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Mostra fino al 31 maggio 2003








Mostra Personale
MASTRO LUPO

 
UN ACCORDO FELICE TRA OSSERVAZIONE DELLA REALTA’ E TRASFIGURAZIONE NEL SENTIMENTO
di Enzo Dall’Ara

L’arte è vita, elevazione, dialogica intesa sociale con l’interiorità e con il mondo. L’artista è divulgatore di pensiero, di emozione, di ragione morale sublimata nel prisma olistico dell’immaginario etico.


n.1

Allora, arte ed artista divengono protagonisti di un “umanesimo” universale che, nella considerazione dell’uomo e delle sue azioni, non teme le acredini transeunti di agguerriti microcosmi storici. La dignità di uomo e natura esige il rispetto dell’idea e della proiezione ad ascese di concordia. Alto e positivo deve essere l’ideale artistico, dischiuso alla verità di un’affermazione vibrante, che non condanni al sepolcro la più pura espressione umana, ossia quella creatività che rende solenne il più semplice e dona umiltà al più pretenzioso.
Nella realtà di un mondo convulso, come l’attuale, è la comunicazione creativa che ha l’onere di stemperare fuochi d’aggressione e di detergere, da infingimenti contingenti, accarezzati aneliti di essenza trascendente. Chi sosta soltanto nel concreto, assiste e partecipa ad ineluttabili cadute, chi s’inerpica sui versanti del pensiero artistico, può salire e raggiungere le vette dello spirito. Ecco dove sono vinti gli affanni della materialità e risultano invece vittoriose le dimensioni rigeneranti della luce interiore.


n.2

L’artista non è mai solamente epigono del reale, bensì interprete di una sua verità assoluta che si conferma nel fermento di un innovativo atomo di creatività. In arte, la realtà accoglie i molteplici sembianti di una metamorfosi che si modella sulla sofferenza e sulla gioia dell’atto creante. Nascono, così, nuovi orizzonti del vero, più tangenti alle corde dell’essenza che consumate e tramandate certezze del reale, maggiormente consone a leggi scientifiche, ma sicuramente meno vivificanti. L’opinabilità dell’esigenza dell’arte perde pertanto consistenza e prendono invece vigore i fondamenti che suggellano l’immortalità dell’espressione creativa e l’urgenza dell’informazione del pensiero.
L’arte, quindi, intesa come paradigma di crescita dell’individuo e della collettività, diviene messaggio silenzioso o gridato di una voce interiore che è specchio di un modulato sottofondo sonoro. Allora ogni artista, al di là di più o meno consolidate affermazioni di notorietà, sente di appartenere ad un colloquio d’assoluto musicale, in cui poter siglare almeno una nota personale. Se la storia non è sempre prodiga di adeguati riconoscimenti, soprattutto in tempi e spazi ravvicinati e costretti, essa va dunque curata nelle sue disattenzioni, per perfezionarla nell’attesa della sua credibilità. Soltanto proiettandosi alle soglie, seppur utopistiche, della giustezza esegetica, s’inizia un tratto di cammino verso una possibile meta di chiarezza.
Alla luce di queste convinzioni, s’intende, qui e ora, togliere un velo di oblio disteso dallo scorrere del tempo sulla vitalità di una proposizione artistica senza dubbio significativa e pertanto meritevole di rinnovata attenzione critica. Il percorso di artista e uomo, di cui si va ad analizzare lo spessore dialettico, riguarda l’esperienza pittorica di un esponente della cultura figurativa romagnola del recente passato, ossia le significanze tematiche e lessicali delle opere di Benito Partisani, conosciuto in arte come Mastro Lupo.


