce, di colore-ombra, che rimanda all’oggettività
dell’impressione, ma in particolare alla fragranza gestuale
della pittura di “macchia”. Gli spazi agresti
non lasciano dubbi sull’intenzione dell’artista
d’innescare un intimo dialogo con la natura, percepita
nell’armonia acquietante dei suoi elementi fondamentali
e nel sommesso fervore di occupazioni rurali. Vi è
una poesia di fondo nelle vedute di Mastro Lupo, un sentimento
introspettivo che freme allo scorrere delle ore e delle stagioni
e che pervade di vivifiche enunciazioni il binomio uomo-natura.
Ma all’olio su tavola o su tela o alla sintesi del disegno
il pittore consegna anche testimonianze fisiche ed antropiche
di una storia recente, purtroppo ormai estranea allo sguardo
dell’osservatore odierno. Così, i dipinti di
Mastro Lupo vincono l’oblio del tempo e divengono messaggeri
di una “cultura materiale” in cui allignano le
nostre originarie radici. Cielo e terra si coniugano in suggestioni
atmosferiche uniformi, suggellate da avvolgenti lumeggiature
cromatiche che, nel silenzioso fluire del tempo, espandono
sospensioni di attimi, enucleati come momenti esplicativi
di una suprema verità. Allora, la quiete diventa stasi
apparente di quel vitale dinamismo del pensiero che immerge
lo spirito negli orizzonti arcani ed assoluti della trascendenza.
Il luogo delle origini dell’artista, Predappio, ed i
territori limitrofi s’elevano da microcosmo geografico
ad universo esistenziale, che accomuna l’umanità
al cospetto dell’enigma della soglia liminare. E nel
vibrante mistero di un “notturno”, in cui la luce
lunare accende di chiarori volumetrici gli antichi muri di
case-essenze, la presenza di un’assorta sembianza figurale
annuncia la dignitosa compostezza dell’essere umano,
fragile eppur emozionato davanti all’insondabile spettacolo
cosmico e alla meraviglia di un borgo-acropoli. Ma il fermento
interiore scaturisce anche da atmosfere diurne, quando l’arte
dilaga fra campi coltivati e segue lo scorrere ondivago di
un fiume che, in mirabili trasparenze cromatiche liquide o
in impetuose densità di veemente flusso, appare emblematica
e speculare metafora di vita.
Al verbo del simbolo e dell’essenza oggettuale Mastro
Lupo affida la sintesi di un sincero e vivido colloquio artistico;
le “nature morte” e, in particolare, le composizioni
di fiori emergono come suadenti elaborazioni figurative, alle
quali è assegnato il compito di esprimere le possibili
tangenze ed incidenze fra bellezza estetica e scavo introspettivo.
È come se il pittore volesse custodire, nel tattile
turgore di frutti e fiori, la dionisiaca ebbrezza della natura
e riflettere sul “carpe diem” oraziano, che incita
a godere del presente, poiché il futuro serba sempre
incertezze.
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n.5 |
La
tematica floreale è vissuta dall’artista in fascinazioni
di accensioni coloristiche che evocano squillanti esuberanze
naturali, roride di luci e di profumi attinti al fervore della
vita. I prediletti papaveri, insieme ai fiori di campo, sollecitano
una rigenerante riflessione sul valore della purezza agreste:
con gli steli immersi nella vitrea liquidità di vasi
trasparenti, essi annunciano il piacere carezzevole della
luce e del timbro cromatico. Le rose, parimenti, effondono
quei delicati e sensuali effluvi di vita che non possono però
tacere anche assorte meditazioni su caducità e transitorietà
d’esistenza.
Così, le “nature morte”, elaborate su composizioni
di frutti sparsi, sovente coniugati con oggetti del vivere
quotidiano, conservano un’intensa verità figurativa,
pur non celando l’invincibile certezza della fine. Ma
l’artista ama sostare maggiormente su percettive dimensioni
vitali, informanti ancora la vellutata freschezza dei singoli
elementi compositivi, quali allegorie di procrastinate illusioni
d’eterno. Sensibile alle valenze strutturali di fervide
volumetrie, egli calibra impianti scenici estremamente armonici,
che giungono a ritmare spazio e profondità di suggeriti
interni, complici di calde e poetiche suggestioni.