n.3

Artista impegnato in un ampio ventaglio linguistico, valente ideatore e creatore di dipinti, nonché di realizzazioni ceramiche e scultoree, egli è stato maestro e guida di ammirati protagonisti dell’arte romagnola del XX secolo. La sua poetica, intrisa di alti valori esistenziali e di silente dimensione lirica, si afferma in un poliedro tematico che spazia in ogni campo della più intima tradizione pittorica. L’osservazione del reale non si esaurisce mai in pura rappresentazione iconografica, ma si tinge di un intenso afflato interiore, che consente di addivenire ad un’elaborazione assai introspettiva dell’elemento raffigurato.
Mastro Lupo non è stato soltanto artista di veritiera dichiarazione naturalistica, egli ha immerso il suo pennello nel plasma del dolore e della sofferenza, assecondando anche empiti di realismo sociale e di profonda riflessione sulle asperità del vivere. I suoi ideali di uomo e di artista assumono consistenza dal vissuto umano e dall’analisi dei moti dello spirito, per divenire vibrante colloquio di colore, luce ed emozione. In “Frammenti di un diario intimo”, Henri Frédéric Amiel affermava: «Un paesaggio è uno stato d’animo»; l’arte di Mastro Lupo concorda appieno con tale convinzione, poiché il dato naturalistico è sempre interpretato sulle onde di un gesto veloce che è diretta emanazione di vibrazioni interiori.
La formazione figurativa dell’artista romagnolo, maturata prevalentemente in un’autonoma ricerca personale, rivela talora percepibili echi della mirabile speculazione pittorica espressa dalla “scuola romana”. A Roma, infatti, Mastro Lupo ebbe l’opportunità di frequentare l’Accademia di Belle Arti, ove ottenne plausi per la serietà d’impegno, per l’abilità cromatica e segnica, per la propensione dimostrata alla formulazione anatomica. Ma il suo sentire artistico è costantemente permeato dell’amore per la terra natale, la Romagna, avvertita nella malinconica e poetica atmosfera di una solarità ambrata, spesso foriera di crepuscolari emersioni di memorie.


n.4

I paesaggi della collina romagnola, così consonanti con quelli della vicina Toscana, sono suggellati da una diffusione di colore-luce, di colore-ombra, che rimanda all’oggettività dell’impressione, ma in particolare alla fragranza gestuale della pittura di “macchia”. Gli spazi agresti non lasciano dubbi sull’intenzione dell’artista d’innescare un intimo dialogo con la natura, percepita nell’armonia acquietante dei suoi elementi fondamentali e nel sommesso fervore di occupazioni rurali. Vi è una poesia di fondo nelle vedute di Mastro Lupo, un sentimento introspettivo che freme allo scorrere delle ore e delle stagioni e che pervade di vivifiche enunciazioni il binomio uomo-natura.
Ma all’olio su tavola o su tela o alla sintesi del disegno il pittore consegna anche testimonianze fisiche ed antropiche di una storia recente, purtroppo ormai estranea allo sguardo dell’osservatore odierno. Così, i dipinti di Mastro Lupo vincono l’oblio del tempo e divengono messaggeri di una “cultura materiale” in cui allignano le nostre originarie radici. Cielo e terra si coniugano in suggestioni atmosferiche uniformi, suggellate da avvolgenti lumeggiature cromatiche che, nel silenzioso fluire del tempo, espandono sospensioni di attimi, enucleati come momenti esplicativi di una suprema verità. Allora, la quiete diventa stasi apparente di quel vitale dinamismo del pensiero che immerge lo spirito negli orizzonti arcani ed assoluti della trascendenza.
Il luogo delle origini dell’artista, Predappio, ed i territori limitrofi s’elevano da microcosmo geografico ad universo esistenziale, che accomuna l’umanità al cospetto dell’enigma della soglia liminare. E nel vibrante mistero di un “notturno”, in cui la luce lunare accende di chiarori volumetrici gli antichi muri di case-essenze, la presenza di un’assorta sembianza figurale annuncia la dignitosa compostezza dell’essere umano, fragile eppur emozionato davanti all’insondabile spettacolo cosmico e alla meraviglia di un borgo-acropoli. Ma il fermento interiore scaturisce anche da atmosfere diurne, quando l’arte dilaga fra campi coltivati e segue lo scorrere ondivago di un fiume che, in mirabili trasparenze cromatiche liquide o in impetuose densità di veemente flusso, appare emblematica e speculare metafora di vita.
Al verbo del simbolo e dell’essenza oggettuale Mastro Lupo affida la sintesi di un sincero e vivido colloquio artistico; le “nature morte” e, in particolare, le composizioni di fiori emergono come suadenti elaborazioni figurative, alle quali è assegnato il compito di esprimere le possibili tangenze ed incidenze fra bellezza estetica e scavo introspettivo. È come se il pittore volesse custodire, nel tattile turgore di frutti e fiori, la dionisiaca ebbrezza della natura e riflettere sul “carpe diem” oraziano, che incita a godere del presente, poiché il futuro serba sempre incertezze.


n.5

La tematica floreale è vissuta dall’artista in fascinazioni di accensioni coloristiche che evocano squillanti esuberanze naturali, roride di luci e di profumi attinti al fervore della vita. I prediletti papaveri, insieme ai fiori di campo, sollecitano una rigenerante riflessione sul valore della purezza agreste: con gli steli immersi nella vitrea liquidità di vasi trasparenti, essi annunciano il piacere carezzevole della luce e del timbro cromatico. Le rose, parimenti, effondono quei delicati e sensuali effluvi di vita che non possono però tacere anche assorte meditazioni su caducità e transitorietà d’esistenza.
Così, le “nature morte”, elaborate su composizioni di frutti sparsi, sovente coniugati con oggetti del vivere quotidiano, conservano un’intensa verità figurativa, pur non celando l’invincibile certezza della fine. Ma l’artista ama sostare maggiormente su percettive dimensioni vitali, informanti ancora la vellutata freschezza dei singoli elementi compositivi, quali allegorie di procrastinate illusioni d’eterno. Sensibile alle valenze strutturali di fervide volumetrie, egli calibra impianti scenici estremamente armonici, che giungono a ritmare spazio e profondità di suggeriti interni, complici di calde e poetiche suggestioni.
Avvolgenti ed intensamente introspettive risultano anche le atmosfere che accarezzano i nudi femminili, interpretati sempre nel rispetto di un’intimità esistenziale conforme ad un’essenza eminentemente riservata. La maestria segnica e strutturale assume evolutivi valori dialettici in cromie sobrie e soffuse, vibranti di una luminosità endogena che, dilatata da fremiti interiori, delinea raffinati tratti figurali, armonizzati nel silenzio introspettivo di interni vissuti con fervore meditativo. Il suadente pudore femminile non si piega mai all’inesorabile fluire del tempo e suggella composte positure che, con profondo afflato introspettivo, ubbidiscono a scultoree sembianze somatiche, definite nei vibratili spazi del pensiero.
Un’analitica indagine interiore sigla anche la copiosa produzione ritrattistica di Mastro Lupo, elaborata costantemente sull’esigenza di far emergere verità esistenziali, nel rispetto della riconoscibilità fisionomica. Se i ritratti vivono di un’intensità espressiva accelerata da dialogica ed eloquente caratterizzazione, gli autoritratti denotano il desiderio dichiarativo di un’identità che, nello scorrere del tempo, giunga a vincere l’eventualità dell’oblio. Essi evidenziano il divenire di una metamorfosi esteriore che, quale specchio di evolvente ed intimo dinamismo, non oscura mai un’incisiva affermazione di schiettezza, determinazione e semplicità di vita, ma anche d’intensa autostima e di sincera consapevolezza di ineludibili valori interiori.
Assai sensibile ai contenuti di una pittura deputata pure ad icastici moniti scaturenti da fermenti e drammi sociali, Mastro Lupo ha avvertito l’urgenza, soprattutto nel secondo dopoguerra, di avvicinarsi a formulazioni realistiche, atte a denunciare gravose problematiche economiche ed aberranti violenze perpetrate durante l’asperità bellica. Se elette scene di genere giungevano sovente ad immergere le figure nella genuina verità di tranquilli e lirici brani di paesaggio, ora la narrazione diventa dinamica e serrata, concorde con gravi contingenze esistenziali, che esprimono la drastica nudità del vivere.