Avvolgenti ed intensamente introspettive risultano anche le
atmosfere che accarezzano i nudi femminili, interpretati sempre
nel rispetto di un’intimità esistenziale conforme
ad un’essenza eminentemente riservata. La maestria segnica
e strutturale assume evolutivi valori dialettici in cromie
sobrie e soffuse, vibranti di una luminosità endogena
che, dilatata da fremiti interiori, delinea raffinati tratti
figurali, armonizzati nel silenzio introspettivo di interni
vissuti con fervore meditativo. Il suadente pudore femminile
non si piega mai all’inesorabile fluire del tempo e
suggella composte positure che, con profondo afflato introspettivo,
ubbidiscono a scultoree sembianze somatiche, definite nei
vibratili spazi del pensiero.
Un’analitica indagine interiore sigla anche la copiosa
produzione ritrattistica di Mastro Lupo, elaborata costantemente
sull’esigenza di far emergere verità esistenziali,
nel rispetto della riconoscibilità fisionomica. Se
i ritratti vivono di un’intensità espressiva
accelerata da dialogica ed eloquente caratterizzazione, gli
autoritratti denotano il desiderio dichiarativo di un’identità
che, nello scorrere del tempo, giunga a vincere l’eventualità
dell’oblio. Essi evidenziano il divenire di una metamorfosi
esteriore che, quale specchio di evolvente ed intimo dinamismo,
non oscura mai un’incisiva affermazione di schiettezza,
determinazione e semplicità di vita, ma anche d’intensa
autostima e di sincera consapevolezza di ineludibili valori
interiori.
Assai sensibile ai contenuti di una pittura deputata pure
ad icastici moniti scaturenti da fermenti e drammi sociali,
Mastro Lupo ha avvertito l’urgenza, soprattutto nel
secondo dopoguerra, di avvicinarsi a formulazioni realistiche,
atte a denunciare gravose problematiche economiche ed aberranti
violenze perpetrate durante l’asperità bellica.
Se elette scene di genere giungevano sovente ad immergere
le figure nella genuina verità di tranquilli e lirici
brani di paesaggio, ora la narrazione diventa dinamica e serrata,
concorde con gravi contingenze esistenziali, che esprimono
la drastica nudità del vivere.
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n.6 |
Fortemente
legato alla terra delle sue radici, l’artista si è
spesso soffermato sulla rappresentazione simbolica di specifiche,
scabre realtà sociali, trascritte in un linguaggio
pittorico e segnico denso di espliciti contenuti, consegnati
alla storia come memoriale verità di vita. La denuncia
politica e sociale si tinge di atmosfere ancor più
eloquenti, allorché sottolinea l’acme dell’efferata
violenza dell’uomo consumata nel dramma di una “fucilazione”.
Su scenari lividi ed inquietanti, l’epilogo di essenze
trucidate si articola in una triade di figure che, come crocifisse,
si piegano alla tragedia umana, nel silenzioso lamento di
entità trafitte. Ombre e luci di dolore definiscono
spazi di prostrazione e di tormento, consegnati al fatidico
tempo del ricordo, su cui vagano tumulti d’intima “pietas”.
Parimenti, quando l’artista svolge narrazioni pittoriche
e scultoree a contenuto religioso, egli entra nel dolente
universo di un’umanità ferita, permeata dell’enigma
di una verità concreta, eppur sfuggente, poiché
votata alle soglie del mistero. «Nel mondo, ciascuno
è Cristo, e tutti sono crocifissi», asseriva
Sherwood Anderson in “Racconti dell’Ohio”;
a questa considerazione si volge l’arte sacra di Mastro
Lupo, nella certezza che l’essenza umana non può
non soggiacere all’ombra di una luce spesso transeunte.