n.6

Fortemente legato alla terra delle sue radici, l’artista si è spesso soffermato sulla rappresentazione simbolica di specifiche, scabre realtà sociali, trascritte in un linguaggio pittorico e segnico denso di espliciti contenuti, consegnati alla storia come memoriale verità di vita. La denuncia politica e sociale si tinge di atmosfere ancor più eloquenti, allorché sottolinea l’acme dell’efferata violenza dell’uomo consumata nel dramma di una “fucilazione”. Su scenari lividi ed inquietanti, l’epilogo di essenze trucidate si articola in una triade di figure che, come crocifisse, si piegano alla tragedia umana, nel silenzioso lamento di entità trafitte. Ombre e luci di dolore definiscono spazi di prostrazione e di tormento, consegnati al fatidico tempo del ricordo, su cui vagano tumulti d’intima “pietas”.
Parimenti, quando l’artista svolge narrazioni pittoriche e scultoree a contenuto religioso, egli entra nel dolente universo di un’umanità ferita, permeata dell’enigma di una verità concreta, eppur sfuggente, poiché votata alle soglie del mistero. «Nel mondo, ciascuno è Cristo, e tutti sono crocifissi», asseriva Sherwood Anderson in “Racconti dell’Ohio”; a questa considerazione si volge l’arte sacra di Mastro Lupo, nella certezza che l’essenza umana non può non soggiacere all’ombra di una luce spesso transeunte.
Le tematiche della “crocifissione” e della “deposizione” non lasciano dubbi su una composta rassegnazione che non è certamente fatale e puro accoglimento delle avversità, ma che si configura come piena consapevolezza della sofferenza umana. Nel segno di una chiara coscienza del vivere, affidata ad una rigenerante attività creativa, l’artista stempera l’affanno esistenziale nella luce cromatica di opere che, sull’onda di idealità emozionali, confermano i percettivi e fervidi abbrivi di una sottesa spiritualità laica.

“In questa bottega lavora Mastro Lupo, quando non è qui, è altrove”: così accoglieva amici, collaboratori e committenti Benito Partisani, in arte Mastro Lupo, personaggio singolare e poliedrico, autentico rappresentante della risoluta fierezza romagnola e artista d’indubbio valore semantico ed iconografico. La scritta, sigillata su una targa in ceramica, posta sul muro esterno dello studio, parla di un “altrove” che, allora, suggeriva spazi fisici dell’assenza e che, ora, rimanda ad un “oltre” enigmatico ed ignoto.
Oggi, la bottega è chiusa, silenziosa, quasi memento di una vita dedita all’arte, la cui parabola terrena si è conclusa nel 1969, spegnendo quell’inesauribile fiamma creativa che ha suggellato un’intera esistenza di ricerca e di passione. Il fuoco è spento, il forno a legna, monadico alter ego dell’artista, non è più rovente, e dove un tempo vibrava il fragore degli attrezzi e delle voci, ora insiste un’atmosfera d’oblio, malinconica e memoriale.
Predappio, città natale di Mastro Lupo, non ha più quello storico laboratorio che appariva quasi come fucina di Vulcano, in cui arte ed artigianato si fondevano nella completezza totalizzante dell’azione. Lì, l’artista dichiarava la sua vera identità, ossia dimostrava che il creare, come afferma Albert Camus nel saggio “L’uomo in rivolta”, significa “… dare una forma al proprio destino”. Mirabile pittore e disegnatore, Mastro Lupo indirizzava spesso la sua vis creativa a molteplici forme di arti applicate, alle quali infondeva l’innata originalità di un taglio espressivo artisticamente armonico e tecnicamente consolidato nel diffuso tempo dell’esperienza operativa.
Abile ceramista, egli avvertiva l’urgenza alchimistica di modellare la materia argillosa della sua terra, assecondando una proiezione d’infinito che pervenisse all’approdo della creazione e della sublimazione dell’idea. “I progetti sono promesse che la fantasia fa al cuore; e il cuore non rifiuta mai questi pericolosi regali”, così scriveva Jean-Louis Vaudoyer nel romanzo “La bien-aimée”. Se pertanto il pensiero programmatico, nonostante l’incognita del divenire, si dichiara in un intimo giuramento fra immaginazione e sentimento, come poter dubitare della gelosia e della protezione dell’artista verso le sue creazioni? Mastro Lupo difendeva strenuamente le sue opere e non lesinava parole ad un giudizio avvertito come critico: preferiva, allora, sottrarre una sua realizzazione al commento ritenuto incompetente e custodirla, amorevolmente, nel suo studio.
Uomo e artista d’azione, egli non era solito dilungarsi in pedanti esplicazioni, si compiaceva, piuttosto, di colloquiare d’arte, quando avvertiva sentori di dialettica comprensione. Di mente schietta e nel contempo pensosa, Mastro Lupo si orientava alle significanze del colore come alle suggestioni della modellazione plastica, innescando, forse, un incipit di liberazione che stimolasse almeno la coscienza dei valori tattili ed attivasse i processi psichici deputati al fermento della sensazione di piacere. Se il dipinto è godimento per lo sguardo e sintesi delle percezioni emotive, la scultura vibra di una bellezza più austera e ieratica, quasi matematica.


n.7

Avvertendo ogni valenza dell’arte, Mastro Lupo riscontrava forse nella scultura in ceramica quel connubio fra colore e modellato che consente all’operazione estetica di mediare fra realtà esterna e sfera interiore. Così, la pittura, fondamentalmente poesia silenziosa, s’accorda alla scultura, sovente proiettata a memoriale monito escatologico. Ma la ceramica, vissuta come vestizione pittorica di forme tridimensionali, permette di vivacizzare lo spazio con cromatica potenza dialogica e luministico vigore vitale.
Sosteneva Vasilij Kandinskij, nell’opera “Dello spirituale nell’arte”, che “il colore è un mezzo di esercitare sull’anima un’influenza diretta. Il colore è il tasto, l’occhio il martelletto che lo colpisce, l’anima lo strumento dalle mille corde”. L’arte figurativa s’avvicina, allora, alla dimensione emozionale della musica e ne coglie le intime sonorità e vibrazioni. Ecco, probabilmente, la vera motivazione che convinse Mastro Lupo a non abbandonare quasi mai il colore e ad amarlo a tal punto da analizzarne ogni segreto, fino a giungere alla personale creazione della materia pittorica. La sua lunga e feconda ricerca cromatica gli permise di conquistare mete operative inconsuete: l’artista approntò, perfino, specifici pigmenti che, in ceramica, non subivano alcuna mutazione tonale e timbrica nel processo di cottura ad alta temperatura.
Autentico alchimista della materia, Mastro Lupo la plasmava nel sapore metamorfico di una natura tinta di bellezza estetica e di sostanza introspettiva. I quattro elementi fondamentali dell’archè naturalistico si compendiano, pertanto, in una physis generatrice di connubi lirici, metafisici e, parimenti, realistici. Il plasma della terra e l’ossigeno dell’aria interagiscono, nell’azione creativa dell’artista romagnolo, con l’humus dell’acqua, in cui, ad eco mitologica, si specchia sempre l’immagine dello sfuggente fantasma dell’esistere. Ma è il fuoco, “… grande maestro delle arti”, secondo François Rabelais, che determina la consistenza dell’espressione ceramica e ne consente l’imperitura vita.
Un eloquente pannello, fissato alla parete esterna del laboratorio di Mastro Lupo, denominato “La Prè” e già sede negli anni ‘50 del Corso Vasai-Ceramisti di Predappio, riporta, ancora, poetici intenti di un’arte vissuta quale solidale vicenda esistenziale. Sulla targa in ceramica sta scritto: “Raccolta sulle sponde bagnate dal Rabbi, accarezzata dalla mano amorosa dell’uomo, baciata dal fuoco, porto nelle vostre case la freschezza e la leggiadria della forma e del colore”. Spirito e materia si fondono, quindi, nell’arte di Mastro Lupo, con quell’essenza e quella morfologia a cui i passaggi cromatici accordano la luce della vita e della fervida esperienza meditativa.