Le tematiche della “crocifissione” e della “deposizione”
non lasciano dubbi su una composta rassegnazione che non è
certamente fatale e puro accoglimento delle avversità,
ma che si configura come piena consapevolezza della sofferenza
umana. Nel segno di una chiara coscienza del vivere, affidata
ad una rigenerante attività creativa, l’artista
stempera l’affanno esistenziale nella luce cromatica
di opere che, sull’onda di idealità emozionali,
confermano i percettivi e fervidi abbrivi di una sottesa spiritualità
laica.
“In
questa bottega lavora Mastro Lupo, quando non è qui,
è altrove”: così accoglieva amici, collaboratori
e committenti Benito Partisani, in arte Mastro Lupo, personaggio
singolare e poliedrico, autentico rappresentante della risoluta
fierezza romagnola e artista d’indubbio valore semantico
ed iconografico. La scritta, sigillata su una targa in ceramica,
posta sul muro esterno dello studio, parla di un “altrove”
che, allora, suggeriva spazi fisici dell’assenza e che,
ora, rimanda ad un “oltre” enigmatico ed ignoto.
Oggi, la bottega è chiusa, silenziosa, quasi memento
di una vita dedita all’arte, la cui parabola terrena
si è conclusa nel 1969, spegnendo quell’inesauribile
fiamma creativa che ha suggellato un’intera esistenza
di ricerca e di passione. Il fuoco è spento, il forno
a legna, monadico alter ego dell’artista, non è
più rovente, e dove un tempo vibrava il fragore degli
attrezzi e delle voci, ora insiste un’atmosfera d’oblio,
malinconica e memoriale.
Predappio, città natale di Mastro Lupo, non ha più
quello storico laboratorio che appariva quasi come fucina
di Vulcano, in cui arte ed artigianato si fondevano nella
completezza totalizzante dell’azione. Lì, l’artista
dichiarava la sua vera identità, ossia dimostrava che
il creare, come afferma Albert Camus nel saggio “L’uomo
in rivolta”, significa “… dare una forma
al proprio destino”. Mirabile pittore e disegnatore,
Mastro Lupo indirizzava spesso la sua vis creativa a molteplici
forme di arti applicate, alle quali infondeva l’innata
originalità di un taglio espressivo artisticamente
armonico e tecnicamente consolidato nel diffuso tempo dell’esperienza
operativa.
Abile ceramista, egli avvertiva l’urgenza alchimistica
di modellare la materia argillosa della sua terra, assecondando
una proiezione d’infinito che pervenisse all’approdo
della creazione e della sublimazione dell’idea. “I
progetti sono promesse che la fantasia fa al cuore; e il cuore
non rifiuta mai questi pericolosi regali”, così
scriveva Jean-Louis Vaudoyer nel romanzo “La bien-aimée”.
Se pertanto il pensiero programmatico, nonostante l’incognita
del divenire, si dichiara in un intimo giuramento fra immaginazione
e sentimento, come poter dubitare della gelosia e della protezione
dell’artista verso le sue creazioni? Mastro Lupo difendeva
strenuamente le sue opere e non lesinava parole ad un giudizio
avvertito come critico: preferiva, allora, sottrarre una sua
realizzazione al commento ritenuto incompetente e custodirla,
amorevolmente, nel suo studio.
Uomo e artista d’azione, egli non era solito dilungarsi
in pedanti esplicazioni, si compiaceva, piuttosto, di colloquiare
d’arte, quando avvertiva sentori di dialettica comprensione.
Di mente schietta e nel contempo pensosa, Mastro Lupo si orientava
alle significanze del colore come alle suggestioni della modellazione
plastica, innescando, forse, un incipit di liberazione che
stimolasse almeno la coscienza dei valori tattili ed attivasse
i processi psichici deputati al fermento della sensazione
di piacere. Se il dipinto è godimento per lo sguardo
e sintesi delle percezioni emotive, la scultura vibra di una
bellezza più austera e ieratica, quasi matematica.