n.8

La produzione ceramica dell’artista, iniziata nei primi anni ‘50, spazia in ogni orizzonte formale, attestando una versatilità espressiva che è propria di un autore totale, in grado di incedere oltre la soglia della convenzione. Se molteplici risultano le opere ascrivibili ad assunti della tradizione, ugualmente numerose sono le creazioni ad afflato prettamente scultoreo. La vasta gamma di vasi fittili, alcuni elaborati in seno alla scuola di ceramica di Predappio, si afferma in un poliedro di forme che attingono sia alle sorgenti di esperienze trascorse, sia alle fonti di una creatività sollecitata da moderni accenti estetici.
Accanto ad elementi perfettamente modellati su simmetriche ed essenziali armonie di volumi, emergono realizzazioni che, varcando la consuetudine dell’euritmia geometrica, consentono fertili argomentazioni impresse su un’evidente libertà di accordi spaziali. Gli oggetti, non sempre deputati a funzioni d’uso, assumono caratteristiche originali, incidenti con l’esigenza di concretizzare l’emozione dell’idea. Le superfici dipinte, a cromie calde ed ambrate, consonanti con i toni eletti della pittura di Mastro Lupo, svolgono sovente una narrazione protratta su tematiche avvinte all’elemento acqua, elargendo luminose liquidità ed aspetti formali trattati, talora, su suggerimenti naturalistici. Non mancano, comunque, attestazioni assai singolari, definite su tratti fisionomici antropomorfi, dichiarati da cromie potentemente introspettive e da sembianze figurali evocatrici di fascinazioni etnologiche.
Il prediletto universo equoreo informa, in particolare, un ampio pannello parietale, dal titolo “Fontana”, interpretato sull’incedere verticale di una successione di coppe sorgive che da una base d’acqua si elevano in convergente progressione piramidale. La presenza di volatili e di specie marine illeggiadrisce una composizione immaginata nella vitale ascensione di forze vettoriali, nella fragranza di colori tonali, nonché nella suadente reiterazione di un floreale ed esornativo divenire perimetrico. Vivide emergenze naturalistiche caratterizzano anche la vasta produzione di piatti da parete, modellati sulla perfezione visiva della circonferenza e su gamme cromatiche estese alla luce musicale di fremiti vitali.
Così, la natura può evolvere in sagome di uccelli acquatici, colti in altere ed amorose positure, assonanti al magico fluire di attimi d’attesa o di sosta. Essa assume, invece, tensioni più meditative in calibrate composizioni floreali, nelle quali i vivaci sembianti dei fiori emergono dall’intima oscurità di intrecci vegetali che assecondano il dinamismo della riflessione. Ogni realizzazione vibra di incisivi studi maturati nell’infinito universo delle potenzialità cromatiche e luministiche, espresse particolarmente nell’opera “Ragnatela”, strutturata su diffuse incidenze e dilatazioni di luce ed ombra, ritmanti una superficie prettamente pittorica. La sagoma aggettante di un ragno, oltre a donare spazialità plastica alla creazione, è inquietante presenza incombente su una metaforica trama esistenziale evocativa delle ineludibili leggi che contrappongono predatore e preda.
A Mastro Lupo va inoltre l’onore di aver realizzato un piatto in ceramica che, riportando lo stemma civico della città natale dell’artista, nonché simboli della produzione agricola locale ed emblematiche emergenze fisiche ed architettoniche del luogo, è divenuto eloquente testimone del Comune di Predappio nel mondo. Invero, l’artista rimase sempre intensamente legato al luogo delle sue radici, alle suggestioni atmosferiche dell’ambiente fisico e alla verità esistenziale di un mondo che lo vedeva personaggio inconfondibile, intimamente ricco di vigorosa sensibilità creativa e di energica tensione politica e sociale.
Con la purezza dialettica della creta o del gesso, Mastro Lupo plasmava introspettive teste virili che, nel veloce modellato del volto, annunciano una spiccata propensione all’indagine interiore e alla ricerca dell’intima essenza. Pur conservando le valenze del ritratto, le opere dispiegano un’intensa riflessione sulla condizione umana, enucleandone gli aspetti individuali e corali che accordano fremiti di vita alla materia inerte. Scavando entro l’assoluto dell’essere, l’artista sembra voler evidenziare la verità di un’esistenza eternata in scultura, inducendo quel compito fondamentale dell’uomo che, per Erich Fromm, nell’opera “L’arte di amare”, si conferma nel “… dare alla luce se stesso”.