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n.7 |
Avvertendo
ogni valenza dell’arte, Mastro Lupo riscontrava forse
nella scultura in ceramica quel connubio fra colore e modellato
che consente all’operazione estetica di mediare fra
realtà esterna e sfera interiore. Così, la pittura,
fondamentalmente poesia silenziosa, s’accorda alla scultura,
sovente proiettata a memoriale monito escatologico. Ma la
ceramica, vissuta come vestizione pittorica di forme tridimensionali,
permette di vivacizzare lo spazio con cromatica potenza dialogica
e luministico vigore vitale.
Sosteneva Vasilij Kandinskij, nell’opera “Dello
spirituale nell’arte”, che “il colore è
un mezzo di esercitare sull’anima un’influenza
diretta. Il colore è il tasto, l’occhio il martelletto
che lo colpisce, l’anima lo strumento dalle mille corde”.
L’arte figurativa s’avvicina, allora, alla dimensione
emozionale della musica e ne coglie le intime sonorità
e vibrazioni. Ecco, probabilmente, la vera motivazione che
convinse Mastro Lupo a non abbandonare quasi mai il colore
e ad amarlo a tal punto da analizzarne ogni segreto, fino
a giungere alla personale creazione della materia pittorica.
La sua lunga e feconda ricerca cromatica gli permise di conquistare
mete operative inconsuete: l’artista approntò,
perfino, specifici pigmenti che, in ceramica, non subivano
alcuna mutazione tonale e timbrica nel processo di cottura
ad alta temperatura.
Autentico alchimista della materia, Mastro Lupo la plasmava
nel sapore metamorfico di una natura tinta di bellezza estetica
e di sostanza introspettiva. I quattro elementi fondamentali
dell’archè naturalistico si compendiano, pertanto,
in una physis generatrice di connubi lirici, metafisici e,
parimenti, realistici. Il plasma della terra e l’ossigeno
dell’aria interagiscono, nell’azione creativa
dell’artista romagnolo, con l’humus dell’acqua,
in cui, ad eco mitologica, si specchia sempre l’immagine
dello sfuggente fantasma dell’esistere. Ma è
il fuoco, “… grande maestro delle arti”,
secondo François Rabelais, che determina la consistenza
dell’espressione ceramica e ne consente l’imperitura
vita.
Un eloquente pannello, fissato alla parete esterna del laboratorio
di Mastro Lupo, denominato “La Prè” e già
sede negli anni ‘50 del Corso Vasai-Ceramisti di Predappio,
riporta, ancora, poetici intenti di un’arte vissuta
quale solidale vicenda esistenziale. Sulla targa in ceramica
sta scritto: “Raccolta sulle sponde bagnate dal Rabbi,
accarezzata dalla mano amorosa dell’uomo, baciata dal
fuoco, porto nelle vostre case la freschezza e la leggiadria
della forma e del colore”. Spirito e materia si fondono,
quindi, nell’arte di Mastro Lupo, con quell’essenza
e quella morfologia a cui i passaggi cromatici accordano la
luce della vita e della fervida esperienza meditativa.
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n.8 |
La
produzione ceramica dell’artista, iniziata nei primi
anni ‘50, spazia in ogni orizzonte formale, attestando
una versatilità espressiva che è propria di
un autore totale, in grado di incedere oltre la soglia della
convenzione. Se molteplici risultano le opere ascrivibili
ad assunti della tradizione, ugualmente numerose sono le creazioni
ad afflato prettamente scultoreo. La vasta gamma di vasi fittili,
alcuni elaborati in seno alla scuola di ceramica di Predappio,
si afferma in un poliedro di forme che attingono sia alle
sorgenti di esperienze trascorse, sia alle fonti di una creatività
sollecitata da moderni accenti estetici.
Accanto ad elementi perfettamente modellati su simmetriche
ed essenziali armonie di volumi, emergono realizzazioni che,
varcando la consuetudine dell’euritmia geometrica, consentono
fertili argomentazioni impresse su un’evidente libertà
di accordi spaziali. Gli oggetti, non sempre deputati a funzioni
d’uso, assumono caratteristiche originali, incidenti
con l’esigenza di concretizzare l’emozione dell’idea.