n.9

La dimensione laica di Mastro Lupo non impedì di realizzare una significante produzione di opere a contenuto religioso, intrise di profonde valenze sacre, coniugate con espansioni del terreno dolore di vivere. Molteplici sono le interpretazioni plastiche e cromatiche della “deposizione”, presenti soprattutto, quale eloquente monito escatologico, su monumenti funebri del Cimitero di San Cassiano a Predappio. Tali creazioni si avvalgono di definizioni figurative e cromatiche che riportano alla sofferenza esistenziale, percepita nel dramma di un misterioso trapasso. Anche scabre formulazioni in terracotta del volto di Cristo e di quello della Vergine non concedono tregua alla gridata disperazione del martirio o alla pietrificazione attonita della tragedia. Con dolorose espressioni di morte, solcate da funeree incidenze ed austerità di luce ed ombra, i visi esalano il verbo del dolore e della caustica meditazione.
Mastro Lupo, sensibile ai problemi della vita contingente, giunse ad un fecondo connubio fra argomento sociale e tematica religiosa, elaborando a rilievo un pannello in terracotta patinata, nel quale è suggellato l’abbraccio fra il mondo dei giovani, promessa di nuova vita, e la sfera protettiva della spiritualità sacra, anelata verità di luce. In sintonia con l’eloquio della narrazione, l’opera è posta all’ingresso della Scuola Materna Santa Rosa di Predappio che, nella chiesa annessa, oltre ad una significativa cappella dipinta da Mastro Lupo, custodisce un’incisiva “Via Crucis” dell’artista romagnolo.
Le quattordici stazioni, profondamente icastiche ed intense, si sviluppano su modulazioni scultoree drastiche ed aspre, aderenti al sommo sacrificio di Cristo.


n.10

Le figure, nell’immanente dinamica compositiva, evolvono per scarnificazioni di membra che adducono al dramma del martirio cristologico e alla crudezza delle efferate responsabilità. I tocchi cromatici accelerano il progressivo reclinarsi di una luce offesa dalla condanna umana, sottolineandone il conseguente dileguarsi nell’abisso dell’ombra. La dimensione spirituale scaturisce dall’asperità di una figurazione che, su una materia duramente aggredita, contrappone la pervicace cecità del verdetto terreno alla provata coscienza della redenzione.
La vicenda umana di Cristo, culminata nella crudele ascesa al Calvario e nello scabro acme della crocifissione, si rivelò illuminante faro ispiratore di ulteriori opere dell’artista, nelle quali compendiò il destino e l’enigma dell’essenza e dell’esistenza dell’uomo. Così, se un introspettivo volto di Cristo, delineato sulla bidimensionalità di una superficie in ceramica, vibra dell’armonica musicalità di cromie calde e vivide e della purezza di una luce vellutata, l’intima espressione accordata al viso non cela la consapevolezza della verità e la rassegnazione ad una volontà già scritta.
Sulla lievitante dimensione del vero è elaborata anche una splendida “crocifissione”, realizzata in ceramica bianca, che dall’assoluta oscurità di un fondo blu presenta il corpo senza vita di Cristo, prostrato dal peso della morte ed inesorabilmente reclinato su membra ormai consegnate all’epilogo. La figura, lividamente chiara ed immolata, è corporea essenza aggettante da una croce bianca, simbolo di presentimenti di luce e di purezza sacrificale.


n.11

Artista versatile ed incisivamente immerso negli orizzonti di una continua ricerca operativa, Mastro Lupo vive, ora, nelle testimonianze oggettive di numerosissime opere custodite in raccolte private od in spazi pubblici. Della sua inesausta creatività è ulteriore, originale attestazione la formulazione pittorica elaborata per l’abside dell’ex Chiesa delle Caminate, che conserva un ciclo narrativo, recentemente restaurato, improntato all’inconsueta, mirabile traslitterazione a tempera di rimembranze musive ravennati. L’opera consente di comprendere il poliedrico universo espressivo di un artista che, con fervido estro, non poneva limiti alla propria urgenza creativa. Col suo alto magistero, Mastro Lupo si conferma quale encomiabile esponente di un’indagine figurativa che si dichiara nelle valenze di una contemporaneità vittoriosa su definiti confini di spazio e tempo.