Le superfici dipinte, a cromie calde ed ambrate, consonanti
con i toni eletti della pittura di Mastro Lupo, svolgono sovente
una narrazione protratta su tematiche avvinte all’elemento
acqua, elargendo luminose liquidità ed aspetti formali
trattati, talora, su suggerimenti naturalistici. Non mancano,
comunque, attestazioni assai singolari, definite su tratti
fisionomici antropomorfi, dichiarati da cromie potentemente
introspettive e da sembianze figurali evocatrici di fascinazioni
etnologiche.
Il prediletto universo equoreo informa, in particolare, un
ampio pannello parietale, dal titolo “Fontana”,
interpretato sull’incedere verticale di una successione
di coppe sorgive che da una base d’acqua si elevano
in convergente progressione piramidale. La presenza di volatili
e di specie marine illeggiadrisce una composizione immaginata
nella vitale ascensione di forze vettoriali, nella fragranza
di colori tonali, nonché nella suadente reiterazione
di un floreale ed esornativo divenire perimetrico. Vivide
emergenze naturalistiche caratterizzano anche la vasta produzione
di piatti da parete, modellati sulla perfezione visiva della
circonferenza e su gamme cromatiche estese alla luce musicale
di fremiti vitali.
Così, la natura può evolvere in sagome di uccelli
acquatici, colti in altere ed amorose positure, assonanti
al magico fluire di attimi d’attesa o di sosta. Essa
assume, invece, tensioni più meditative in calibrate
composizioni floreali, nelle quali i vivaci sembianti dei
fiori emergono dall’intima oscurità di intrecci
vegetali che assecondano il dinamismo della riflessione. Ogni
realizzazione vibra di incisivi studi maturati nell’infinito
universo delle potenzialità cromatiche e luministiche,
espresse particolarmente nell’opera “Ragnatela”,
strutturata su diffuse incidenze e dilatazioni di luce ed
ombra, ritmanti una superficie prettamente pittorica. La sagoma
aggettante di un ragno, oltre a donare spazialità plastica
alla creazione, è inquietante presenza incombente su
una metaforica trama esistenziale evocativa delle ineludibili
leggi che contrappongono predatore e preda.
A Mastro Lupo va inoltre l’onore di aver realizzato
un piatto in ceramica che, riportando lo stemma civico della
città natale dell’artista, nonché simboli
della produzione agricola locale ed emblematiche emergenze
fisiche ed architettoniche del luogo, è divenuto eloquente
testimone del Comune di Predappio nel mondo. Invero, l’artista
rimase sempre intensamente legato al luogo delle sue radici,
alle suggestioni atmosferiche dell’ambiente fisico e
alla verità esistenziale di un mondo che lo vedeva
personaggio inconfondibile, intimamente ricco di vigorosa
sensibilità creativa e di energica tensione politica
e sociale.
Con la purezza dialettica della creta o del gesso, Mastro
Lupo plasmava introspettive teste virili che, nel veloce modellato
del volto, annunciano una spiccata propensione all’indagine
interiore e alla ricerca dell’intima essenza. Pur conservando
le valenze del ritratto, le opere dispiegano un’intensa
riflessione sulla condizione umana, enucleandone gli aspetti
individuali e corali che accordano fremiti di vita alla materia
inerte. Scavando entro l’assoluto dell’essere,
l’artista sembra voler evidenziare la verità
di un’esistenza eternata in scultura, inducendo quel
compito fondamentale dell’uomo che, per Erich Fromm,
nell’opera “L’arte di amare”, si conferma
nel “… dare alla luce se stesso”.
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n.9 |
La
dimensione laica di Mastro Lupo non impedì di realizzare
una significante produzione di opere a contenuto religioso,
intrise di profonde valenze sacre, coniugate con espansioni
del terreno dolore di vivere. Molteplici sono le interpretazioni
plastiche e cromatiche della “deposizione”, presenti
soprattutto, quale eloquente monito escatologico, su monumenti
funebri del Cimitero di San Cassiano a Predappio. Tali creazioni
si avvalgono di definizioni figurative e cromatiche che riportano
alla sofferenza esistenziale, percepita nel dramma di un misterioso
trapasso. Anche scabre formulazioni in terracotta del volto
di Cristo e di quello della Vergine non concedono tregua alla
gridata disperazione del martirio o alla pietrificazione attonita
della tragedia. Con dolorose espressioni di morte, solcate
da funeree incidenze ed austerità di luce ed ombra,
i visi esalano il verbo del dolore e della caustica meditazione.
Mastro Lupo, sensibile ai problemi della vita contingente,
giunse ad un fecondo connubio fra argomento sociale e tematica
religiosa, elaborando a rilievo un pannello in terracotta
patinata, nel quale è suggellato l’abbraccio
fra il mondo dei giovani, promessa di nuova vita, e la sfera
protettiva della spiritualità sacra, anelata verità
di luce. In sintonia con l’eloquio della narrazione,
l’opera è posta all’ingresso della Scuola
Materna Santa Rosa di Predappio che, nella chiesa annessa,
oltre ad una significativa cappella dipinta da Mastro Lupo,
custodisce un’incisiva “Via Crucis” dell’artista
romagnolo.
Le quattordici stazioni, profondamente icastiche ed intense,
si sviluppano su modulazioni scultoree drastiche ed aspre,
aderenti al sommo sacrificio di Cristo.
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n.10 |
Le
figure, nell’immanente dinamica compositiva, evolvono
per scarnificazioni di membra che adducono al dramma del martirio
cristologico e alla crudezza delle efferate responsabilità.
I tocchi cromatici accelerano il progressivo reclinarsi di
una luce offesa dalla condanna umana, sottolineandone il conseguente
dileguarsi nell’abisso dell’ombra. La dimensione
spirituale scaturisce dall’asperità di una figurazione
che, su una materia duramente aggredita, contrappone la pervicace
cecità del verdetto terreno alla provata coscienza
della redenzione.
La vicenda umana di Cristo, culminata nella crudele ascesa
al Calvario e nello scabro acme della crocifissione, si rivelò
illuminante faro ispiratore di ulteriori opere dell’artista,
nelle quali compendiò il destino e l’enigma dell’essenza
e dell’esistenza dell’uomo. Così, se un
introspettivo volto di Cristo, delineato sulla bidimensionalità
di una superficie in ceramica, vibra dell’armonica musicalità
di cromie calde e vivide e della purezza di una luce vellutata,
l’intima espressione accordata al viso non cela la consapevolezza
della verità e la rassegnazione ad una volontà
già scritta.
Sulla lievitante dimensione del vero è elaborata anche
una splendida “crocifissione”, realizzata in ceramica
bianca, che dall’assoluta oscurità di un fondo
blu presenta il corpo senza vita di Cristo, prostrato dal
peso della morte ed inesorabilmente reclinato su membra ormai
consegnate all’epilogo. La figura, lividamente chiara
ed immolata, è corporea essenza aggettante da una croce
bianca, simbolo di presentimenti di luce e di purezza sacrificale.
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n.11 |
Artista
versatile ed incisivamente immerso negli orizzonti di una
continua ricerca operativa, Mastro Lupo vive, ora, nelle testimonianze
oggettive di numerosissime opere custodite in raccolte private
od in spazi pubblici. Della sua inesausta creatività
è ulteriore, originale attestazione la formulazione
pittorica elaborata per l’abside dell’ex Chiesa
delle Caminate, che conserva un ciclo narrativo, recentemente
restaurato, improntato all’inconsueta, mirabile traslitterazione
a tempera di rimembranze musive ravennati. L’opera consente
di comprendere il poliedrico universo espressivo di un artista
che, con fervido estro, non poneva limiti alla propria urgenza
creativa. Col suo alto magistero, Mastro Lupo si conferma
quale encomiabile esponente di un’indagine figurativa
che si dichiara nelle valenze di una contemporaneità
vittoriosa su definiti confini di spazio e tempo.
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