 
 
 
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BIOGRAFIA
Pittore, ceramista e scultore, Benito Partisani, in arte Mastro Lupo, nacque a Predappio, centro urbano della collina forlivese, il 21 gennaio del 1906. L’osteria-trattoria gestita dai genitori era luogo d’incontro di anarchici e socialisti del tempo. Ancora adolescente, alla morte del padre, seguì la madre a La Spezia, dove ebbe la possibilità di esprimere la sua spiccata predisposizione artistica nello studio dello scultore e pittore Del Santo. Successivamente, a Roma, in concomitanza con il servizio militare, frequentò l’Accademia di Belle Arti, ove si distinse per tenacia e capacità espressiva.
Giovanissimo, partecipò, a Bologna, ad una mostra di pittura, in cui si classificò fra i primi tre artisti presenti, ottenendo, così, il diritto di essere ammesso alla Biennale di Venezia. Ma una menzione apparsa su un articolo giornalistico, che faceva sbrigativo riferimento a Partisani come “figlioccio di Mussolini”, allora Capo del Governo, indusse il giovane artista a rifiutare l’ambita possibilità di partecipare alla Biennale. Assai amareggiato da questo accadimento, egli decise di non proporre più la sua arte né in collettive, né in personali.
Numerose sue opere si trovano, comunque, in spazi pubblici ed in collezioni private della Romagna; altre sono conservate in varie città italiane, in particolare a Roma, Bologna, Firenze, La Spezia, Trieste e sue realizzazioni in ceramica hanno varcato l’oceano. Partisani ebbe modo di conoscere illustri artisti e uomini di cultura, far cui Guttuso, il quale si recò appositamente a Predappio, per conoscere personalmente l’artista romagnolo, sollecitandolo, poi, a trasferirsi a Roma, per affermare la sua notorietà. Ma Partisani, di animo schivo, non si fece allettare da tale proposta e preferì rimanere in Romagna, accontentandosi di quello che la vita del suo paese poteva offrire.
Fu caporeparto della “Caproni”, già fabbrica aeronautica di Predappio, in cui si distinse sempre per le sue alte qualità morali e professionali. Egli rifiutò anche lauti compensi, negando un parere favorevole su un prodotto utilizzato in aeronautica, poiché temeva per la sicurezza e l’efficienza dell’aereo. La semplicità di vita di Partisani, uomo di ideali politici decisamente progressisti, non era, comunque, disimpegno sociale, tanto che, nel 1946, venne eletto Sindaco del Comune di Predappio, carica che ricoprì fino al 1951.
Terminata la legislatura, egli si dedicò completamente all’arte; nel suo studio, in Via Palmezzano, tenne anche la Scuola per Ceramisti “La Prè”, frequentata da numerosi, giovani allievi, che oggi ricordano il maestro con ammirazione, per lo spessore della sua espressione artistica e per il calibro di una personalità decisa, inquieta e schietta.
Partisani gioiva della sua arte e, riluttante ad ogni forma di commercializzazione e di calcolo economico, optò sempre per una vita semplice ed umile, a conferma dell’emblematica risposta data a suo tempo a Guttuso: «Quando posso avere cento lire per il caffè, le sigarette, ma soprattutto per un tubetto di colore, io mi sento compiutamente soddisfatto ed appagato».
Il 24 maggio del 1969, Benito Partisani lasciò Predappio per sempre, non per sua scelta, ma per morte prematura. La città di Forlì ha ricordato l’artista predappiese con una mostra antologica, tenuta alcuni anni fa negli spazi espositivi di Palazzo Albertini.

 

 

 






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